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Diabete No Grazie

Il diabete è un camaleonte, ed è una ‘spia’

Il diabete sembra avere la straordinaria capacità di plasmarsi e di confondersi con noi stessi, la nostra società, il nostro stile di vita. Una malattia camaleonte che riesce a nascondersi dentro la società, a confondersi quasi amabilmente con le nostre abitudini e vite, anche quando infine si rivela nei suoi sintomi e nei suoi disagi. Di Maurizio Sentieri

di Maurizio Sentieri

Il diabete… molte definizioni per una stessa malattia eppure c’è qualcosa che non soddisfa: frammenti di verità che si accavallano come parziali fotografie e che non consentono di arrivare a nessuna immagine definita. Anzi, queste immagini tendono ad assomigliare quasi a dei ‘selfie’, punti di vista soggettivi e autoreferenziali di noi stessi e delle nostre società.

Il diabete come malattia della civiltà del benessere appare comunque una relazione ampiamente consolidata, lo raccontano tutte le indagini epidemiologiche, lo conferma la realtà storica, dove ogni paese che attraversi rapidamente l’orizzonte esistenziale da civiltà agraria a quella industriale ad alto reddito, ha sempre avuto il diabete come convitato di pietra. Insieme ai traguardi del progresso e di una maggior ricchezza economica il diabete è stato l’ospite silenzioso che presto ci siamo ritrovati in casa ad un certo punto della vita, nostro malgrado.

Il diabete di tipo 2 o ‘dell’età adulta’, è l’ospite che ad un certo punto inizierà a muovere passi strascicati al nostro fianco, passi felpati e silenziosi inizialmente, per così dire in ‘babbucce di feltro’ per una malattia che si definisce appunto ‘degli anziani’…

E questo qualunque sia la nostra origine, il nostro aspetto, la nostra occupazione, i nostri hobbies, i nostri gusti, qualunque siano i nostri guai o i nostri sogni, qualunque sia la casa che abitiamo o la famiglia che abbiamo, comunque sia un benessere conquistato con fatica o semplicemente ereditato…

Comunque la si veda il diabete sembra avere la straordinaria capacità di plasmarsi e di confondersi con noi stessi, la nostra società, il nostro stile di vita… Una ‘malattia camaleonte’ potrebbe essere una definizione e un’ analogia che dice qualcosa di diverso delle definizioni di cui sopra. Una sua essenziale proprietà è infatti quella di nascondersi dentro la società, di confondersi quasi amabilmente con le nostre abitudini e la nostra vita, anche quando infine si rivela nei suoi sintomi e nei suoi disagi.

Del diabete spesso non ci si accorge, e poi con il diabete si convive lungamente, così come non suscita alcuna reazione drammatica quando qualcuno ne è colpito…

La stessa espressione “ha un po’ di diabete” per indicare una glicemia alterata rende bene l’idea della tolleranza che abbiamo verso questa malattia. Ma una malattia camaleonte inevitabilmente deve essere qualcosa che non si vede… eppure… eppure deve esserci qualcosa d’altro…

Stile di vita è l’espressione che diamo oggi al modo in cui viviamo. Se si esclude per un attimo quello che comunemente pensiamo con questa espressione: abbigliamento, vacanze, alimentazione, auto, abitazione, tempo libero, consumi, interessi… e si adotta invece il punto di vista delle cellule, dell’organismo, della nuda biologia insomma, ci si accorge che tutti siamo sostanzialmente attori di uno stile di vita ‘unico’, uno stesso stile per esistenze che scorrono in un ambiente fatto di bassa attività fisica e di grande disponibilità di fonti alimentari: è la rivoluzione della modernità bellezza!

Già la modernità… Di fatto, oggi per vivere una ‘energia non muscolare’ – dall’auto al più semplice degli interruttori – svolge la quasi totalità dei lavori e il cibo mai è stato così disponibile e a basso costo. ‘Macchine infinite’ hanno tolto al nostro vivere la necessità di lavoro fisico mentre un cibo sempre presente è diventato panorama comune delle nostre città e delle nostre giornate. Basti pensare che lo status sociale non dipende più da cosa contiene il frigo, ma casomai dal modello dell’elettrodomestico: che sia una ‘mezza parete’ stile californiano o un banale due compartimenti, dentro infatti troveremmo sostanzialmente gli stessi alimenti.

