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Comunicare vuol dire capire chi ci ascolta

 
J.Philippe Assal

Jean-Philippe Assal, diabetologo, è il direttore del Collaborating Centre University Hospital, di Ginevra, collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, membro della Croce Rossa Internazionale. Formatore…
Lo abbiamo incontrato a Torino, in occasione dell’inaugurazione della bella mostra Curare e guarire. Occhio artistico e occhio clinico. La malattia e la cura nell’arte pittorica occidentale, curata da Giorgio Bordin e Laura Polo D’Ambrosio. La chiacchierata è venuta spontanea. Qui il resoconto.

di Marco Comoglio e Luca Monge


Professor Assal, il nostro sito si occupa di comunicazione scientifica, ma ci siamo anche occupati di svariati altri aspetti della comunicazione. Cosa pensa della comunicazione medica utilizzata oggi?
Diciamo: c’è una comunicazione generalista e una tecnica per specialisti. La prima, è indubbio che sia fortemente mediatica e  legata al fascino del momento: le immagini dell’ambulanza, dell’elicottero che va a salvare le vittime in occasione di conflitti o trasporta feriti in caso di incidenti. Diversa è la comunicazione di tipo scientifico attraverso la quale si devono presentare e condividere le nuove conoscenze. Si tratta di due tipi di comunicazione molto importanti, fondamentali, che però spesso non tengono conto del vissuto dell’essere umano.

Cioè?
Mettiamola così: essendo nel Comitato direttivo della Croce Rossa Internazionale posso dire di aver visto molte volte come, nel comunicare, non si tenga conto della complessità del vissuto di chi quella comunicazione la deve ricevere, delle sue credenze, delle differenze culturali tra chi invia il messaggio e chi lo riceve. Si punta più spesso al risultato e alla premura per far passare un messaggio di efficienza. Cosa che vale sia quando si dà notizia di un evento, sia quando si divulga una nuova acquisizione clinica…

Comunicare è sempre più difficile e complesso di quanto non si immagini: le parole che crediamo giuste o esatte lasciano invece spazio a fraintendimenti, dubbi, incomprensioni…
In genere, puntiamo al risultato e all’urgenza del messaggio che vogliamo far passare, che spesso è però in contraddizione con la necessità di una comunicazione più comprensibile, direi umana, che tenga conto dei problemi della gente, delle sue aspettative, o anche solo del suo livello di comprensione. La comunicazione dovrebbe essere fatta di piccole attenzioni, e quando non è verbale di gesti concreti. Paradossalmente, possiamo invece dire che il mondo di internet ha modificato il nostro modo di comunicare perché i messaggi che trasmette generalmente sono assoluti… o bianchi o neri. Aveva ragione il sociologo americano McLuhan: il rumore e la modalità della distribuzione del messaggio diventano più importanti del messaggio stesso…

Questo è anche il problema della comunicazione scientifica in generale, medica in particolare, che produce una grande quantità di dati. E spesso diventa difficile da una parte comunicarla, dall’altra utilizzarla per formulare un piano di educazione del paziente…
Questo è vero il problema che incontriamo nell’educazione e formazione del paziente. Sovraccarichi di informazione specialistica, nella nostra comunicazione al paziente prevale l’abbondanza dei concetti e dei contenuti piuttosto che l’attenzione ai loro problemi reali. È una comunicazione troppo spesso univoca: siamo più attenti a che il paziente conosca come funziona l’insulina, da dove venga, a che cosa serva, piuttosto che prestare attenzione a perché quello non la voglia fare oppure e se abbia o meno accettato la sua situazione di malattia cronica. In tale prospettiva, direi che noi medici dovremmo ribaltare le prospettive della nostra comunicazione con i pazienti: liberarci dal carico delle nozioni che ci assalgono da ogni parte e che sentiamo il dovere di ribaltare sui nostri pazienti, e abbassarci ad entrare nel loro vissuto, e là capire quando possiamo far passare le informazioni necessarie.

I medici succubi di un’informazione eccessiva?
Direi: un’informazione spesso mal gestita, più attenta al singolo dato della ricerca che al trasferimento di un concetto generale nella pratica. Mi viene in mente quando nell’Organizzazione Mondiale della Sanità ho dovuto passare anni, quasi come un topo che raccoglieva il grano in cascina, per fare passare il concetto di accompagnamento del malato cronico. E per far ciò sono stato costretto a sfruttare tutte le possibilità al di fuori delle situazioni istituzionali, stavo nei corridoi e sugli ascensori per fare passare il messaggio avendo sempre ben chiaro il concetto e l’obiettivo che volevo perseguire. L’accompagnamento, per esempio, si diceva in inglese longtime follow-up, però il follow-up è già un passato, c’est le temps passé, le suivi, è un tempo passato… L’accompagnamento è più dinamico, perché io sono qui e lui è qui, facciamo una cosa insieme, dobbiamo andare avanti con la malattia… E allora bisogna avere due o tre parole chiave, e sempre martellare. Forse tutto ciò non è molto intellettuale, però è profondamente sociologico.

