Una identità tutta da costruire
Intervista a Valerio Miselli
Responsabile del Servizio di Diabetologia dell’ospedale di Scandiano, autore e curatore di numerosi libri di divulgazione è fra i maggiori fautori dell’Educazione Terapeutica, del Disease Management ed è costantemente impegnato nel ripensamento del dialogo fra Team e persona con il diabete
Molti medici incorniciano e appendono nel loro studio il diploma di laurea. È comprensibile: quel ‘pezzo di carta’ è costato sette anni di faticoso studio e ne simboleggia altrettanti investiti nella specializzazione o nei periodi di training e di viaggio-studio. Pochi diabetologi però lo fanno. E c’è una ragione. L’Università trasmette nozioni ma anche valori. Entrare in una professione non è solo una scelta logica, c’è un importante aspetto emotivo. Non si può non assorbire, quasi senza volerlo, il modello antico del medico, demiurgo che rigorosamente da solo risolve in poco tempo una situazione, rendendo perfettamente sano colui che fino a un momento prima era gravemente malato, in preda a dolori o handicap assai gravi. Oggi è George Clooney ieri era il dottor Kildare a interpretare questo ruolo. Buon per lui. Il fatto è che nulla di tutto questo è vero in diabetologia e in generale nella terapia delle malattie croniche. Noi diabetologi abbiamo dei pazienti che si sentono benissimo non hanno dolori e – nel caso del diabete di tipo 2 – nemmeno lamentano handicap o problemi. In compenso non li possiamo guarire.
“Non siamo noi a decidere: occorre che sia il paziente a trovare le soluzioni”. Quanto alle decisioni, noi diabetologi non possiamo certo prenderle da soli. Guai a dare la soluzione non appena si sente porre un problema. Non serve a nulla. Occorre avere la pazienza (nonostante la sala d’attesa fuori sia piena e il telefono che squilla) di aspettare che sia il paziente stesso a tirar fuori le possibili soluzioni e aiutarlo, senza forzature, a valutare la migliore. Non parliamo poi del lavorare da soli. È assurdo che l’Università non insegni a lavorare in gruppo, a rispettare il lavoro degli altri medici, e l’indispensabile appoggio del personale sanitario. Tra l’altro questo del teamwork è uno dei pochi aspetti davvero gratificanti del nostro lavoro.
“Vedi crescere le persone insieme a te”. Il ‘modello di medicina’ insegnato all’Università e tramandato nella professione prevede poi una assoluta mancanza di empatia fra medico e paziente. Se proprio non si scrive che il paziente è una ‘cosa’, poco ci manca. Questo va benissimo, per carità, in certi settori. Ho fatto vent’anni di Pronto Soccorso e lì l’”ascolto del paziente” conta poco. Occorre prendere decisioni veloci pensando solo all’aspetto medico e organico della questione. In diabetologia è diverso. Vedi letteralmente crescere le persone con te. L’ascolto è tutto: hai bisogno di sapere come vivono, cosa pensano, cosa fanno. I fattori che influenzano la glicemia – parliamo solo di questa – sono tali e tanti che praticamente tutto il vissuto del paziente, dall’amore al lavoro, dal suo modo di intendere la vita al rapporto con i genitori, potenzialmente ha un impatto sul suo diabete. Ci vuole empatia, aiuta per esempio passare del tempo con loro anche per capire quale impatto concreto hanno quelle prescrizioni che diamo spesso a cuor leggero. “Faccia quattro iniezioni al giorno e sei controlli” o anche solo “riduca di un terzo le calorie giornaliere”. È facile da dire, ma poi ti voglio vedere a farlo concretamente.
“L’empatia arricchisce, ma a volte fa male”. Questa empatia arricchisce sicuramente il lavoro del diabetologo. Non credo che accetterei oggi di fare lo specialista di corsia, quello che segue il paziente nei due o tre giorni di malattia acuta o di degenza, lo cura e buonanotte. Ma è anche pesante. Ci sono pazienti che seguo dall’esordio del diabete di tipo 1 e che, come non era improbabile, dopo un quarto di secolo mostrano le prime complicanze, a volte serie. È difficile non sentirsi feriti. Avvertite amarezza, frustrazione in questi pensieri? Non avete del tutto torto. Fare il diabetologo significa inventarsi una identità nuova, un modo di essere medico che prima non esisteva. Essere pionieri è esaltante ma espone anche a delusioni e depressioni. Già, perché non è solo l’Università o la Professione medica a non capire che oggi fare medicina è anche (e soprattutto) fare prevenzione, gestire la ‘quasi salute’ di decine di milioni di diabetici, ipertesi, asmatici, obesi, cardiopatici, persone con epatite e via elencando condizioni croniche. Spesso sono anche i nostri ‘capi’.
“La crisi di identità per un diabetologo è sempre dietro l’angolo”. Già, perché il medico non deve rispondere solo alla sua coscienza professionale ma anche a una struttura. E questa struttura sanitaria, amministrativa o politica che sia, è pronta a premiare il medico che salva le vite o toglie i dolori, il medico che acquista macchinari da miliardi dando prestigio all’Ospedale, che va sui giornali… ma non capisce che roba sia questa medicina qui che non guarisce persone non malate eppure salva e prolunga più vite di molti chirurghi. Chi fa il diabetologo non lo fa per soldi (il nostro DRG prevede 30 mila lire a visita) né per la fama (avete mai visto un diabetologo in copertina?). È guidato solo dalla soddisfazione per il suo lavoro. Non sentirsi compresi dalle persone per cui lavori è demotivante. La crisi di identità per un diabetologo è sempre dietro l’angolo.
“Amo questo lavoro, perché…” Rileggendo queste righe, però, vedo anche dell’orgoglio. Ho viaggiato molto, ho lavorato nei famosissimi Stati Uniti e so che noi diabetologi in Italia da soli abbiamo inventato un sistema di assistenza alla persona con il diabete che è insufficiente ma è anche tra i migliori del mondo. Amo questo lavoro, adoro avere intorno a me un gruppo di amici e di colleghi con cui si lavora davvero insieme al 100% (molto più di quel che non accada in altre specialità dove la gerarchia e la suddivisione dei territori sono più marcate). Mi piace pensare che dobbiamo e possiamo reinventare questo mestiere ogni anno, ogni giorno (pensiamo all’Educazione Terapeutica, ai campi scuola, e oggi all’uso di internet nella relazione con il paziente). Mi piace pensare di aver imparato ad ascoltare, a ‘sentire’ quello che prova l’altra persona, di essere cresciuto e – ahimè invecchiato – con i miei pazienti. Non farei cambio.
Però, cari amici, se un giorno trovate dall’altra parte della scrivania un medico un po’ stanco e un po’ triste, dategli una pacca sulla spalla. Essere diabetologo, non più che essere diabetico, è una ‘condizione cronica’.