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Quando la politica si occupa di diabete

Proseguono le interviste inerenti il Gruppo Donna AMD: la senatrice Emanuela Baio si racconta e ci racconta come lavora per i pazienti con diabete in una società che sta cambiando vorticosamente

di Lorenzo De Candia


 

Mi sono documentato sulla figura della senatrice Emanuela Baio perché sono stato impressionato dal suo curriculum e dal suo impegno che si irradia in molti campi, sempre però centrati sulla persona e le sue problematiche. L’intervista avviene telefonicamente, senza particolari formalità o paletti posti a limitare gli argomenti, che sono naturalmente centrati sulla donna.

Mi colpisce la cordialità del primo approccio e il tono e l’energia che traspare da una voce che sembra attingere a una conoscenza profonda e non “improvvisata” delle problematiche di cui parleremo. Inoltre, la disponibilità di Emanuela Baio si estende ben oltre i quindici minuti richiesti: alla fine abbiamo chiacchierato per quasi un’ora.

Il mio approccio è all’inizio certamente formale – non si intervista spesso una senatrice… – e comincio presentandomi e dicendo che mi sono documentato su di lei e la sua attività recente, compreso il suo recente cambio di schieramento politico, dal PD al cosiddetto Terzo Polo. Al che mi interrompe ridacchiando: “Allora mi ha scannerizzato…mi ha fatto una TAC?”. Il ghiaccio è rotto, e possiamo passare alle domande.

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Senatrice Baio, lei si occupa di sanità: di cosa, esattamente?
Ultimamente sono ritornata in commissione Sanità da quella Finanze – dove comunque mi occupavo di temi sanitari – e sono stata nominata presidente del comitato nazionale per i diritti della persona diabetica. Tornata dunque alla materia che trattavo al mio ingresso al Senato.
 

Che si è fatto e si fa per i diabetici?
Devo dire che in questa legislatura, grazie anche alla mia esperienza parlamentare precedente, stiamo cercando di ottenere risultati migliori e maggiori circa l’assistenza ai diabetici, a chi non lo è e a coloro che non sanno ancora di esserlo: stiamo insomma cercando di migliorare le condizioni di tutti.
 

Tradotto in pratica?
Per farle solo un esempio, negli ultimi due mesi mi sto occupando del problema dei bambini diabetici insulino-dipendenti che frequentano scuole che – sopratutto al nord – hanno la mensa: spesso i genitori si devono recare a scuola a praticare l’insulina ai figli… E questo è indispensabile nei primi mesi di malattia, durante i quali il bimbo non è autonomo – pensi a un bimbo di 9-10 anni – e deve essere assistito nel controllo delle glicemie e nell’iniezione di insulina. In genere lo fanno le mamme, non di rado costrette a lasciare il lavoro per poter accudire i propri figli. Poi stiamo presentando un’interrogazione firmata da componenti di tutto l’arco parlamentare affinché, in collaborazione tra ministeri della Salute e dell'Istruzione e a un accordo sindacale, gli insegnanti possano partecipare a corsi formativi – che forniscano anche crediti – per avere nozioni di base sul diabete tipo 1. La responsabilità naturalmente rimarrebbe dei genitori, ma l’iniezione di insulina verrebbe praticata dagli insegnanti. E’ questo un piccolo, rispetto ad altri grandi temi di politica sanitaria, ma concreto esempio di uno Stato che dovrebbe essere “amico” dei propri cittadini e migliorarne la qualità di vita.
 

Ma la situazione complessiva dei diabetici nel nostro paese?
Credo che l’Italia parta da una buona condizione: cioè da una buona legge, la 115, che si occupa delle persone diabetiche e che impegna il sistema sanitario nazionale a occuparsi di quel particolare malato. Purtroppo esistono ancora molti problemi da affrontare: l’assistenza non raggiunge i medesimi livelli di qualità nelle varie regioni e anche fra le diverse ASL. Occorrerà colmare le non poche lacune che esistono in questo campo. Ogni età della vita di una persona con diabete è interessata da problematiche diverse: ad esempio, molti diabetici negano il loro stato al momento della firma di un contratto di lavoro, perché temono che dichiarare di essere portatori di una malattia cronica possa influenzare negativamente il rapporto di lavoro. Qui occorre intervenire sia sull’individuo sia a livello sociale, affinché il mondo sindacale e imprenditoriale si assumano responsabilità maggiori a protezione di questi soggetti.
 

Senatrice, mi sembra parli di diabete con competenza e passione particolari…
E’ vero, il mio interesse per il diabete è particolare per due motivi: il primo è che sin da quando sono entrata in politica, come consigliere comunale, anzi dal periodo dei miei studi, mi occupo di politiche sociali e sanitarie. Vengo dalla storia delle donne democristiane che si sono sempre occupate di ciò. Il secondo è un motivo molto pratico e legato alla mia persona…

Se può dirci…
Sono diabetica dall’età di 9 anni. La mia famiglia – sia quella di origine sia quella che poi ho costituito – è stata certamente condizionata dalla mia malattia. Pensi che mia sorella si è addirittura laureata in medicina con tesi in diabetologia. Ho però avuto fortuna: i miei genitori. Pur non particolarmente colti, mi hanno insegnato come la malattia fosse una compagna di vita e non un limite. Infatti non ha condizionato le mie scelte professionali e la mia vita lavorativa né quando lavoravo come giornalista, né quella attuale di politico-parlamentare.
 

