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«Nel dialogo fra paziente e medico si incontrano due esperti», esordisce Giovanni Careddu. «Il Diabetologo è esperto del diabete, ha le conoscenze scientifiche di base,
il continuo aggiornamento, ha un metodo e ha l'esperienza costruita seguendo migliaia di persone. Anche la persona con diabete è esperta, lo è della sua vita, del modo in cui il
diabete si manifesta nella sua situazione. La visita è quindi un 'consulto' al termine del quale sarà il paziente a decidere cosa fare, come e quando». Diabetologo nella ASL 3
Genovese e coordinatore del Gruppo Italiano di Studio Educazione e Diabete (GISED), Careddu si trova perfettamente a suo agio in questa dimensione di rispetto e condivisione nuova per molti
medici e per molti pazienti.
«La situazione non è nuova», interviene Careddu che è stato allievo di Jean Philippe Assal, il padre dell'Educazione Terapeutica. Nelle malattie croniche, il paziente è impegnato
in un dialogo paritario con il medico. Come diceva Alain Delcache uno dei massimi esperti di Educazione terapeutica: "Il paziente fa quello che vuole". Più che essere noi a curarlo è lui
stesso che si cura.
E allora il diabetologo cosa fa?
Il Team diabetologico, e questa è una delle sue caratteristiche specifiche, mira a creare una persona in grado di provvedere al meglio alla sua salute. Il compito del diabetologo e del Team
è dare alla persona gli strumenti e l'incoraggiamento necessario per definire degli obiettivi e per metterli in pratica.
E il compito del paziente?
Prima di tutto accertarsi di aver capito cosa dice il medico: sollecitare chiarimenti e informazioni. In secondo luogo, deve giocare a carte scoperte; raccontare se e come ha seguito o
intende seguire i consigli che gli sono stati dati, illustrare le difficoltà che trova, condividere le informazioni di cui dispone, le sue opinioni e i suoi obiettivi. Insomma, se
il paziente è 'esperto' - e lo è sempre - deve comportarsi come tale. Dobbiamo superare la logica del sotterfugio, del "al medico dico sempre di sì, ma poi...".
A molti medici non piace avere a che fare con pazienti sempre più informati.
Non sono d'accordo. Oggi è internet, ieri era la vicina di casa o la credenza ancestrale. Un secolo fa Michail Bulgakov, scrittore e medico descriveva, in un racconto intitolato Tenebre
egizie queste situazioni. Certo, dover spiegare al paziente che quella 'cura miracolosa' annunciata dai giornali è solo un esperimento iniziale, che la sua conoscente è stata curata
in un modo diverso perché probabilmente aveva un problema diverso, richiede un po' di tempo. Ma è tempo ben speso.
Qual è il punto di incontro fra gli 'universi di discorso' del medico e del paziente?
La terapia migliore è quella condivisa. E oggi può essere diversa da quella di ieri. La terza età per esempio è caratterizzata da subitanei cambiamenti nella salute o stile di vita o in quella
del un partner. La terapia deve adattarsi a questi mutamenti.
Molti pazienti temono che "il dottore si offenda" se gli raccontano come hanno modificato la terapia o adattato i suoi consigli...
Io non mi offendo. Ma non perché non mi interessi quello che fa il paziente, quanto perché il mio obiettivo è disegnare insieme a lui la terapia migliore. E la terapia migliore è quella
condivisa. Magari è diversa da quella indicata dalle Linee guida, magari è il frutto di una negoziazione, ma è quella adatta a questa persona in questo momento e insieme l'abbiamo trovata.
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