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Si chiama "Medicina basata sulla narrativa" (NBM) una definizione, se non polemica, sicuramente in posizione dialettica rispetto alla "Medicina basata sulle prove" (EBM). Si tratta di una direzione di ricerca complessa che ritiene il racconto che il paziente fa della sua malattia non una materia grezza dalla quale estrarre dati importanti ma un aspetto centrale della terapia.
La soggettività, il vissuto del paziente diventa quindi non il punto di partenza ma il terreno della cura e il suo obiettivo. La Medicina basata sulla narrativa si presta in maniera particolare ai contesti cronici e degenerativi soprattutto quelli nei quali il paziente è chiamato a giocare un ruolo attivo e nei quali la 'narrazione' che il paziente fa a se stesso riguardo alla sua malattia è di importanza centrale.
Il diabete è uno di questi casi anche se, a dire il vero, la Medicina basata sulla narrativa ha avuto applicazioni più frequenti in oncologia e in qualche caso nella medicina generale.
Ricostruire un rapporto umano con il paziente che tenga in debito conto la sua soggettività, il suo vissuto esistenziale, le sue relazioni familiari e sociali è l'obiettivo della Narrative Based Medicine che acquisisce strumenti concettuali provenienti dalla filosofia del linguaggio, dall'antropologia, dalla sociologia e dalle scienze della comunicazione. In questo contesto la malattia viene definita come concomitanza di configurazioni di significato e di esperienze che il medico e il paziente esplorano e cercano di interpretare insieme. La dote più importante richiesta al medico è l'empatia verso il paziente, la capacità e la propensione a identificarsi con le sue esigenze in una prospettiva affettiva oltre che razionale.
Che cosa offre la NBM in più? Innanzitutto, la possibilità di coinvolgere nel progetto di cura tutte le soggettività presenti, rompendo lo schema rigidamente duale del rapporto medico/paziente: familiari, infermieri, riabilitatori, psicologi, 'compagni di cura', assistenti sociali, volontari costituiscono differenti figure di care-giver, tutti ugualmente impegnati non solo a misurare la pressione o la glicemia, ma a raccogliere storie, racconti, paure, angosce per costruire una rappresentazione della malattia e del malessere più vicina al 'vero'. Secondariamente, le 'storie di cura' sono uno strumento potente per far emergere nei pazienti quella fiducia in se stessi e nei propri care-giver che è la premessa indispensabile per qualsiasi trattamento efficace. E poi ci sono gli aspetti formativi per tutto il personale coinvolto, la possibilità di avere dati sulla qualità percepita delle cure ben più significativi dei soliti questionari, il miglioramento dei processi comunicativi (la storia viene raccolta, elaborata e riproposta al suo autore che in questo modo può vedersi dall'esterno), lo scioglimento dei nodi di angoscia della malattia in quello che è stato definito 'un abbraccio tecnologico' ovvero la migliore cura disponibile nel miglior contesto emozionale possibile.
Tutto facile? Tutt'altro. Come dimostrano le esperienze pilota come quella di Reggio Emilia (Progetto Storie di Cura), la risorsa 'tempo' diventa, se possibile, ancora più preziosa, l'integrazione tra medicina ospedaliera e medicina del territorio ancora più complessa da realizzare, i 'risultati' raramente arrivano in tempi brevi (ci vogliono anni) e bisogna sapere dove andarli a trovare. E tuttavia, questa è una delle strade più promettenti, se non vogliamo rassegnarci al paradosso di pazienti 'perfettamente guariti' che si sentono profondamente tras-curati.
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