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Diabete.it

Una svolta a 360 gradi

In trenta-quarant'anni la diabetologia è cambiata moltissimo, tanto da tornare, per certi aspetti, a quella visione globale del paziente (e non degli organi) che aveva caratterizzato la medicina per millenni. Pur essendo migliorate le possibilità di cura, c’è però un indispensabile rapporto di fiducia spesso da ricostruire. Lo racconta Paolo Fumelli

Intervista a Paolo Fumelli

Dirige l’Unità Operativa di Diabetologia e Malattie metaboliche dell’IRCSS Istituto nazionale di ricovero e cura per gli anziani INRCA di Ancona. È docente di Endocrinologia e Scienze dell’alimentazione presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Ancona

La diabetologia è cambiata moltissimo negli ultimi decenni. Va da sé. Abbiamo visto crescere le insuline, divenute sempre più pure, affidabili, facili da iniettare e oggi disponibili in molte ‘versioni’. Non parliamo dei farmaci ipoglicemizzanti e del controllo domiciliare della glicemia. E che dire degli esami biochimici e funzionali? Scrivendo questa pagina di diario io, che sono primario da trentatré anni (oggi non si dice più ‘primario’, ma ci siamo capiti lo stesso, no?) e medico da quasi quaranta, preferisco parlare delle cose che non sono cambiate poi tanto.

L’organismo si fa beffe delle specializzazioni. O per meglio dire una è mutata così radicalmente da percorrere – come una lancetta – tutto il giro dell’orologio e ritornare al punto di partenza. Per fortuna, secondo me. Mi spiego: quando ero all’Università negli anni Sessanta le specializzazioni quasi non esistevano. Pochi medici avrebbero rinunciato a un approccio globale, oggi si direbbe ‘olistico’ verso il paziente, per il gusto di dividersi o lottizzare gli organi (il pancreas lo segui tu, io mi occupo del rene e tu del cuore). Oggi però scopriamo che la fisiologia si fa beffe delle specializzazioni sempre più marcate e degli organigrammi dei reparti. Condizioni, come il diabete e la sindrome metabolica attraversano tutto l’organismo, collegando il nobile ipotalamo (nel cuore del misterioso cervello) con il più terreno adipe (la ‘ciccia’ insomma), il fegato con i muscoli e il cuore con… tutto.

Il diabetologo, disegna dei percorsi.  Il diabetologo, che ha il destino di essere pioniere, riscopre quindi il gusto dell’approccio ‘olistico’. Capisce che non può limitarsi a mandare il suo paziente da questo e da quello specialista ma deve disegnare e gestire dei percorsi, e per farlo deve riprendere a studiare, non può più delegare il fegato all’epatologo, le arterie al cardiologo e così via. E soprattutto non può rinunciare a curare il ‘paziente’ nascondendosi dietro gli organi.

Il medico ha più fiducia nel paziente… e il paziente? Un secondo aspetto che non è molto cambiato è il colloquio con il paziente. Oggi come ieri ci si ritrova ai due lati della scrivania a parlare, a stabilire un contatto. Noi medici sempre più disposti a delegare, a dare fiducia e spazio al paziente, un paziente che oggi ha i mezzi tecnici e culturali per curare da sé il suo diabete. Spiace dire (non vi offenderete vero? su un diario non si può essere che sinceri) che a questa apertura di credito non sempre corrisponde un comportamento in sintonia da parte del paziente. Che è sì più informato, ma spesso è male informato. Non di rado aleggia il sospetto nei confronti del singolo medico e dell’istituzione. E qualche volta aleggia della diffidenza, che a volte si esprime anche in modi estremi, nei confronti del singolo medico e dell’istituzione. Non si può fare ed essere diabetologo al di fuori di un clima di fiducia. L’esperienza americana mostra come questo clima abbia solo effetti deleteri: demotiva il medico a ‘osare’, a uscire dal seminato, a verificare opportunità diverse e particolari per quel paziente… ma sto divagando.

Perdita di contatto con il paziente. Forse anche noi medici abbiamo una responsabilità in questa ‘perdita di contatto’. Dico ‘contatto’ in senso letterale. Una volta il cuore della visita era dato da quelle manovre tipo palpazione o auscultazione che costringevano il medico anche a “toccare ” il paziente con un rapporto sicuramente più stretto. Paziente e medico erano davvero vicini. Lo sviluppo della tecnologia ha ridotto notevolmente il ruolo della clinica: la diagnosi viene rimandata all’ecografia, al doppler, alla tac. Non stupisce che questo rapporto diventato asettico sia interpretato come burocratico. Ma basta lamentarsi. Parliamo delle cose che sono cambiate in meglio.

Non siamo più glicemologi e forse nemmeno più diabetologi. Siamo… medici. Nei Centri di diabetologia oggi operano dei veri Team. Ai medici si affiancano infermieri, dietisti, podologi, e altri professionisti senza i quali fare seriamente diabetologia oggi sarebbe impossibile. D’altra parte aumenta anche il numero dei pazienti; oggi un Servizio di diabetologia segue 3, 4, 5 mila persone. Sono sempre di più anche perché i ‘nostri’ pazienti vivono più a lungo. Ai tempi in cui ero all’università ‘ogni anno di diabete era un anno da togliere all’attesa di vita’. Noi diabetologi non siamo più ‘guardiani della glicemia’ che è solo un aspetto del problema, a volte nemmeno il più importante. Quando finalmente impareremo a scrollarci di dosso anche l’ultima vestigia della specializzazione, allora ci chiederemo a cosa serve definirci diabetologi. Forse domani ci potremo chiamare ‘metabolologi’ (ai brutti neologismi non c’è mai fine).

Una nuova definizione: ‘medici’. Io se avrò voce in capitolo, proporrò di ricominciare a definire il nostro mestiere, quello di chi aiuta il paziente a cambiare le proprie abitudini, ad acquisire stili di vita più sani e a vivere meglio e più a lungo, con una parola antica e desueta: ‘medici’.