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XVI Congresso Nazionale AMD

Indice congresso    Report   
A. Secchi, 
Milano

La sostituzione della funzione betacellulare mediante trapianto d’organo o terapia cellulare, nel paziente affetto da diabete di tipo 1, è passata negli ultimi anni dalla fase sperimentale all’applicazione clinica. Centro nazionale di riferimento, per l’Italia, è senz’altro l’Osp. San Raffaele di Milano, il cui responsabile, il Prof. Antonio Secchi, ha tenuto una lettura in seduta plenaria nell’ambito del XVI Congresso nazionale di AMD. La relazione è stata l’occasione per discutere dello stato dell’arte della metodica, che, seppur debba ancora considerarsi circoscritta a situazioni particolari, sta lentamente incamminandosi a diventare un’opzione terapeutica concreta di risoluzione della malattia diabetica. A moderare l’incontro, atteso da una grossa affluenza di pubblico e commentato a lungo nel corso della discussione che ne è seguita, il presidente di AMD Adolfo Arcangeli (Prato) e Roberto Torella (Napoli).

Temi centrali della lettura erano le indicazioni al trapianto d’organo (da solo o congiuntamente con quello di rene, nel paziente uremico) e a quello delle sole isole.

Secchi ha introdotto l’argomento illustrando l’evoluzione nel tempo della tecnica chirurgica della sostituzione d’organo intero, che prevede l’asportazione e il conseguente impianto di pancreas e duodeno. Inizialmente (fine anni ’60 del XX sec.), la tecnica prevedeva la derivazione vescicale per la raccolta degli enzimi duodenali; l’impianto avveniva quindi in ipogastrio, in prossimità della sede di posizionamento del rene trapiantato simultaneamente (fossa iliaca), in pazienti con insufficienza renale terminale. Questa tecnica è stata progressivamente abbandonata perché complicata dall’insorgenza di cistiti chimiche ricorrenti dovute all’azione litica degli enzimi duodenali, che si trovavano a insistere su una mucosa non fisiologicamente deputata alla loro raccolta. La soluzione identificata, seppur più complessa dal punto di vista chirurgico e gravata da una maggiore incidenza di complicanze, prevedeva il drenaggio (e il successivo riassorbimento) delle secrezioni duodenali nell’intestino (mediante anastomosi latero-laterale tra il duodeno trapiantato e il digiuno del paziente), mentre la produzione endocrina delle betacellule afferiva al fegato tramite il sistema portale. I risultati della metodica iniziarono a dimostrare che il trapianto combinato di pancreas e rene prolungava l’aspettativa di vita dei pazienti uremici e riduceva l’insorgenza delle complicanze macroangiopatiche, con effetti favorevoli che si ripercuotevano sulla disfunzione diastolica miocardica e sulla sensibilità endoteliale all’NO (ossido nitrico).

L’importante immunosoppressione necessaria al trapianto di rene (timoglobuline, inibitori delle calcineurine [tacrolimus o ciclosporina], micofenolato e cortisone) ha spinto, progressivamente, a prendere in considerazione il trapianto di pancreas da solo, i cui esiti a 5 anni sulla sopravvivenza (85-90%) sono risultati simili a quelli del trapianto combinato. Iniziò a porsi il dubbio se il trapianto di pancreas fosse in grado di far recuperare dalle complicanze degenerative del diabete, trovando una risposta favorevole nello studio di P. Fioretto e coll. (N Engl J Med, 1998), che documentava la regressione delle lesioni nefropatiche in seguito a trapianto di pancreas da solo. Tali dati sembrano trovare conferma anche in altri studi condotti nel nostro Paese (Cappelli e coll., Diab Care 2005; Giannarelli e coll., Diabetologia 2006), che hanno documentato i vantaggi di una procedura gravata da meno effetti collaterali nefrotossici (conseguenti alla terapia immunosoppressiva) in grado di esercitare un impatto favorevole anche sulle complicanze retiniche di malattia. I rischi sono tuttora legati alla complessità della manovra chirurgica (di tipo maggiore, con un 20-30% di rischio di reintervento dovuto a complicanze: ascessi, infezioni, trombosi e deiscenze) e all’immunosoppressione, i cui effetti a lungo termine sull’incidenza di infezioni e, soprattutto, di neoplasie stanno delineandosi con sempre maggior chiarezza (10-14% di rischio cumulativo d’insorgenza di tumori vs. 6% nella popolazione di controllo). Per quanto riguarda le indicazioni al trapianto di pancreas da solo, sono attualmente seguite quelle del 2004 dell’ADA (American Diabetes Association), che comprendono la presenza di problemi insormontabili nella gestione della terapia insulinica, il chiaro riscontro del fallimento della terapia farmacologica nell’impedire l’insorgenza delle complicanze diabetiche e un’importante e incontrollabile variabilità glicemica, con frequenti episodi di scompenso ipo-iperglicemico. Al di là delle evidenze, Secchi ha comunque sottolineato la necessità di mantenere una certa elasticità nell’interpretazione delle indicazioni, che richiedono comunque una valutazione multidisciplinare.

