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Congresso EASD 2015 – Highlights

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Le relazioni del 15 settembre 2015

L’obesità in gravidanza è collegata allo sviluppo di diabete negli anni successivi: il rischio a lungo termine aumentato fino a 6 volte

CongressoMedico – Le donne in sovrappeso od obese al momento della loro prima gravidanza hanno maggiori probabilità di avere una diagnosi di diabete nei dieci anni successivi.

All’EASD 2015, Ulrika Moll, MD, dell’Università di Lund (Svezia) ha illustrato i risultati di uno studio condotto su oltre 15.000 donne svedesi che hanno rilevato che il sovrappeso, all’inizio della gravidanza, ha determinato un rischio aumentato di 6 volte di sviluppare diabete da 10 a 17 anni più tardi.

Nella sua presentazione, Moll ha detto che l’aumento ponderale durante la gravidanza non sembra influenzare lo sviluppo del diabete negli anni successivi: “Semmai, è un elevato indice di massa corporea pre-gravidanza che aumenta significativamente il rischio di sviluppare diverse malattie più avanti nella vita, tra cui il diabete e malattie cardiache”.

E ha spiegato che rispetto alle donne in gravidanza normopeso, quelle con un indice di massa corporea (body mass index, BMI) >25 kg/m2 al follow-up avevano un odds ratio di 6,4 per il diabete (IC 95% 3,5-11,6; p <0,001).

Ha anche scoperto che il sovrappeso prima della prima gravidanza:

  • aumenta il rischio di obesità al follow-up di 21,9 volte (p <0,001)
  • aumenta il rischio di malattie cardiache di 2,7 volte (p = 0,001)
  • aumenta il rischio di malattie endocrine di 2,3 volte (p <0,001)
  • aumentata il rischio di malattia psichiatrica del 60%, ma tale dato non è risultato statisticamente significativo se confrontato con donne normopeso.

Sorprendentemente, quando Moll e colleghi hanno esaminato gli esiti di donne che avevano registrato un aumento ponderale >15 kg durante la gravidanza, non sono stati in grado di trovare una differenza significativa per il diabete, malattie cardiache, ictus e malattie endocrine rispetto a quelle che non avevano avuto l’incremento.

Tuttavia, se una donna era in sovrappeso in gravidanza e aveva registrato un aumento ponderale >15 kg durante la gestazione, il rischio di sviluppare altre malattie a 10-17 anni risultava raddoppiato (p <0,001); e lo stesso valeva per le donne classificate come obese. E il loro rischio per altre patologie era 2,2 volte (p <0,001).

Dunque, ha detto la Moll, l’essere in sovrappeso od obese al momento del concepimento ha implicazioni negative per la gravidanza e il parto.

Per effettuare lo studio, i ricercatori hanno preso in esame una coorte di 23.524 donne del sud della Svezia correlata allo Swedish Medical Birth Registry, che rappresentavano 30.559 gravidanze, includendo solo la prima gravidanza registrata. Le donne hanno compilato i questionari autoriportati 10 a 17 anni dopo la gravidanza iniziale.

Alla fine, lo studio ha coinvolto 13.608 donne. Il loro BMI medio pre-gravidanza era 21,9; l’aumento ponderale medio gestazionale era di 14,5 kg; il BMI medio post-gravidanza era 24,6.

Moll ha fatto notare che l’età delle donne con un BMI medio <20 kg/m2 pre-gravidanza era inferiore (26,7 anni) rispetto alle donne che avevano un BMI >30 kg/m2 al momento della loro prima gravidanza (28,8 anni) (p = 0,002).

Le donne con maggiore riscontro ponderale al momento della prima gravidanza – quelle con un BMI medio >30 – avevano un minor aumento ponderale durante la gravidanza (aumento medio pari a 8,9 kg); le donne nelle altre categorie hanno avuto un aumento ponderale di 1 kg (da 13,8 a 14,8 kg). La differenza tra le donne con maggiore riscontro ponderale e quelle con più basso BMI è risultata significativa (p <0,001).

La Moll ha aggiunto: “Questi risultati hanno implicazioni per l’urgenza di identificare e curare giovani donne in età fertile che sono obese e in sovrappeso”.