Questo è un po’ il discorso della contraddizione che spesso c’è fra le linee-guida, l’evidence based e il vissuto del paziente…
Certo. Il mondo della medicina è pieno di contraddizioni. Un esempio concreto: è noto che l’uso del beta-bloccante previene il reinfarto. Tuttavia, malgrado le evidenze, tali farmaci non vengono ancora prescritti a tutti i dimessi dalle unità coronariche per… ragioni locali. Le dico questo, una cosa molto pratica che ritengo valga sia per le modalità della “comunicazione”, sia per quelle della “formazione”: osservando come viene allenato un cavallo o un cane si può imparare molto su come trasmettere un messaggio, perché bisogna sempre capire l’insieme per, in un secondo tempo, scendere nel dettaglio della comunicazione.

Mi sembra di capire che non soltanto il paziente vada educato, talvolta anche i medici vanno educati…
Il vero problema, lo sappiamo un po’ tutti, è che la formazione medica penso sia fondamentalmente sbagliata fin dall’inizio. Avremmo dovuto cominciare con la cura a casa, l’ambulatorio, il vissuto della famiglia… Quando il paziente è intrappolato in una malattia cronica non ha strumenti per gestirla, sono necessari programmi di formazione per imparare a fronteggiare tali eventi. Quando un ragazzo ha un incidente in motocicletta, è tutta la famiglia che è coinvolta… Bisognerebbe cambiare il classico percorso del medico, e aprirsi al modello di educazione del paziente. Così si potrebbero recuperare gli sbagli che il nostro sistema ci ha imposto.

Ma i medici sono generalmente attenti ai loro pazienti…
Diciamo che in questi ultimissimi anni ci sono gruppi che si pongono alcune domande: “Cosa facciamo noi medici, con il nostro potere, come possiamo mettere questo potere sotto controllo per essere più vicini al paziente?” Un bel quesito: perché la cosa peggiore è avere il potere e non saperlo usare o usarlo male. Insomma, non si può comunicare con un manifesto o un manuale. C’è un lavoro pedagogico da fare che potrebbe essere di grande, enorme aiuto per il paziente.

Una critica alla metodologia della formazione?
La comunicazione è importante quanto difficile. Lo abbiamo detto, e le conosciamo le mille difficoltà che incontriamo quotidianamente con i pazienti. Non bisogna peraltro vergognarsi ad imparare a comunicare. Forse le modalità con le quali oggi ci formiamo in tal senso, non sono il massimo… Chi sono i veri comunicatori capaci di coniugare informazione e pedagogia? Quelli che la fanno sul campo… Un prete, un’anziana insegnante di scuola, che non sanno niente di medicina ma che hanno esperienza di lettura trasversale e potrebbero suggerirci: “cercherei di essere più coinvolgente, più diretto… avete parlato con il paziente ma non avete coinvolto la famiglia…” Io questo l’ho sperimentato: una comunicazione diretta con il paziente, magari anche telefonica, quando necessario. È in questo modo che possiamo trasmettere messaggi vitali.

Io vorrei formatori con le mani sporche dilavoro. Se uno insegna a fare vasi di ceramica non può avere le mani belle e le unghie pulite come quelle di un chirurgo. Bisogna andare, scendere sul campo. Così, dopo, si parla con un po’ più di umiltà perché si conoscono le cose di cui si parla.

Una comunicazione diretta…
Sì, diretta nel senso vero della parola. Io adopero il cellulare, e per me è importante come l’insulina. La comunicazione adesso e nel posto nel quale mi trovo. Le racconto la storia di una signora che aveva sempre la glicemia alta dopo essere stata al supermercato. Il suo medico le diceva che lei andava a là fare degli spuntini. Ci siamo sentiti col cellulare: Qual è la glicemia quando entra? Non lo so, mi faccia la glicemia. Dov’è? Sono al supermercato. È già dentro? No. Allora fra un minuto mi telefona. Poi, mentre esce, quella signora mi telefona: la glicemia è alta, dottore le assicuro che non ho mangiato nulla. Non le ho detto niente. Allora come se lo spiega? Non lo so. Poi abbiamo capito che la glicemia era alta perché la signora aveva paura di andare nel grande magazzino. Lei andava in quel supermercato perché nel suo quartiere, nei negozi piccoli, i prezzi erano più cari… Bene, senza una comunicazione diretta, immediata, tutto ciò non avrei capito.

Ancora un domanda, un argomento che mi incuriosisce. Lei è nell’OMS e saprà che l’Etiopia ha creato una rete Internet per le scuole, investendo moltissimo rispetto ad altre necessità. Cosa ne pensa?
Che è fondamentale: mentre noi siamo già viziati da un eccesso di informazione, loro no. Io lavoro in Sudan con un gruppo di medici che hanno realizzato una rete di comunicazione con i telefoni portatili che è costata pochissimo, neanche il decimo della rete telefonica fissa. Solo così si riesce davvero ad operare, ad educare, a cambiare le cose: esserci sempre in prima persona, comunicando nel modo più veloce, facendo circolare l’informazione in modo diretto. Questi nuovi mezzi sono importanti perché proteggono un po’ dal colonialismo culturale delle grandi potenze e delle grandi ideologie. È una nuova dimensione di colonialismo e internet con la sua libertà può forse rendere più difficile questa opera di colonizzazione.