Cambio solo se mi conviene

Trovate difficile abbandonare la sedentarietà? Non c'è nulla di strano. A nessuno piace cambiare le proprie abitudini. In modo particolare se si tratta di abbandonare le comodità (l'automobile, l'ascensore, il divano) e intraprendere un'attività fisica rilevante sotto il profilo metabolico. Significa riorganizzare i propri tempi, significa fare fatica, significa anche rendere palesi i propri limiti, all'inizio magari sentire anche qualche fastidio.

 

Questo è vero per tutti, in modo particolare per le persone con diabete. Se sono persone con diabete di tipo 2, probabilmente si tratta di persone particolarmente sedentarie e sovrappeso e quindi meno a loro agio nel fare movimento. «Insomma sono persone che probabilmente non hanno in testa che muoversi è bello», riassume Silvia Ciaccio, psicologa della ASL di Brescia.
Se sono persone con diabete di tipo 1, dovranno imparare a gestire la terapia insulinica e l'alimentazione in modo da evitare sia le ipoglicemie sia le iperglicemie legate all'attività fisica e questo significa acquisire conoscenze, moltiplicare i controlli, impostare schemi di terapia diversi per le giornate in cui si fa sport.

Quest'attenzione ai costi e alle difficoltà non deve stupire. «Si sbaglia a sottovalutare le difficoltà del cambiamento. Chi fa così rischia di venire sorpreso quando le incontra o di pensare che queste difficoltà colpiscano solo lui: "Non sono fatto per lo sport, dopo 500 metri mi fanno male i muscoli", pensa. E invece i muscoli fanno male a tutti quando si fanno le prime camminate. Il fiatone viene a tutti se si corre senza essere allenati. È normale aver poca voglia di uscire a fare sport nelle giornate più fredde o quando fa buio presto. Questi ostacoli devono essere ben presenti fin dall'inizio» continua Silvia Ciaccio che oltre a essere 'in proprio' una appassionata sportiva e iscritta alla Associazione Nazionale Italiana Atleti con Diabete di Brescia, ha lavorato per anni nel team della Diabetologia dell'Ospedale di Brescia.

Il processo che porta una persona a cambiare le proprie abitudini è stato studiato e modellato da Prohaschka e Di Clemente. I due psicologi americani stavano studiando l'astensione dal fumo, ma il modello da loro costruito vale altrettanto bene per il passaggio dalla sedentarietà all'attività fisica o da un'alimentazione casuale e sregolata a una sana e appropriata. Il modello prevede cinque fasi: la "pre contemplazione" del cambiamento in questione, la "contemplazione", la preparazione, l'azione e il mantenimento.

Il motore di questo processo è la motivazione o meglio le motivazioni perché, nel corso del processo, le ragioni che ci spingono a entrare e rimanere nelle varie fasi cambiano. «Sicuramente la motivazione che funziona meno è la prevenzione di un problema futuro di salute, per probabile che possa essere», nota Silvia Ciaccio che ha organizzato negli scorsi anni un progetto di avviamento all'attività fisica per un gruppo di persone con diabete seguite dal Team diretto da Umberto Valentini, «chi è disposto a rinunciare a qualcosa oggi per un beneficio che potrà avere in futuro? Piuttosto il contrario: preferiamo comprare un televisore che non possiamo permetterci e pagarlo a rate. Le motivazioni legate alla salute di lungo termine di rado, da sole, portano a un cambiamento stabile».

È molto raro - e in fondo non è nemmeno auspicabile - che il cambiamento avvenga da un giorno all'altro. Chi si alza dal divano e dice "Ora esco e mi iscrivo a una palestra", difficilmente la frequenterà in modo assiduo. È più normale che una persona per qualche tempo si chieda se la sedentarietà non potrebbe essere superata, che si informi - sempre molto guardingo - e che la abbandoni con molte riserve.

«Forse si sbaglia a dire che "fare sport è facile". Camminare non è difficile certo, non ci sono regole da imparare, non bisogna comprare attrezzature: è facile, ma non facilissimo», tiene a sottolineare Silvia Ciaccio. «L'attività fisica va intrapresa con grande attenzione: si tratti anche solo di camminare, occorre scegliere delle scarpe adatte, le calze giuste l'abbigliamento corretto... E soprattutto, gli inizi devono essere graduali. Chi si mette di punto in bianco a fare una corsa o viene invitato una sera d'estate a una partita di calcetto o, senza allenamento, intraprende una camminata in montagna, rischia di distruggere la sua motivazione e magari anche di farsi del male in modo serio».


Silvia Ciaccio, psicologa della ASL di Brescia, appassionata sportiva e iscritta all'ANIAD di Brescia, ha lavorato per anni nel team della Diabetologia degli Spedali Civili di Brescia.

L'abitudine si instaura se guadagniamo di più di quello che perdiamo. I 'costi' sono chiari: dobbiamo investire del tempo, dobbiamo esporci ad attività che non ci sono familiari, spendere anche qualche soldo.
I vantaggi? «In una prima fase, i 'guadagni' percepiti della attività fisica sono legati ad aspetti di contorno: la possibilità di conoscere gente nuova, le conversazioni che si fanno prima o dopo, la pelle che prende un bel colore, la possibilità di 'perdonarsi' qualche trasgressione alimentare», continua la psicologa di Brescia, «solo in un secondo momento si registrano 'guadagni' in termini di salute fisica e psicologica: ci si accorge di riuscire a dormire meglio, ci si sente più tonici, la glicemia e la pressione migliorano e si notano dei progressi nella propria capacità fisica», nota Silvia Ciaccio che consiglia di utilizzare - con moderazione - i frequenzimetri e i contapassi che permettono di misurare sia l'entità del lavoro fatto sia la propria fitness cardiovascolare. «Se l'esercizio è significativo e costante (diciamo almeno un giorno sì e uno no), ci si troverà automaticamente a mangiare meglio. Istintivamente eviteremo di esagerare con i grassi o con gli zuccheri semplici, ci orienteremo verso gli alimenti che ci servono davvero e li mangeremo nelle quantità corrette. A quel punto vedremo una diminuzione del peso (nella prima fase, il peso non si riduce molto perché la massa muscolare aumenta almeno quanto i tessuti grassi si riducono). Anche questo è un bel sostegno alla motivazione. La fase finale è quella in cui ci si accorge che finalmente si sta facendo qualcosa per sé e non per rispondere alle richieste di altri: del lavoro, del coniuge o dei figli. A quel punto, ma solo a quel punto, è possibile fare attività fisica da soli. Prima direi che è imprescindibile farla con altre persone».

L'ideale è creare un gruppo che abbia al proprio interno un esperto: una 'guida' che abbia ben presenti le caratteristiche fisiche e anche un po' psicologiche che l'esercizio fisico ha quando viene svolto con degli obiettivi 'oggettivi' di tipo clinico: può essere un medico o un operatore di fitness metabolica per esempio. «Difficilmente i laureati in scienze motorie sono adatti a guidare gruppi di persone con dei problemi di salute», conclude Silvia Ciaccio, «occorre un 'coach' che abbia ben chiare le specificità individuali. Il che non significa aspettarsi poco dalla persona poco in forma. Lo sport, a qualunque livello, lo si faccia deve essere fatto bene e deve essere il 'mio' sport con il mio ritmo e i miei obiettivi. Non devo confrontarmi né con quello che ero o facevo a 15 anni né con quanto fa o sembra fare il mio coetaneo, magari più allenato o in migliore forma fisica generale. E deve piacere. Io quando corro mi sento privilegiata».