Commentando lo studio, il co-moderatore Nita Forouhi, MD, capo dell’unità di epidemiologia nutrizionale del Medical Research Council presso l’Università di Cambridge (UK), ha detto che il lavoro è stato un ulteriore passo per capire i rapporti tra diabete e gravidanza. Ma ha anche aggiunto che lo studio non ha toccato alcuni aspetti critici: “Per esempio, non è stato valutato l’impatto del diabete gestazionale e non è stato valutato l’impatto sulla prole”. “Ma bisogna pur cominciare da qualche parte, e questo è lo scopo delle nostre indagini” ha concluso Forouhi, che ha aggiunto: “Questo studio stimola domande ed è necessario generare le ipotesi per studi futuri”.

Conflitto di interessi: I ricercatori hanno dichiarato l’assenza di conflitti di interesse.

Fonte: Moll U et al. The risk of developing diabetes and other diseases 10-17 years after pregnancy. EASD 2015; abs 11.


Due grandi studi mostrano che il rischio cardiovascolare nei soggetti diabetici è maggiore nelle donne rispetto agli uomini

CongressoMedico – All’EASD 2015, due diversi studi hanno evidenziato che le donne con diabete presentano, rispetto agli uomini, rischi molto più elevati di eventi cardiovascolari a partire dalla mezza età.

Il primo studio, condotto da Giuseppe Seghieri, MD, dell’Agenzia Regionale Sanità Toscana, e colleghi, include l’analisi di oltre 3 milioni di residenti in Toscana di età >16 anni (47% maschi). I ricercatori hanno scoperto che, nel complesso, le donne diabetiche avevano un aumento del rischio legato al diabete di ospedalizzazione per infarto miocardico (IM) acuto rispetto agli uomini (hazard ratio [HR] 2,629, IC 95% 2,484-2,781 vs. HR 1,963, IC 95% 1,877-2,053; p <0,05), ma non per l’ictus ischemico (IS) o insufficienza cardiaca congestizia (congestive heart failure, CHF).

Il secondo studio è stato condotto da Xue Dong, dell’Affiliated Zhongda Hospital of Southeast University di Nanjing (Cina). Donge colleghi hanno esaminato il rischio relativo di sindrome coronarica acuta in uomini e donne con diabete analizzando i dati provenienti da 8 studi caso-controllo e 10 studi di coorte comprendenti i dati di quasi 11 milioni di persone. Dong e colleghi hanno rilevato che il rischio di sindrome coronarica acuta associata a diabete era più alto di 2,46 volte (IC 95% 1,92-3,17) nelle donne e 1,68 (IC 95% 1,39-2,04) negli uomini. E tra i pazienti con diabete, le donne avevano un rischio significativamente maggiore di sindrome coronarica acuta rispetto agli uomini (rapporto pooled RR 1,38, IC 95% 1,25-1,52; p <0,001).

Il rischio varia in funzione dell’età

Nello studio di Seghieri, il rischio per le donne rispetto agli uomini variava per fasce d’età, ma la più grande disparità tra donne e uomini ricoverati per IM era nella fascia di età 45-54 anni (HR 5,827, IC 95% 4,299-7,720 vs. HR 2,879, IC 95% 2,493-3,304; p <0,05). E nella fascia di età 55-64 anni, le donne avevano un aumentato rischio rispetto degli uomini per ospedalizzazione per IS (HR 4,139, IC 95% 3,594-4,745 vs. HR 3,044, IC 95% 2,769-3,339; p <0,05) e CHF (HR 6,828, IC 95% 5,683-8,156 vs. HR 4,109, IC 95% 3,611-4,663; p <0,05).

“Per quanto riguarda l’infarto miocardico, le donne diabetiche erano maggiormente svantaggiate, rispetto agli uomini diabetici, con una finestra di rischio legata al sesso che si apriva per lo più in età peri-menopausale” hanno sottolineato i ricercatori. Che hanno ribadito: “Tutto ciò richiede attenzione per un tempestivo intervento di prevenzione gender-oriented degli eventi cardiovascolari nelle persone con diabete”.

