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Solo l’ascolto attivo e la corretta comprensione ci consentono di capire il paziente. E di aiutarlo

di Marco Comoglio e Luca Monge


Eccoci qui, con la seconda intervista realizzata in occasione del seminario “La complessità. Mille e un volto della pratica quotidiana”, svoltosi lo scorso maggio nella cornice dei monti della Val Pellice.

Tra le varie sfaccettature della complessità in diabetologia, e in particolare della cronicità della malattia, si è affrontato il tema del rapporto della persona affetta da diabete con la sua malattia.
Il compito di introdurre la riflessione sul tema è stato affidato da Luca Richiardi a Manuel Boavida, direttore della Scuola di formazione diabetologica di Lisbona. Clinico, diabetologo, educatore di fama internazionale, Manuel Boavida ha dedicato la vita allo studio della malattia cronica e del malato cronico: chi meglio di lui poteva dunque darci riflessioni importanti e profonde su tale problematica? La sua esperienza lo porta a mettere al centro dell’intervento terapeutico la “pessoa”, cioè l’uomo, consapevole che l’intervento terapeutico non può essere efficace se gestito come un problema semplicemente tecnico e che non può essere realizzato prescindendo dalla comprensione e dal rispetto dello stato d’animo e delle richieste della persona malata. In sintesi, l’uomo anzitutto!

   

Godiamoci questa intensa esperienza di vita, questa lezione di umanità e nello stesso tempo di umiltà professionale. Per tutto questo vi proponiamo in versione integrale la suggestiva e emozionante relazione di Manuel Boavida, nella quale egli ha saputo unire il “suo” messaggio sulla complessità alla sua esperienza professionale e alla sua esperienza di vita facendoci condividere le emozioni e le speranze vissute nel 1974, da protagonista, durante il passaggio del Portogallo verso una compiuta libertà. Sicuri di non deludervi.

Manuel, nel raccontarci la tua storia ci hai spiegato che ad un certo punto della tua vita sei passato dall’interesse per la malattia acuta all’interesse per la malattia cronica. Cosa ti ha spinto a questo passaggio?
Il passaggio è avvenuto durante il mio lavoro con un medico più anziano che mi ha fatto capire il reale impatto della malattia sull’individuo. La maggior parte dei pazienti che vedevamo aveva una malattia cronica e avevano bisogno di un approccio differente rispetto a quello necessario nella malattia acuta. Quando sono entrato nell’endocrinologia mi sono scontrato con la difficoltà di saper affrontare la malattia cronica. Per me l’attualità stava diventando la malattia cronica e i bisogni del paziente…

Quindi è stato importante il dover gestire una situazione più complessa. Pare di capire che per te la malattia acuta sia una situazione più facilmente gestibile rispetto alla complessità della malattia cronica.
La malattia acuta era ciò a cui la nostra formazione universitaria ci preparava. La verità è che dobbiamo fare i conti con il bisogno concreto del paziente che arriva da noi per un problema acuto o cronico che sia. Questo paziente è una persona che soffre per via della sua malattia, che continua a lavorare, a vivere in famiglia, a confrontarsi con i suoi bisogni quotidiani con i quali si scontra la malattia. Questo ci dice che il medico deve costruirsi, attraverso la pratica che non viene insegnata all’università, la capacità di capire il paziente, chi è la persona che sta davanti a lui. Se non capisci chi è quella persona non c’è la possibilità di ottenere un miglioramento della situazione che lo ha portato alla malattia. Questo processo di analisi e di supporto da parte del medico è la principale risorsa, che non deve basarsi solo sulla evidenza scientifica del miglior trattamento, perché il miglior trattamento non esiste nella pratica. Esiste un miglior trattamento per ogni individuo, per ogni persona, e questa possibilità bisogna impararla così. È quindi necessario apprendere una nuova maniera di vedere e un’altra maniera di essere, un’altra maniera di comprendere il ruolo del medico e dell’operatore sanitario.

Mi pare che si legga bene il tuo passaggio oltre che dall’acuto al cronico anche dall’attività in ospedale a quella sul territorio. Comunque a un qualcosa che è più vicino alla realtà del quotidiano e della vita della persona…
C’è un’evoluzione molto importante della medicina di oggi, che punta di più alla prevenzione. Per esempio, nel diabete il numero delle persone che arrivano in ospedale, con scompensi e necessità di ricovero, diminuisce ogni giorno. Va detto che le terapie praticate all’interno dell’ospedale non sono adeguate alla vita di tutti i giorni, ai problemi, agli orari, a tutto ciò che fa parte della vita del paziente… in ospedale gli orari dei pasti non sono quelli della vita di sempre. Insomma, una brutta terapia a cui è impossibile adattarsi. D’altra parte in ospedale il paziente non collabora, è completamente passivo. È tipico della medicina dell’acuto la passività del paziente. Mentre in ambulatorio il paziente è non solo attivo, ma è anche controllore dell’intervento terapeutico… E noi lo possiamo controllare nel tempo. Noi dobbiamo avere fiducia nel paziente e lui in noi, e per questo il paziente ha bisogno di tutti gli strumenti educativi necessari perché l’intervento terapeutico possa funzionare. Ha bisogno di imparare ad accettare il dolore, la malattia, ha bisogno di capire in cosa consiste la terapia e che cosa gli proponiamo, come può fare a praticare da solo la terapia, come può adattarsi.

