XVI Congresso Nazionale AMD
Tra i simposi congiunti organizzati con altre società scientifiche, particolare rilievo ha sicuramente avuto quello con l’ANMCO (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri), ospitato non a caso nel grande auditorium. L’incontro, moderato da Alberto De Micheli (AMD) e Gian Francesco Mureddu (ANMCO) si proponeva l’ambizioso obiettivo di discutere della diagnosi delle cardiopatie iniziali o silenti nel soggetto affetto da diabete di tipo 2 (T2DM), nonché del trattamento della sindrome coronaria acuta (SCA).
Gian Francesco Mureddu (Roma) ha parlato delle procedure diagnostiche più efficaci per identificare l’ischemia silente e lo scompenso iniziale nei soggetti diabetici asintomatici. Le difficoltà consistono nello stabilire quali di questi pazienti occorra sottoporre a screening, e quali test risultino più efficaci in tal senso. Un recente lavoro di J.J. Bax e coll. (Diabetes Care 2007) documenta come l’accuratezza diagnostica dei test di imaging cardiaco (es. Ecostress, SPECT e scintigrafia perfusionale), nei soggetti diabetici, sia uguale a quella della popolazione generale, con lo stesso elevato valore prognostico, tanto da giungere alla proposta di algoritmo diagnostico elaborata recentemente da P. Raggi (Diabetes Care 2007) (Figura 1).
Figura 1
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In considerazione del rischio da esposizione radiologica a scopo diagnostico alcuni esami sono comunque da preferire, seppur a scapito di una riduzione di accuratezza (M.J. Budoff e coll. Circulation 2006). Per quanto riguarda il dubbio se l’identificazione dell’ischemia silente modifichi la prognosi, nel diabetico asintomatico, non esistono attualmente dati prospettici conclusivi, anche se pare assodato che l’identificazione delle lesioni più gravi aumenti la sopravvivenza. Il Cardiovascular Health Study (LH Kuller; ATBV 2000), peraltro, dimostra come alcuni parametri clinici facilmente rilevabili ambulatorialmente (ECG, ecocardiogramma, spessore medio-intimale carotideo, microalbuminuria e indice di Winsor) rappresentino degli eccellenti strumenti per predire lo sviluppo di eventi, nel diabetico asintomatico. Per quanto riguarda l’identificazione precoce dello scompenso e della disfunzione ventricolare sinistra, l’ECG, il dosaggio del BNP (fattore natriuretico atriale B), l’ecocardiogramma basale e quello da stress sarebbero in grado di rivelare una riduzione della riserva contrattile (Figura 2).
Figura 2
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I lavori sono proseguiti con la presentazione di Carlo B. GIorda (Chieri, Torino), per il Centro Studi e Ricerche AMD, che ha affrontato il tema della stratificazione del rischio nel paziente diabetico dal punto di vista organizzativo, per il diabetologo clinico. Ricordando come l’utilità stessa dello screening della cardiopatia ischemica silente nel diabete sia un argomento controverso persino tra gli esperti, ha spiegato quali siano le condizioni che occorre risultino realizzate affinché una procedura di screening possa essere considerata efficace:
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Il primo criterio risulta soddisfatto per definizione, nella popolazione diabetica, e anche il secondo non presenta grossi problemi. La difficoltà maggiore risiede forse nell’accessibilità di alcune indagini (come la scintigrafia), più che nell’invasività o nei costi economici. Per quanto riguarda chi sottoporre a screening, Giorda ha precisato come una parte delle indagini debba essere periodicamente offerta a tutti, come precisato dagli Standard di Cura AMD-SID e dalle prinicapali linee-guida internazionali (esame dei polsi periferici, ricerca di soffi vascolari, ECG, determinazione dell’indice di Winsor), mentre è indicato ricorrere a procedure più indaginose (EcoDoppler dei TSA e degli arti inferiori, test provocativi di ischemia) nella popolazione a rischio cardiovascolare più elevato. Il diabetologo deve quindi stratificare i propri assistenti sulla base della fascia di rischio di appartenenza, senza trascurare la necessità di confrontarsi con le risorse disponibili, visto che il livello d’intervento dipende da quanti esami la struttura sia in grado di effettuare (Figura 3).
Figura 3
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Per l’identificazione di questi soggetti a rischio elevato, ECG da sforzo, ecostress e scintigrafia miocardia presentano analoghi valori positivi di predittività (60-70% circa). Molto utile risulta il ricorso alla scintigrafia da sforzo, mentre l’ecocardiogramma avrebbe importanza fondamentale qualora siano presenti segni di ipertrofia ventricolare sinistra. A tale scopo è stato ricordato lo studio DYDA (Left ventricular DYsfunction in DiAbetes), tuttora in corso, che ha l’obiettivo di studiare la prevalenza e l’incidenza della disfunzione ventricolare sinistra nei pazienti diabetici senza cardiopatia clinica. L’esecuzione dell’ecoDoppler TSA sembra consigliabile ai soggetti >65 anni con fattori di rischio multipli, a scopo di prevenzione dell’ictus (Linee Guida SPREAD, 2007), mentre il ruolo della misurazione dell’IMT nella pratica clinica deve ancora essere dimostrato (Figura 4).
