Flavio Soriga
(Cagliari 1975)
scrive racconti e articoli, organizza festival letterari, partecipa a serate insieme a jazzisti... insomma fa un sacco di cose, soprattutto da quando ha smesso di porsi problemi stupidi come quelli sulla normalità/diversità.
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Alle scuole medie una professoressa simpatica dedicò una strana lezione ad uno strano tema, gli uomini e le
donne, Che non sono uguali, ci disse, Ma non sono diversi, e ci guardò e aspettò una domanda, una richiesta
di aiuto, ma noi eravamo piccoli e cretini e sapevamo solo ridere, alle parole uomo e donna, soprattutto se
messe vicine, forse le ragazzine ascoltavano attente, non lo ricordo, la professoressa non era una che si
fermasse per delle risate, Uomo non uguale Donna, ci disse, e lo scrisse alla lavagna, con un segno in cui
si vedevano le due linee parallele dell'uguaglianza sbarrate in diagonale, Non sono diversi, non sono uguali,
disse la professoressa, che era una tipa strana e portava calzettoni e sandali anche d'inverno, perché diceva
di non sopportare le scarpe.
Ecco, quanto quella lezione fosse intelligente, nonostante in quella mattina mi fosse sembrata noiosa e poco
chiara, l'ho capito un secolo e mezzo dopo. Un mattino di prima estate dei miei vent'anni, andavamo al mare,
ci eravamo fermati a comprare dei panini, un piccolo supermercato all'uscita della città. Ero con una bella
ragazza americana, un nuovo amore appena nato, che di me sapeva poco, quello che le avevo raccontato, delle
cure che facevo e della normalità della mia vita, di cui si era sì convinta (l'aveva potuta provare, vedere
dimostrata), ma evidentemente non fino in fondo. Io ti conosco, mi disse la commessa quella mattina, e aveva
una voce cupa e una faccia triste, Io ti conosco, tu conoscevi mia sorella, vero? Abbiamo iniziato il giro
delle domande, chi è tua sorella, cosa fa dove studia, ma la sorella era morta, e alla fine si è scoperto
che aveva avuto la mia stessa malattia, dalla nascita come me, e che per qualche motivo la commessa l'aveva
scoperto dal mio viso, da qualche segno che i parenti stretti imparano a riconoscere, almeno così è stato
per tanto tempo, fino alle cure migliori di oggi, che ci permettono un'uguaglianza d'aspetto con gli altri,
con i normali. Soltanto, io quella sorella ormai morta non l'avevo mai vista, mai conosciuta. Lo scoprii con
certezza quando quella commessa, ormai lanciata sulla pericolosa discesa dei ricordi e della commozione, tirò
fuori dal portafoglio una foto, vecchia e spiegazzata, della sua sorella, Bella, ci disse quasi alle lacrime,
Era bella e aveva i capelli lunghi, era normale, ripeteva ogni due parole, Era proprio normale, stava bene.
Poi un giorno, all'improvviso, Pum! È caduta per terra, in camera sua, ed è morta.
Ecco, quel mattino, in quel piccolo supermercato, ho perso una ragazza che credevo di amare (non fosse stato
per la sua incapacità di provare a capire, ad andare oltre il normale e il no), ho imparato quanto siano
pesanti certe parole, quanto i primi ad innamorarsi dei concetti comodi, a non voler andare oltre, siano
spesso i famigliari, i genitori, le sorelle.
Non si è mai normali, non si è mai diversi. L'ho iniziato a capire quella mattina, quando ho cercato di
spiegare alla ragazza americana, in lacrime, disperata, terrorizzata, che io non ero come quella sorella
buonanima, che ero nato molto tempo dopo di lei, che avevo fatto cure migliori, che avevo avuto la
fortuna di essere sempre curato bene, come a lei, si vedeva anche dalla foto, non era stato possibile.
Ma quello che volevo spiegarle, e più andavo avanti più lo capivo, quello che volevo dimostrarle, con le
parole più sentite che potessi trovare, era la mia normalità, la mia non diversità. Solo che non potevo,
perché sapevo che non era vero, non fino in fondo, non completamente. Io non ero normale, avevo una malattia
con cui fare i conti, da tenere sotto controllo, con cui convivere. Lei no. Eppure io nuotavo meglio di lei,
facevamo l'amore come tutti gli altri, mangiavamo fuori, studiavamo, viaggiavamo, nulla di me aveva mai
creato problemi, la mia vita era NORMALE. Ma io, io cosa ero? Cosa sono? Da quella mattina, la domanda è
tornata, naturalmente, forse è la domanda più frequente, è LA domanda di tutti quelli che hanno un problema
di salute, o qualcos'altro che li allontani dallo schema deciso dalla società per ciò che è normale.
Ho conosciuto un ingegnere marocchino, una volta, che aveva più o meno il mio stesso problema: aveva
conosciuto una ragazza, si erano innamorati, ma lei aveva paura per lui, non riusciva a superare questa
paura: per il permesso di soggiorno, per la sua pelle scura e quello che di brutto poteva portare, per
quello che potevano pensare i suoi genitori, le amiche, perché era un extracomunitario, in qualche modo
non-normale. Però lui guadagnava il triplo di lei, veniva da una famiglia agiata, parlava tre lingue,
aveva girato il mondo. Vedi, mi disse una volta questo ingegnere, Non c'è niente che possiamo fare, sarà
sempre così: la gente ha bisogno di una normalità con cui confrontarsi, e uscire da questa normalità,
anche solo di un mezzo passo, fa paura. Fa paura stare vicino, o avere per figlio, qualcuno che possa
soffrire per questo mezzo passo in direzione diversa. Oggi non mi chiedo più SE sono normale, lo so e
basta. Ho incontrato migliaia di persone che lottano (o semplicemente convivono) con le malattie, con
qualche problema di salute. Alcuni solo con l'obesità, che può rovinarti i pensieri e la tranquillità
peggio di una malattia grave. Oggi non mi chiedo più SE sono normale perché semplicemente lo so. Non
ci sono parole per spiegarlo, questo ho capito con gli anni: o ci credi, e lo senti, e sei capace di
farlo sentire e credere a chi ti sta vicino, o non ci sono parole che ti possano aiutare. Chi è schiavo
dei concetti, come quello della normalità, non ne può uscire, non può liberarsi, è destinato a soffrire
questa schiavitù e, purtroppo, a farne soffrire altre persone, per esempio i suoi figli, se non rientreranno
nei suoi schemi. Quella mattina di scuole medie, quella signora con i sandali invernali, stava facendo un
tentativo disperato, generoso ed inutile. O forse con noi, ragazzi non rovinati dagli schemi, credeva di
avere ancora qualche speranza. Davanti alle madri inferocite, invece, deve aver capito anche lei che le
parole, in queste cose, per quanto potenti e sentite e vere, le parole non hanno forza abbastanza.
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