Lo studio retrospettivo ha utilizzato i dati dal 2005 al 2012 provenienti da tre dataset di dati italiani. Il diabete è stato determinato sulla base di codici ICD-9 o dall’iscrizione in un registro del diabete regionale. Precedenti ricerche hanno documentato il rischio più elevato che devono affrontare le donne diabetiche, ma qui gli autori hanno notato che poche ricerche erano state fatte su e come il rischio potesse variare con l’età.

Seghieri e colleghi hanno detto che il prossimo passo sarà di esaminare il motivo di tale rischio sesso-specifico e cercare altri fattori responsabili che non sono stati inclusi nello studio. E hanno aggiunto che ci sono diverse teorie per spiegare perché le donne avrebbero un rischio maggiore rispetto agli uomini: è possibile che siano sottotrattate e può essere che giungano al trattamento più tardi nel corso della loro vita o che gli operatori sanitari siano più concentrati sugli uomini con il diabete. Ma una ragione chiara ancora non c’è.

Sindrome coronarica acuta

Nell’analisi di Dong, si sono verificati quasi 107.000 eventi di sindrome coronarica acuta fatali e non. Cinque dei 19 studi analizzati sono stati condotti in Nordamerica, 7 in Europa e 6 in Asia. Gli autori hanno cercato banche dati per studi rilevanti dal 1966 al 2014 e per includerli nella analisi dovevano riportare dati sesso-specifici su rischio relativo, hazard ratio o odds ratio associati al diabete e sindrome coronarica acuta.

Gli autori hanno detto che ci dovrebbe essere un focus sul trattamento del diabete nei pazienti di sesso femminile: “Dovremmo evitare pregiudizi sessuali nelle malattie cardiovascolari, prendere tutte le misure necessarie per diagnosticarle in anticipo e valutare i fattori di rischio per garantire i trattamenti più adatti e i migliori risultati possibili nelle pazienti di sesso femminile”.

Conflitto di interessi: I ricercatori hanno dichiarato l’assenza di conflitti di interesse.

Fonti:
Seghieri, G et al. Gender difference in diabetes related excess risk of cardiovascular events: When does the ‘risk window’ open? EASD 2015; post. 265.
Dong X. et al. Diabetes as a risk factor for acute coronary syndrome in women compared with men: a systematic review and meta-analysis. EASD 2015; post. 269.


Lo scarso controllo glicemico aumenta il rischio di demenza

CongressoMedico – In uno studio presentato all’EAD 2015 che ha esaminato i dati di oltre 350.000 persone è stata rilevata un’associazione tra scarso controllo glicemico e sviluppo di demenza.

Aidin Rawshani, MD, del National Diabetes Register and Institute of Medicinedi Göteborg (Svezia), ha detto che dopo aver aggiustato i dati per diversi fattori confondenti, le persone con un’HbA1c non controllata (definita come superiore al 10%) hanno avuto un 23% in più di rischio di sviluppare demenza rispetto alle persone con un’HbA1c inferiore al 6%.

Nella sua presentazione, Rawshani ha riferito che i suoi risultati provengono dallo studio dei file sanitari di 395.173 individui (età media 64,6 anni al basale) con un follow-up medio di 4,6 anni, pari a 1,7 milioni di persone-anno. Della coorte totale, 13.159 soggetti sono stati diagnosticati per una qualche forma di demenza – i più frequenti sono stati quelli con una diagnosi di patologia non certa; 3499 sono stati diagnosticati con malattia di Alzheimer; 3377 avevano una demenza vascolare.

“Livelli di HbA1c più elevati erano associati a un aumentato rischio di demenza nelle persone con diabete tipo 2” ha detto Rawshani. E una delle conclusioni del suo studio è stata che una diagnosi di demenza portava con sé una prognosi infausta: circa il 60% dei pazienti cui era stata diagnosticata la demenza era morto entro 10 anni, a fronte di una mortalità del 30% dei pazienti cui non era stata diagnosticata demenza.

Nello specifico, poi, il rischio di demenza rispetto ai vari livelli di HbA1c seguiva una curva a forma di J. Con un’HbA1c <6%, Rawshani ha segnalato rischi comparabili a quelli delle categorie di HbA1c superiori, con un rischio aumentato del 23 % con la glicata >10%: [hazard ratio 1,23, IC 95% 1,11-1,35; p <0,001).