Figura 4
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La presentazione è proseguita ricordando l’enorme valore predittivo della presenza di segni di arteriopatia in altre sedi (claudicatio, TIA, placche carotidee), nella predizione del rischio di un evento vascolare. Si è infine fatto cenno del fatto che, in questa popolazione, l’impiego degli score quali quello del Framingham, dell’UKPDS e del Progetto Cuore sembrano servire a poco, dal momento che il diabete è descritta come variabile dicotomica (sì/no), piuttosto che continua. Come già evidenziato dallo studio MRFIT nel 1993, quello che realmente conta, ai fini della stratificazione, è il cumulo di fattori di rischio. Come consiglio pratico per la pratica quotidiana, Giorda ha sottolineato l’importanza fondamentale di rilevare parametri di facilissima accessibilità (es. microalbuminuria, indice di Winsor), e la necessità di lavorare in team building con i servizi di cardiologia; a questo proposito, le principali aree di criticità sono rappresentate dalla condivisione dei dati (garantiti dai sistemi informatici), dalla capacità di lavorare in equipe e dalla divisione e condivisione dei compiti.
Gianni Casella (Bologna) ha quindi parlato della scelta delle procedure più idonee nel trattamento delle SCA nei pazienti diabetici. La presenza di diabete riveste infatti un’importanza particolare, essendo stato documentato come aumenti significativamente il rischio di mortalità a 1 mese, in caso di SCA, rispetto alla popolazione generale (Figura 5).
Figura 5
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Anche la semplice iperglicemia esercita un ruolo importante, in proposito (OR 3,56; IC 1,43-8,85). Il relatore ha discusso dei motivi fisiopatologici alla base della maggiore gravità delle SCA in presenza di diabete (alterazioni emoreologiche, infiammatorie e metaboliche), tra le quali va ricordata la probabile maggiore tendenza all’aggregazione delle piastrine. Le principali controversie relative alla strategia invasiva nel diabete con SCA, nel mondo reale, sono rappresentate dal problema delle ristesosi (più frequenti nei diabetici), dal sottoutilizzo di trattamenti EBM e dalla questione della maggiore frequenza di lesioni multivasali, che rendono più efficaci le procedure di bypass, rispetto all’angioplastica. A contrastare parzialmente tale dato, i recenti successi ottenuti grazie all’impiego di stent medicati (es. taxolo) (Figura 6 e Figura 7).
Figura 6
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Figura 7
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Un ruolo fondamentale, naturalmente, è svolto dal controllo glicemico, come dimostrato dal DIGAMI, tema che è stato affrontato con maggiore dettaglio nella relazione conclusiva da parte di Massimo Orrasch (Treviso) (Figura 8).
Figura 8
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Secondo molte fonti, Il trattamento dell’iperglicemia in ospedale è considerato di secondaria importanza, rispetto alla patologia che ha causato il ricovero. In realtà, la presenza di tale alterazione (molto comune) al momento del ricovero condiziona significativamente la prognosi successiva. Lo studio DIGAMI (Diabetes Mellitus, Insulin Glucose Infusion in Acute Myocardial Infarction; K Malmberg e coll. Circulation 1999) aveva documentato come la terapia metabolica intensiva nei diabetici con infarto del miocardio migliorasse la prognosi in termini di morbilità successiva e di mortalità, senza rispondere al quesito se ciò fosse dovuto al trattamento infusionale in acuto o alla terapia insulinica ottimizzata nei mesi successivi. Tale dubbio doveva essere risolto dal DIGAMI 2, che tuttavia ha fornito risultati deludenti in termini di riduzione della mortalità. L’effetto è stato verosimilmente dovuto al fatto che la mortalità complessiva è risultata inferiore al previsto (forse anche per l’elevato standard terapeutico utilizzato in tutti i soggetti), e che le differenze tra i gruppi in termini di glicemia e di HbA1c erano inconsistenti (il compenso era buono in tutti i gruppi); questo non significa ovviamente che il ruolo sfavorevole dell’iperglicemia ne sia uscito ridimensionato, ma solo che la differenza degli outcome risente più del grado di compenso raggiunto che della strategia adottata a tale scopo (Figura 9 e Figura 10).
Figura 9
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Figura 10
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Orrasch ha quindi concluso il proprio intervento spiegando che non esistono motivi per cui preferire obbligatoriamente una procedure infusionale rispetto a un’altra (a schema fisso o variabile), in acuto, mentre è fondamentale avviare lo schema prima di qualsiasi approccio di riperfusione, attuando un adeguato monitoraggio glicemico e programmando un percorso educazionale dello staff infermieristico presente in UTIC, avente come obiettivo tendere alla normalizzazione duratura del controllo glicemico nel minor tempo possibile.