Chi ha un problema di salute pretende, spesso, delle certezze. Di rado i medici rispondono con dei 'sì' o dei 'no'. La medicina si esprime sempre di più attraverso delle percentuali, a una persona si può attribuire il 5, il 20 o il 50% di possibilità di sviluppare una certa patologia in un arco di tempo. Una terapia o un intervento può avere il 60, il 90 o il 99% di probabilità di successo... I professionisti della salute sono a loro agio con queste definizioni. Perché sono a loro modo assai precise e 'scientifiche', supportate da ricerche condotte e affinate in ogni parte del mondo; perché il linguaggio delle probabilità fa parte della loro formazione scientifica e in terzo luogo perché... non sono loro ad avere quel problema di salute. La logica del paziente è infatti diversa. Detto in altre parole: per un chirurgo è facile affermare che un intervento ha il 99,9% di possibilità di successo. Ma il 'paziente' non ha un 'portafoglio di casi': ha solo se stesso. E quel caso su mille potrebbe essere lui. D'altra parte il dato che il chirurgo offre non è privo di senso... insomma anche questo aspetto della comunicazione medico-paziente nasconde problematiche ardue. Adrian Edwards, ricercatore presso il Department of Primary Care, Swansea Clinical School, University of Wales e guest editor di un intero numero che BMJ ha dedicato alla comunicazione del rischio, sta dedicando da molti anni la sua attività di ricerca su questo tema.

Partiamo da un dato molto semplice. I professionisti della salute hanno una visione del rischio diversa da quella dei pazienti. Per i primi è un'evidenza scientifica su basi statistiche, di popolazione, per i secondi è una questione strettamente individuale. È solo un problema di differenti livelli di conoscenza?

No, sono due prospettive differenti, talvolta anche in conflitto tra loro. Nel provare a tradurre in categorie di rischio individuale i dati statistici, i medici devono esser ben consapevoli di quello che gli esperti di comunicazione chiamano 'framing effect'. Lo stesso dato può essere contestualizzato in modo differente e avere un impatto diverso sui pazienti. Se dico che un certo evento negativo ha 1 possibilità su dieci di manifestarsi, il paziente si sentirà più motivato a scongiurare il rischio. Se dico che l'evento ha 9 possibilità su 10 di non manifestarsi, la sensazione di allarme e la motivazione cala.

Il contesto è importante, ci sono però anche altri fattori che influenzano la risposta alla comunicazione del rischio, immagino. Il tempo a disposizione del medico, per esempio...

La mancanza di tempo è spesso una comoda scusa a cui ci si aggrappa. Ci sono fattori altrettanto importanti come la capacità e l'attitudine verso un certo modo di intrattenere la relazione con il paziente.

Cosa possono fare i medici per migliorare le proprie abilità comunicative?

Essere consapevoli che i pazienti oggi hanno accesso a fonti di informazione differenti e spesso contrastanti.

Dopo tante parole sul 'consenso informato' dobbiamo essere preparati all'idea che un'informazione fornita nel modo adeguato possa anche portare a un 'dissenso informato'?

È una scelta che, per esempio nel Regno Unito viene rispettata e che può essere documentata e inserita nel sistema informatico in modo da evitare che ricada nelle statistiche di qualità della terapia o del medico. I medici, anzi, tendono a trovarsi più a loro agio con i valori che con le evidenze scientifiche, da qui a volte la difficoltà nel mettere in atto l'EBM.