I ricercatori hanno identificato tutti i pazienti con diabete tipo 2 registrati nello Swedish National Diabetes Registry dal 2003 al 2012 che non avevano avuto nessuna ospedalizzazione correlata alla demenza. Questi pazienti sono stati seguiti fino al ricovero in ospedale per demenza, alla morte o alla fine del follow-up (31 dicembre 2012). E’ stato utilizzato un modello computerizzato per calcolare il legame tra HbA1c e demenza adattato anche per variabili, tra cui l’età, il sesso, la durata del diabete, lo stato civile, il reddito, il livello di istruzione, l’abitudine al fumo, pressione arteriosa sistolica, l’indice di massa corporea, la funzione renale, l’assunzione di statine, i livelli urinari di proteine, il tipo di farmaco per diabete, la fibrillazione atriale, l’ictus e i farmaci per la pressione arteriosa.

Rawshani ha detto che un precedente ictus in tali pazienti aumentava del 40% la probabilità di sviluppare demenza rispetto a quelli senza ictus.

Ha ribadito “L’associazione positiva tra HbA1c e il rischio di demenza in pazienti abbastanza giovani con diabete tipo 2 indica un potenziale strumento per la prevenzione della demenza attraverso un miglior controllo della glicemia”.

E ha sottolineato che i pazienti più anziani – 67 e 68 anni – sembravano avere un migliore controllo glicemico, quelli con il più una più elevata HbA1c avevano circa 64 anni e circa il 54-55% dei pazienti in buon controllo glicemico erano uomini. I pazienti alle estremità della curva a J per l’HbA1c avevano una durata di malattia più breve: 4,22 anni per i livelli più bassi di HbA1cmedia, 5,5 anni per quelli con i livelli medi più alti; i pazienti con livelli tra il 7 e il 10% avevano una durata di malattia di 8-9 anni.

Commentando lo studio, il co-moderatore della sessione Nita Forouhi, MD, capo dell’unità di epidemiologia nutrizionale presso il Medical Research Council presso l’Università di Cambridge (UK), ha detto: “Penso che questi siano buoni dati preliminari, che ci forniscono una buona ipotesi. E la ricerca potrebbe dare il giusto impulso per comprendere sia il particolare equilibrio tra gli episodi di ipoglicemia e di iperglicemia sia per studiare non solo il link alla demenza ma anche il declino cognitivo”.

Forouhi ha detto che se ulteriori studi dimostreranno che il legame è reale, allora i medici potrebbero precocemente testare i pazienti con diabete per i segni di declino cognitivo e trattarli precocemente.

Forouhi ha poi notato che, nella lunga lista di fattori confondenti, i ricercatori non avevano considerato il consumo di alcool: “Penso che il consumo di alcool sia un fattore confondente importante perché sappiamo che c’è un’associazione tra consumo di alcool e rischio di demenza”.

Conflitto di interessi: I ricercatori hanno dichiarato l’assenza di conflitti di interesse.

Fonte: Rawshani A et al. Glycaemic control and incidence of dementia in 363,573 patients with type 2 diabetes: an observational study. EASD 2015; abs 10.


La liraglutide è efficace nel ridurre la steatosi epatica: il trattamento potrebbe ridurre i tassi di NAFLD futuri

CongressoMedico – In un piccolo studio prospettico, senza un gruppo di controllo, presentato all’EASD 2015, i pazienti diabetici trattati con liraglutide hanno visto una significativa diminuzione del grasso epatico.

Nello specifico, i ricercatori hanno misurato il contenuto di tessuto adiposo epatico in 43 pazienti con diabete per mezzo della risonanza magnetica spettroscopica (che hanno definito il “metodo gold standard” per la misurazione del tessuto adiposo del fegato) prima e dopo 6 mesi di trattamento con liraglutide: secondo Bruno Vergès, MD, PhD, presso l’Hôpital du Bocage, Centre Hospitalier Universitaire di Digione (Francia), e colleghi, i pazienti trattati avevano una riduzione del grasso epatico variabile dal 19,1 al 12,7% (p <0,001).

