Natalia Piana realizza corsi sull'autobiografia come strumento di cura nel contesto dell'assistenza alla persona malata. Natalia ha solo 30 anni ma la sua competenza è indiscussa. Fa parte della 'scuola' creata da Duccio Demetrio presso l'Università di Milano Bicocca, che ha scoperto le potenzialità formative dell'autobiografia e ha guidato una riflessione che si estende nel mondo e trova applicazione in un numero sempre maggiore di ambiti. In particolare Natalia Piana si è avvicinata alle autobiografie scritte da persone con patologie croniche. Ha iniziato in collaborazione con l'Associazione.'Sottovoce' dell'Istituto Europeo di Oncologia di Milano fino a quando, invitata da Roche Diagnostics a partecipare a un convegno sull'educazione terapeutica ha scoperto quanto l'autobiografia ha a che fare con il diabete e viceversa. Un amore a prima vista e reciproco: la giovane dottoranda milanese ha partecipato a diversi campi scuola con pazienti (soprattutto con le èquipe diabetologiche sarde e laziali) e a una serie di corsi organizzati dal Gruppo di Studio Italiano sulla Educazione Terapeutica (GISED).

Perché la cronicità si adatta così bene al lavoro autobiografico e viceversa?
Perché la cronicità richiede alla persona, da un lato di ripensare alla propria vita alla luce dell'irruzione della malattia, dall'altro a trovare le proprie strategie per imparare a convivere con essa, per auto-gestire la propria cura e diventare responsabili del proprio stato di salute.
È importante imparare ad ascoltare e riconoscere i sintomi della malattia e a regolare la cura con il proprio stile di vita. In questo senso il diabete è una malattia che richiede l'auto-consapevolezza e la competenza del soggetto colpito.
In quest'ottica, l'autobiografia permette di ricostruire un sapere dell'uomo per l'uomo, teso alla comprensione del senso esistenziale dell'esperienza di malattia e alla valorizzazione del senso soggettivo attribuito alla propria esperienza che aiuti la persona a diventare più cosciente e responsabile rispetto alla propria vita e alla sua cura.

La condizione di cronicità
Richiede una continua lettura di te stesso, ci sono dei percorsi di accettazione nei quali i momenti chiave sono proprio ripensamenti, anzi la parola che usiamo è 'rilettura' di te stesso. La cronicità è letteralmente un testo. L'autobiografia di una persona alle prese con una patologia cronica è la storia di queste letture di te stesso. Ma è anche di più è un atto di cura.

In che senso scrivere la propria storia è un atto di cura?
Cura viene da una parola latina che significa 'preoccupazione', un senso che ritroviamo nell'inglese 'I care' e nella locuzione 'prendersi cura'. Fare autobiografia significa dedicare la propria attenzione a se stessi. Prendersi cura di sé.

Ma l'autobiografia parla del passato, mentre tutti, soprattutto se abbiamo a che fare con una patologia, dobbiamo pensare al presente.
Ciascun testo storico risente fortemente del presente in cui è scritto, così come il nostro presente non è altro che il risultato di ciò che siamo stati nel passato. Non c'è nulla di più contemporaneo di una storia soprattutto se è la propria storia. Scrivere la propria autobiografia o averla scritta ti trasporta in una 'condizione autobiografica' che è uno stato particolare, aver scritto o stare scrivendo del proprio passato ti porta a vedere il presente in modo diverso. La sensibilità autobiografica da pratica di scrittura diventa un modo di essere, uno stile di vita consapevole con cui pensare se stessi, gli altri e il mondo Scrivendo intraprendi un viaggio nell'interiorità e nel passato che diventa possibilità di una progettualità futura.

Progettare? Lo capisco nel caso del diabete, ma lei ha iniziato a lavorare con persone ricoverate per gravi tumori...
Qualsiasi malattia costituisce un evento discrepante in una storia di vita, perché ne interrompe il senso di continuità e coerenza interna, e perché impone modificazioni nell'organizzazione concreta di una vita mettendo anche in causa il senso dell'esistenza degli individui, l'immagine che hanno di se stessi e le spiegazioni che essi ne danno.
Per accettare, reagire, affrontare o convivere con la propria malattia la persona ha bisogno di attribuire un (nuovo) senso, di dare un'interpretazione alla sua condizione, al suo mondo e alla sua vita: perché costruire significati equivale a costruire mondi possibili e ulteriori nei quali ricominciare a esistere e agire. Narrare la malattia diviene allora la principale strategia di resistenza alla sofferenza che essa comporta e la modalità principale per rinvenirne un significato.

La cura del diabete è un progetto...
La cura del diabete ha molte attinenze con l'autobiografia. Alla persona con diabete - finora abbiamo lavorato solo con persone con diabete di tipo 1 - si chiede di prendere in mano il progetto della propria vita, di essere protagonista, di diventare consapevole di se stesso. Una consapevolezza che, ripartendo dal proprio passato, da una parte prevede un futuro e dall'altra ricade nella quotidianità in mille modi. Questo è quello che accade facendo esperienza con la scrittura autobiografica.

