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Quattro domande ai diabetologi italiani all’EASD

di Marco Comoglio e Lorenzo De Candia


In occasione dell’EASD 2009, caratterizzato da una imponente messe di spunti di riflessione (8 sessioni parallele a coprire tutte le tematiche legate al diabete, dagli antidiabetici orali alla chirurgia bariatrica) e da messaggi a volte contrastanti durante la stessa sessione, abbiamo approfittato della presenza e pazienza di alcuni Opinion Leader italiani per porre le stesse quattro domande ad ognuno di loro.

Naturalmente era impensabile poterli riunire insieme contemporaneamente, per cui l'intervista è stata fatta separatamente e poi "montata" come in un Film. E' sorprendente però come – nelle differenze di carattere e di esposizione – vi sia un "sentire comune" che a mio parere, caratterizza la Diabetologia rispetto ad altre specialità.

Gli spunti per le domande sono venuti da alcuni argomenti che erano dibattuti – anche con veemenza – all'EASD.

C’è ancora necessità di nuove molecole nella terapia del diabete tipo 2?

 

A. Consoli

“Tantissima necessità, poiché il farmaco ideale per sicurezza, tollerabilità, azione sui momenti patogenetici non esiste ancora” dice Agostino Consoli, che ribadisce: “e la politerapia che in genere prescriviamo, anche se necessaria, coi suoi effetti collaterali rende drammaticamente conscio il soggetto di essere malato”.


P. Cavallo Perin
  “Attualmente – nonostante i nostri sforzi con i farmaci a disposizione- riusciamo sì ad aumentare il numero di soggetti che giungono al target prefissato” interviene Paolo Cavallo Perin, “ma non possiamo più intervenire solo sulla iperglicemia, sono necessarie molecole che agiscano per esempio anche sul sovrappeso, che influenza  


A. Ceriello

l’ipertensione arteriosa e sul difetto primario, rappresentato dal minore dispendio energetico di questi soggetti”. Sulla stessa riga anche Antonio Ceriello: “la terapia ideale sarebbe quella sostitutiva: l’insulina; quella farmacologica è sempre di


P. Sbraccia
 

combinazione in modo da poter sopperire a più difetti del diabete”.

“In fondo, il diabete tipo 2 è equivalente di patologia CV” afferma Paolo Sbraccia, “in quanto è passato attraverso anni di sindrome metabolica, a differenza del diabete tipo 1.”


E. Mannucci
  “La patologia è spontaneamente progressiva” dice Edoardo Mannucci con tono drammatico, “e oggi abbiamo farmaci capaci solo di rallentarla senza che venga eliminata la necessità di dover incrementare progressivamente la terapia col tempo; a tale scopo è  


F. Giorgino

meglio avere più farmaci possibile, meglio se combinabili fra loro”. “La malattia è a tutt’ora purtroppo inguaribile” ribadisce Francesco Giorgino, “e i farmaci ora a disposizione risultano efficaci paradossalmente soprattutto in soggetti con iperglicemia non elevata: difettano in durability, cioè nella capacità di essere efficaci nel tempo e di invertire la progressione della malattia”.

Un sì assoluto infine, per Sandro Gentile, presidente AMD: “Nuove molecole significano nuove strategie e nuove possibilità”.

L’innovazione farmacologia a chi giova? E giova sempre?


S.Gentile
 

Gentile: “Sì, e oltre che alle aziende, giova soprattutto al paziente e al medico, che condividono il successo del raggiungimento dei target. Inoltre i nuovi farmaci tendono a migliorare il rapporto costo-efficacia e costo-beneficio”. “L’innovazione giova sempre” afferma Consoli, “purché il farmaco venga lungamente testato: c’è un duro processo di selezione fra le molecole e alla fine il successo dipende dall’utilità oltre che per il paziente e anche per il medico. Infatti, un minor numero per esempio di effetti collaterali è utile anche al medico che prescriverà con un minor numero di insuccessi”.

“In realtà, su cento molecole studiate” interviene Cavallo Perin, “solo due-quattro raggiungono il mercato. Inoltre, è difficile che esse vengano impiegate su sottogruppi di pazienti con necessità particolari. Alle aziende sono necessari grandi trial – su pazienti “comuni” – per dimostrare l’efficacia di un nuovo farmaco e in fondo i risultati di tali studi servono a mettere in evidenza ciò che il primary care deve mettere in atto, dove cioè non è lecito sbagliare. L’EBM non è tutto sommato valido su piccoli gruppi, patologie rare, farmaci orfani”.

“Sì, ma perché non orientare la ricerca perfezionando farmaci di sicura efficacia come la metformina?” risponde lapidario Sbraccia.

“Il grande trial è utile per dimostrare qualcosa” ribadisce Ceriello, “ma ricordiamoci che il paziente del trial è diverso dal paziente reale che ci troviamo davanti, ed è purtroppo a volte difficile distinguere uno sviluppo fatto per mero business piuttosto che per risolvere effettive problematiche”.

“Non è etico limitare gli studi a molecole che risolvano solo problemi che interessano larghe fette di pazienti” dice Mannucci, che aggiunge: “Il problema del lungo tempo di sviluppo delle molecole è importante anche per un altro motivo: l’accorciamento dei brevetti porta ad una maggiore pressione sullo sviluppo di nuovi farmaci, che d’altronde necessitano ora di studi prolungati di sicurezza. Occorre preoccuparci della sostenibilità economica di tale procedura”. Al proposito interviene Giorgino: “Può essere pericoloso ma non c’è reale alternativa a che l’innovazione venga perseguita dalle aziende: i finanziamenti alla ricerca universitaria sono sempre più scarsi. Occorre vigilare che sia ricerca seria su di una malattia di cui sappiamo ancora poco”.