Davvero mai un condizionamento?
Per dirle di quanto non mi sia fatta condizionare dal diabete: ho viaggiato molto e per scelte legate sia all’attività politica sia personali, come per esempio in Amazzonia. Ricordo che ci sono andata, accompagnata da un missionario, con tutti i miei aggeggi – porto il microinfusore, avevo naturalmente un glucometro –, cose che affascinavano gli indios che volevano che misurassi loro continuamente la glicemia. L’anno scorso ho viaggiato in Birmania e Tailandia, in condizioni e clima particolari, che necessitano certo adattamento. Ma non ho rinunciato a farlo: la vita di una persona con diabete, purché consapevole delle problematiche della malattia, può essere oggi veramente normale.

Lei crede che le donne diabetiche abbiano un’assistenza di minore intensità rispetto a quella degli uomini con la stessa patologia?
Non esiste una vera e propria differenza di assistenza fra donne e uomini, ma la medicina non ha un’attenzione diversa, particolare, per un essere biologico che è tutto sommato diverso dall’uomo. Se pensiamo al diabete, una patologia cronica, come non vedere che il corpo della donna ha delle modificazioni nel tempo che vengono seguite poco dalla medicina. Dobbiamo considerare donne e uomini in modi differenti sia perché ce lo dicono i dati (in Italia il diabete coinvolge oltre 3 milioni di persone) sia perché la prevalenza è femminile. Dobbiamo quindi fare di più per questo “genere”.

Ad esempio?
Le donne con diabete hanno un’esposizione al rischio cardiovascolare due volte maggiore rispetto agli uomini. Anche questo è un elemento da tenere in considerazione. E dunque la medicina di genere ha la sua utilità. Oggi abbiamo la maturità di occuparcene.

Altre differenze, necessità, problematiche?
Di fondo, c’è un problema sociale: le condizioni della donna sono diverse, i ritmi della vita di oggi impongono alle donne complicazioni superiori a quella degli uomini. I figli, la famiglia nel suo complesso, il lavoro… Solo in ultima istanza la donna riesce a trovare attenzione per il suo corpo. Proprio per questo è necessaria un’informazione mirata alla donna e orientata per fasce d’età… Si pensi ai problemi di una adolescente rispetto a quelli di una donna matura. Con una comunicazione mirata, si svolgerebbe la migliore forma di prevenzione.

Il 9% delle proprie risorse il SSN lo spende per i diabetici…
Vero. Ma se l’aspetto preventivo è fondamentale, lo è sopratutto per le donne, la cui popolazione anziana è più numerosa e quindi più complicata. Sarebbe opportuno erogare un’informazione mirata per fasce d’età: parlare di contraccezione, di menopausa…

A proposito di contraccezione: nella medicina di genere, dove particolare risalto è dato alla donna diabetica, una forte attenzione viene attribuita proprio alla sessualità. Che ne pensa?
Quando una donna diabetica decide di avere un figlio ha bisogno di una programmazione che esige una conoscenza corretta del proprio corpo e della propria sessualità. Ognuna si gestirà come crede, ma è necessario essere in una fascia di benessere ottimale per il controllo della malattia, che deve continuare durante la gravidanza, e della gravidanza stessa. Ancora: nel diabete tipo 2 un dato non ancora sufficientemente studiato sono i farmaci teratogeni… E che dire del rapporto donna-gravidanza-lavoro? Pensiamo alle lavoratrici atipiche, a quella che definire “situazione molto difficile” è edulcorare la realtà… Molte donne coraggiose lo fanno, rinunciano al lavoro per i loro figli. Ecco, qui la medicina di genere è importante.

Viviamo in un mondo complesso: migrazioni, multietnicità, culture diverse che si incontrano e scontrano. Come può operare, qui, la medicina di genere?
Viviamo in una società complessa e composita, dove bisogna trovare il modo e la maniera di far convivere istanze culturali differenti. Esempio: le donne di religione islamica, che spesso arrivano da paesi con tradizioni alimentari che favoriscono l’insorgenza di diabete di cui loro non pensavano di essere affette, vengono sempre accompagnate da un maschio. Qui la medicina di genere deve avere un doppio approccio. Possiamo negare il problema o ammetterlo. Ammettere che ci sono differenze di genere e di culture e di tradizioni, e che noi abbiamo la responsabilità di conciliare le differenti posizioni. Senza dimenticarci della questione “irregolari”…

A proposito di irregolari: di fronte all’urgenza il SSN risponde, ma di fronte alla cronicità?
Non c’è cronicità per gli irregolari. Queste persone, che lo si voglia o meno, sono strettamente interconnesse con la nostra vita. E forse sarebbe bene assisterle anche nella loro eventuale condizione di cronicità. Forse possiamo pensare ad allargare il nostro patto sociale: io, Stato, assisto anche te, irregolare: purché entrambi ci si accordi su alcuni temi di fondo inderogabili per la convivenza.