Chi ha il diabete deve più di altri riflettere sulla sua storia?
No, non solo lui. Per agire hai sempre bisogno di ricostruire la tua storia. E in tutte le persone il gesto di ricostruire questa storia è una auto cura. La differenza sta nel fatto che la malattia, che nel diabete di tipo 1 irrompe dal nulla chiede che tutto venga riletto alla luce di questo accadimento.

Magari con qualche forzatura...
Forse, ma che importa. La verità oggettiva non ci interessa, non è un'anamnesi. Ci proponiamo di curare la malattia a partire dai vissuti e dai significati che la persona coinvolta le attribuisce. Qualcuno pensa che il diabete di tipo 1 sia insorto perché aveva mangiato troppi dolci o aveva disobbedito ai genitori. Per la medicina ufficiale può non essere un dato vero o rilevante ma se io lo penso è da questa mia credenza che devo ricominciare a costruire un pensiero che possa curarmi, magari perché mi rende più consapevole, magari perché mi aiuta a modificare quello stesso pensiero errato e condizionante.

Mi sembra un'elaborazione un po' solipsistica. Io da solo mi scrivo la mia storia chiuso nella mia stanzetta...
Questa è un'immagine romantica ma alla prova dei fatti falsa. Il testo autobiografico presuppone una dimensione di scambio. Se scrivo è perché penso che mi possano capire. Presuppongo che ci siano persone che possano condividere la mia esperienza o farne tesoro. Un testo presuppone sempre un lettore. Un lettore astratto, un lettore attuale, un lettore futuro... dipende dalle situazioni. Ma tu che mi leggi sei sempre presente. Questa autocura presuppone una cura da parte dell'altro. E le restituzioni dei ragazzi che hanno partecipato ai campi scuola ci confermano che la cura passa anche dalla condivisione della propria storia e del proprio dolore con le storie e le sofferenze degli altri.

Come la terapia del diabete che è un'autocura che avviene all'interno di un progetto di cura proposto da una persona esterna...
La quale, il più delle volte, 'legge' le glicemie riducendo il diabete a valori numerici senza considerare che la malattia è una dimensione che influenza e condiziona l'intera esistenza della persona! Le risonanze fra terapia del diabete e autobiografia sono davvero notevoli. L'autobiografia, quale strumento educativo e di cura, si è inserita in un contesto straodinariamente preparato e ricettivo come quello dell'educazione terapeutica. Abbiamo quindi subito pensato di creare dei 'laboratori autobiografici' all'interno di campi scuola dedicati a persone con diabete o ai Team diabetologici per prenderci cura dei pazienti ripartendo dalle loro storie e dai loro vissuti.

Come funziona l'autobiografia di gruppo?
I contesti sono differenti ma, in sintesi, possiamo dire che un gruppo di persone è invitato a raccontarsi e a scrivere di sé attraverso sollecitazioni e stimoli. -. I testi prodotti, che mantengono sempre l'anonimato, restano alla persona come spunti di riflessione, oppure possono costituire materiale su cui confrontarsi in piccoli gruppi, o posssono venire letti in plenaria come sapere individuale che, unendosi alle storie degli altri, diventa collettivo.

Cosa emerge?
Che scrivere e magari poi sentirti leggere fa parte della cura, che ogni testo apre mondi e ricchezze, genera conoscenze e nuovi apprendimenti. Lo stesso testo scritto, dopo averlo ascoltato leggere e dopo averne ascoltati altri, non è più lo stesso testo. L'ascolto di un insieme di testi, uno dei quali è il tuo, è proprio la rappresentazione di quello che Demetrio ha chiamato 'egotismo solidale' una dimensione nella quale non sono più solo con la mia storia ma, ritrovo la mia storia in quella degli altri e sento di appartenere come essere umano a un destino comune.

Ma è difficile stimolare le persone a raccontare o a scrivere la loro vita?
Con i giovani non è così facile. La proposta di scrivere è immediatamente associata al tema in classe e forte è la paura di sentirsi giudicati. Con i ragazzi la cura parte dalla progettazione del contesto che deve garantire la massima libertà e deve permettere ai ragazzi di esprimersi senza doversi censurare o giustificare per quello che sono e hanno voglia di dire o di non dire. Nelle situazioni di forte disagio fisico e psichico, in cui le persone fanno fatica a ri-costruire la trama della propria storia abbiamo formato "volontari biografi" che si prestano all'ascolto e alla raccolta di storie di vita. Diffusa è la ritrosia iniziale "la mia vita non ha nulla di speciale, non avrei niente da dire", esordiscono. Naturalmente non è vero. Non è mai vero. Ogni vita merita un romanzo.

Queste cose sono dette per schermirsi o con convinzione?
Non so bene, certo è che dal momento in cui cominci a raccontare scopri di avere vissuto.