L’espansione delle possibilità terapeutiche comporta effettivamente nuove possibilità di personalizzare al paziente la terapia?

Mannucci è il più convinto: “E’ già pratica clinica una fenotipizzazione con le diverse molecole a disposizione. Purtroppo a volte non vengono pubblicate azioni particolarmente efficaci di una molecola su un sottogruppo di pazienti, per non legare la stessa a popolazioni troppo ridotte, e quindi renedere meno "universale" il farmaco in studio". E’ d’accordo, ma con riserve Giorgino: “Gli studi – nella scarsa possibilità di Ricerca non sponsorizzata da Aziende-non sono disegnati per caratterizzare e far emergere efficacia su sottogruppi, ma in generici pazienti. E’ peraltro difficile una fenotipizzazione sia sul piano scientifico di ricerca sia sul paziente: comunque andrebbe tentata all’esordio della malattia”.

“Se intendiamo un adattamento al paziente obeso o magro” risponde un disincantato Consoli, “allora questo oggi si può fare, ma poco di più”. Stessa risposta per Cavallo Perin che con la sua solita incisività dice: “Dpobbiamo certamente tener conto del sovrappeso, e anche del fatto che la malattia è iniziata 15 anni prima della diagnosi e comporta una patologia cardiovascolare elevata con necessità di evitare ipo- e non solo iperglicemie.Importante sarebbe adattare la mono e sopratutto la politerapia al paziente nel corso della progressione della malattia”.

“Abbiamo certamente la possibilità – magari utilizzando degli algoritmi – di personalizzare” ribadisce Ceriello, “ma è importante considerare che di fronte a noi c’è un individuo e non una malattia. Non dobbiamo inoltre preoccuparci solo di gratificare il paziente ma le esigenze del paziente”.

Chiude Gentile esprimendo qualche dubbio: “Sì, è possibile la personalizzazione purché si sappia bene quel che si fa, si sia in grado di capire i propri errori, verificando deduttivamente quel che succede durante il trattamento”.

Ma in un mondo che porta sempre a nuovi farmaci, c’è ancora spazio per l’educazione terapeutica?

Dice Giorgino: “Alla diagnosi, il paziente subisce un evento negativo che dev’essere faticosamente metabolizzato,; inoltre, problemi anche psicologici che possono condizionare p. es. l’eccessivo introito calorico, devono essere affrontati con l’aiuto dei sanitari: il problema però sono le risorse a disposizione, sempre scarse”. Con tono un po’ sconsolato e sulla stessa riga afferma Ceriello: “Più aumentano le molecole a disposizione (e la loro prescrizione) più c’è necessità di far partecipare il paziente. Anche il cambiamento di stile di vita, definito a basso costo, lo è solo per attività che potrebbero seguire tutti: diventa complicato e costoso se richiede un'attività più strutturata”.

“Gigantesco” afferma con forza Mannucci, “ma purtroppo non interessa alle aziende e dovrebbe essere quindi di competenza statale: purtroppo la durata in carica degli amministratori è inferiore al tempo necessario affinché l’educazione al cambiamento di stile di vita porti risultati efficaci in ambito di riduzione di morbilità e di spesa sanitaria”.

“E’ paradossalmente più importante oggi che in passato: più farmaci il paziente assume, più effetti collaterali sono possibili, più responsabilizzazione e partecipazione è a lui richiesta. Occorre considerare che il costo/terapia è solo nel 13,7% attribuibile al farmaco” afferma Cavallo-Perin che in relazione all'esercizio fisico ci dice: “Il MMG può limitarsi a consigliare la camminata veloce di 30 minuti, in quanto non è stata documentata l’efficacia di un esercizio fisico in palestra rispetto al precedente”.

“E’ vero” ribadisce Consoli, “che la compliance ad un farmaco si costruisce grazie alla collaborazione del paziente. Ma non sono d’accordo che l’esercizio fisico -come si afferma- sia a costo zero: va infatti valutato il valore del tempo/uomo speso a tale scopo”.

“I momenti educativi sono pagati zero” afferma Gentile,dall'alto della sua esperienza in Educazione Terapeutica Strutturata “ma sono invece ad alto costo per il paziente e il medico: la formazione infatti non si intuisce ma si impara e questo ha un costo. Non dobbiamo inoltre cadere nella solita improvvisazione: non sempre quello che viene definito educazione è vera (cioè strutturata, costosa, efficace), il più delle volte è solo informazione.. è come provare ad iniettare insulina senza ago!”.

Per finire, viaggiando col Prof. Sbraccia gli abbiamo chiesto un commento a caldo sul congresso: “A volte i dogmi su cui ci basiamo poggiano su certezze che poi possono essere smentite” afferma (facendo riferimento all’intervento di Gale sui target terapeutici più rilassati nei soggetti con più di 65 anni). “E’ quindi utile che in un congresso così importante le certezze vengano alternate ai dubbi. Applausi quindi a Gale per il suo coraggio, ma il bias fra la necessità di curare presto e l’opportunità di non trattare troppo a una certa età, rende forse le sue affermazioni disorientanti”. “E utilissimi sono anche i confronti” dice, con riferimento all’ultima sessione con contraddittorio Ferranini-Ceriello: “L’EASD è molto cresciuta e migliorata fino a superare l’ADA e pone ormai spunti più interessanti”.