La lettura è proseguita affrontando l’argomento del trapianto di sole isole, metodica che possiede numerosi vantaggi in termini di razionale fisiopatologico e di rischio d’insorgenza di complicanze chirurgiche. Rispetto al trapianto d’organo, l’infusione delle sole isole pancreatiche viene condotta con procedura radiologica minimamente traumatica, senza la necessità di un intervento chirurgico vero e proprio e di anestesia generale. La tecnica non è comunque semplice, prevedendo l’espianto di un pancreas integro (esclusivamente da cadavere), la preparazione dell’organo e l’estrazione delle isole mediante collagenasi, in condizioni di sterilità assoluta (camera di Ricordi); non sempre la tecnica (utilizzata da una cinquantina di centri nel mondo) è atta a isolare e a infondere nel sistema portale (attraverso agocanula e approccio transcutaneo portografico ecoguidato) un numero sufficiente di isole pancreatiche. Recentemente, grosso impulso alla metodica è derivato dall’applicazione multicentrica del cd. protocollo immunosoppressivo di Edmonton (Shapiro e coll.; Alberta, Canada), che ha introdotto l’uso della rapamicina. Sono indicazioni al trapianto di sole isole: la presenza di diabete di tipo 1 da almeno 5 anni, un’età compresa tra 18 e 65 anni, almeno 1 complicanza di malattia, un’importante instabilità metabolica, la perdita della capacità di riconoscere gli episodi ipoglicemici (“hypoglycemia unawareness”) o l’insorgenza di gravi complicanze nonostante una terapia insulinica ben condotta, mentre rappresentano controindicazioni l’obesità e le situazioni di grave alterazione del sistema vascolare (da valutare attentamente prima del trapianto). La tecnica non deve comunque essere ancora considerata alternativa alla terapia insulinica, ma consecutiva alla presa d’atto della sua inefficacia. I risultati, a oggi, vedono una percentuale di successo (in termini di insulino-indipendenza) del 58%, che tuttavia si riduce al 44% a distanza di 1 anno e che risente in maniera significativa dell’esperienza maturata dal centro esecutore. Tra le complicanze: emorragie consecutive alla manovra, trombosi parziale della vena porta (6%), spandimento biliare/bilioperitoneo (3%). Non sono state registrate complicanze gravi, ma il rischio tumorale a lungo termine non è ancora stato definito. La tecnica potrebbe migliorare ulteriormente mediante pre-trattamento con rapamicina, allo scopo di ridurre la risposta flogistica a livello epatico e facilitare l’attecchimento delle betacellule; con questo accorgimento sono stati registrati risultati preliminari interessanti.

Il progresso, come ha ricordato il prof. Secchi, non si verifica sempre in maniera rapida, ma è legittimo attendersi che la sostituzione della funzione betacellulare possa avvantaggiarsi, in un futuro non lontano, del miglioramento delle tecniche di engraftment, d’immunosoppressione, d’induzione della tolleranza e dell’impiego delle cellule staminali (i cui vantaggi concettuali risiedono nella possibilità di disporre, in maniera illimitata, di cellule betapancreatiche svincolate dalla necessità d’immunosoppressione).

Vedi anche articolo su MEDIA 2007;7(3)166-176