“Sapevamo da precedenti dati clinici che, con liraglutide, si poteva verificare un qualche cambiamento nel fegato steatosico, ma – primo dato importante – non ci aspettavamo di riscontrare una simile diminuzione del tessuto adiposo. L’altro dato importante è che uno dei principali fattori che spiegano tale diminuzione del grasso epatico è la riduzione ponderale” ha detto.

Il calo ponderale è risultato altamente correlato con una diminuzione del grasso epatico (r = 0,497; p <0,0001). “Probabilmente non è l’unico fattore, ma è un fattore importante” ha detto Vergès. La riduzione del grasso epatico è stata anche correlata con le variazioni dell’HbA1c (p = 0,043), degli ormoni tiroidei (p <0,026), di AST (p <0,0001), di ALT (p <0,0001) e massa grassa (p = 0,009).

“Entro pochi anni la steatosi epatica non alcolica (non-alcoholic fatty liver disease,NAFLD) diventerà probabilmente la più diffusa malattia epatica nei paesi occidentali, con necessità di trapianto di fegato” ha ribadito Filip Knop, MD, PhD, dell’Università di Copenaghen, aggiungendo che circa il 60-75% dei pazienti con diabete tipo 2 sono affetti da NAFLD: “Purtroppo, non esiste attualmente alcun trattamento medico per la NAFLD e il calo ponderale, estremamente difficile da mantenere nel tempo, indotto dal cambiamento dello stile di vita è attualmente l’unica opzione di trattamento” ha aggiunto.

I ricercatori hanno anche esaminato un sottogruppo di pazienti, quelli che hanno mostrato una riduzione ponderale al di sotto del 3,3% di valore mediano. In questo gruppo è stato osservato un calo pari a quasi il 20% nel contenuto di grassi epatici (p = 0,029), anche se non vi era alcun significativo calo ponderale.

E hanno precisato: “Anche se la riduzione ponderale indotta da liraglutide sembra essere un fattore importante per promuovere la riduzione del grasso epatico, non possiamo escludere un’azione diretta di liraglutide sulla lipogenesi, visto che una notevole diminuzione del grasso epatico è stato osservato in pazienti senza significativa riduzione ponderale”.

Knop ha detto che sarebbe interessante se la riduzione del grasso epatico fosse realmente indipendente dal calo ponderale: “L’idea generale è che il calo ponderale associato con liraglutide possa contribuire a ridurre il grasso epatico, ma è interessante notare che gli investigatori hanno anche osservato una riduzione del grasso epatico in pazienti trattati con liraglutide senza calo ponderale: cosa che indica un effetto della liraglutide sui grassi epatici indipendente da esso”.

Vergès ha tuttavia sottolineato che i risultati illustrati devono essere interpretati con cautela date le piccole dimensioni dello studio e l’incapacità di escludere altri fattori in gioco a causa della mancanza di un gruppo di controllo: “Dobbiamo essere molto cauti circa l’effetto specifico della liraglutide, anche perché, nello studio, tutti i pazienti hanno ricevuto lo stesso dosaggio, quindi non ci sono dati su come il dosaggio possa influenzare il grasso epatico”.

Trentacinque pazienti (81,3%) avevano steatosi al basale, definita come un contenuto di trigliceridi epatici superiore al 5,5%. I pazienti in trattamento con liraglutide hanno avuto un calo ponderale medio di 4,4 kg (p <0,001) e una riduzione media di HbA1c di 2,6% (p <0,001), oltre alla riduzione di steatosi.

Tutti i pazienti sono stati sottoposti a trattamento stabile per almeno 3 mesi prima di iniziare lo studio e tutti avevano livelli di HbA1c <7%. Nessuno di essi è stato in trattamento con tiazolidinedioni o con un inibitore della DPP4.

In conclusione: “Ulteriori studi sono necessari per esplorare i meccanismi coinvolti nella riduzione del grasso epatico connessa al trattamento con liraglutide” hanno detto Vergès e colleghi.

Conflito di interessi: lo studio è stato supportato da un grant di Novo Nordisk. Il Dott.Verges ha dichiarato relazioni con Sanofi, AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Bayer HealthCare Pharmaceuticals Novo Nordisk.

Fonte: Verges B. Treatment with liraglutide leads to an important reduction in liver fat content, assessed by magnetic resonance spectroscopy, in people with type 2 diabetes. EASD 2015; oral pres. 13.