Indietro non si torna… già… è il progresso, è la democrazia bellezza!

Non c’è del resto vera democrazia senza giustizia sociale e un maggior benessere economico è una delle conquiste delle democrazie occidentali; in questo senso, il diabete è una malattia quasi perfettamente ‘democratica’ perché colpisce tutti indistintamente, poveri e ricchi, in una società in cui fondamentalmente si è tutti ricchi (in realtà resta proporzionalmente più diffuso nelle classi sociali meno favorite ma è l’istruzione che fa da effetto protettore).

Allora il diabete nel suo essere generalizzato, epidemico e democratico rivela qualcos’altro di quel che è: una spia evidente di un rapporto con l’ambiente profondamente sbagliato.

Dicevamo cellule e biologia, inevitabile quando si parla di salute e malattie partire da lì e lì tornare… Il punto è che i tempi della biologia quando riferiti alla specie sono sempre tempi lunghissimi e i profondi mutamenti introdotti nel nostro ambiente sono di poco più di ieri… neanche un secolo.
Erano pochi i diecimila anni che ci dividevano dalla rivoluzione neolitica, quando imparando a coltivare cereali abbiamo messo le basi per la nostra sedentaria società come per l’attuale alimentazione ed è nulla il lasso di tempo che ci divide dall’ingresso nella modernità industriale.

Allora, ripensare al proprio stile di vita necessariamente non può non significare l’inizio di una rivoluzione personale oltre che un viaggio nel tempo. Ripensare al proprio stile di vita deve essere come trovarsi nudi davanti a uno specchio, qualcosa che ci mette in discussione nel profondo, lontano da ogni vanità, scorciatoia o facile consolazione di facciata che l’espressione odierna lascia intravedere.

Davanti a un altro specchio, quello della storia, può allora meglio affiorare qualche immagine di quello che siamo diventati. Fino agli anni cinquanta era la cucina la stanza più importante: in cucina ci si muoveva, si lavorava, si preparava il cibo, si mangiava, parlava, viveva…dalla cucina si andava verso l’esterno, fosse l’orto, la legnaia, la strada. Gli anni cinquanta, gli anni che scoprono i giovani come una categoria sociale, gli anni che vedevano l’Europa innamorata dell’America e della sua modernità, dei suoi miti, gli anni in cui Alberto Sordi in una cucina romana, non poi così diversa, mangiava ‘cibo ammerecano’ indossando i jeans…

Oggi la stanza più importante in qualunque appartamento è diventato il soggiorno, detto anche ‘living’ (dall’inglese ‘to live’, vivere, e per la profonde verità che rivela il linguaggio è la stessa stanza che un tempo in italiano veniva chiamata salotto, ovvero piccola sala, doppione minore di cui i più non sapevano bene che fare).

Il soggiorno come camera più importante e il divano il più significativo tra i mobili, immancabilmente di fronte al televisore: una stanza e un mobile che insieme, sono diventati un’icona architettonica della nostra civiltà e del nostro modo di vivere, nello stesso momento un simbolo e un involontario ‘monumento’ alla nostra sedentarietà.

Nel frattempo, da decenni i jeans non distinguono più i figli dai padri e un’umanità ossessionata dal mito di un’eterna giovinezza calza sneakers sempre fiammanti… è la stessa umanità che grassa come non mai ignora il diabete mentre si intrattiene con “sogni di palestra”.

“…Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano… si lavora ancora perché il lavoro è un modo per passare il tempo ma si fa in modo che questo divertimento non danneggi. Non si è più poveri o ricchi: entrambe le situazioni sono troppo impegnative… si è saggi e si sa tutto quello che è accaduto: così non si finisce mai di sorridere… si possiede la piccola gioia per il giorno e il piccolo piacere per la notte… scrisse Friedrich Nietzsche in Così parlò Zarathustra.