Questo è quanto accade ai diabetici. Il diabete è la prima malattia che dà in gestione al paziente una siringa per iniettarsi il farmaco. Ciò ha una ripercussione molto importante. È la prima malattia che dà al paziente la possibilità di “curarsi da solo”. Questa è una trasmissione di potere, di una capacità decisionale di terapia che può anche uccidere. Che affida una responsabilità enorme. Pertanto noi dobbiamo avere piena coscienza di ciò che stiamo facendo quando diamo una simile responsabilità al paziente. Trasmissione di responsabilità che non può prescindere dalla trasmissione della conoscenza e da una verifica successiva della conoscenza stessa. E questo non può e non deve avvenire in modo paternalistico. Il paziente non è un bambino. È una persona adulta con una educazione che è diversa dall’educazione di un bambino. Bisogna tenere conto della sua mentalità, della sua personalità, delle sue credenze, del suo passato, della sua storia, di tutto quello che è importante per poter trasmettere al paziente le informazioni necessarie.

   

Nella relazione che hai fatto, affascinante e anche commovente, hai detto che il diabete è un sistema complesso nel quale esiste un equilibrio. Noi dovremmo riuscire a raggiungere un equilibrio fra le esigenze della persona. Nel quadro che hai proiettato hai messo la persona al centro dell’intervento tra i problemi della sua vita e le necessità che, come dicevi prima ci vengono imposte, dalle norme dell’evidenza. Qual è l’equilibrio che dobbiamo trovare tra questi due elementi?
Primo: per avere tale equilibrio si deve tenere in considerazione il bisogno concreto del paziente. Perciò è necessario ascoltarlo positivamente e dargli tempo. È importante ascoltare in silenzio e non fare quello che normalmente il personale sanitario fa: progettare immediatamente gli obiettivi da raggiungere. Ascoltare il paziente richiede un ascolto attivo, preoccupato, attento.

Secondo: è necessario sapere se quello che abbiamo appreso dal paziente dopo averlo ascoltato è veramente quello che il paziente ci ha voluto trasmettere. È necessario verificare questo chiedendo al paziente: “quello che vuole dirmi è questo?” “quello che ho capito è questo?”.

Solo partendo da queste due premesse − l’ascolto attivo e la corretta comprensione − possiamo arrivare ad una proposta di trattamento in accordo con i bisogni del paziente e il suo entourage. L’equilibrio si deve raggiungere a piccoli passi. Non bisogna cercare di arrivare subito all’obiettivo. Nessuno cambia da un giorno all’altro. La malattia che arriva addosso ad una persona è una cosa estranea, una cosa diversa che “non ha un senso”. Affinché abbia un senso, affinché sia accettata e affinché venga a far parte nella sua vita, bisogna dare tempo. È necessario attivare un processo dinamico che fa sì che oggi si possa iniziare con un piccoli passi con il riconoscimento progressivo della propria condizione fino ad arrivare alla comprensione del trattamento. E il paziente che giorno dopo giorno comincia a trattare personalmente la propria malattia gradualmente prende coscienza della strada che sta percorrendo e individua le mete da raggiungere, che devono essere decise insieme e condivise. Bisogna verificare se la meta, che linee-guida scientifiche dimostrano come la migliore per una maggior sopravvivenza, è la stessa che si pone il paziente giorno dopo giorno ed è compatibile con la speranza di vita che ha.

 Questo deve essere tenuto sempre in considerazione, perché spesso il paziente ha le sue rappresentazioni, le sue credenze, che sono molto importanti per la sua vita. Un paziente invitato a perdere peso e lega il calo ponderale alla malattia, al cancro, alla mancanza di salute, non riuscirà a trovare l’equilibrio tra la cura e il suo vissuto. Bisogna allora cercare di capire questa rappresentazione e non cercare di fargli perdere peso di forza. Solo spiegando il vero significato della perdita di peso e il beneficio che ne può avere è possibile arrivare a poco a poco a capire il significato delle mete che ci si pone. Questa è la dinamica che consente di entrare in sintonia con persona che ci sta di fronte, che consente di capire i suoi pensieri, di entrare nelle sue prospettive di vita, che ci consente di trovare un equilibrio.