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La complessità è quella cosa… che non oso definire

Intervista a Guido Ruffino su un tema importante e fondamentale per chi si occupa di malattia cronica

di Marco Comoglio e Luca Monge


All’inizio del mese di maggio si è svolto a Torre Pellice (in provincia di Torino), organizzato e coordinato da Luca Richiardi, un seminario rivolto al personale operante nelle strutture diabetologiche dallo stimolante e originale titolo: “La complessità. Mille e un volto della pratica quotidiana.”

…”Complessità” non rappresenta soltanto un termine astratto per delineare le difficoltà che si incontrano quotidianamente nello svolgimento della propria attività lavorativa determinate dal ritmo lavorativo sempre più incalzante, a fronte di una continua riduzione delle risorse o dal disorientamento legato al continuo cambiamento degli scenari normativi in cui si è costretti ad operare.

In diabetologia la “complessità” nasce soprattutto dalla peculiarità della Malattia stessa in quanto di lunga durata. Chi lavora in campo diabetologico deve quindi farsi carico anche di questi problemi per poter aiutare il proprio paziente nel cammino della propria cura.

Gli operatori sanitari di questo settore dovranno quindi sviluppare nuove abilità professionali per poter garantire un’aderenza alla terapia. E questo, è dimostrato, può “fare la differenza” in termini di ricadute positive sul grado di compenso metabolico, e sulle complicanze a lungo termine. Quindi in termini di efficacia della terapia stessa”…

Al seminario hanno partecipato insieme ad un gruppo di formatori della scuola AMD, due illustri personaggi quali Guido Ruffino, psicopedagogo di fama europea che ha lavorato a lungo con JP Assal a Ginevra, e Manuel Boavida, direttore della scuola di formazione diabetologica di Lisbona, oltre a un gruppo di esperti in altre “scienze”, quali la matematica, la musica, la psicologia … l’esperienza di vita.
Nelle tre intense giornate di lavoro abbiamo vissuto un’esperienza estremamente coinvolgente, così ricca di spunti e riflessioni che ci è parso immediatamente interessante l’idea di riportarla sul sito attraverso alcune interviste a questi personaggi.

La prima che vi riportiamo non poteva essere che quella di Guido Ruffino, grande saggio, ispiratore degli incontri di Torre Pellice, e maestro di comunicazione, ma a breve seguiranno quelle a Manuel Boavida e agli altri “scienziati”.

Insieme cercheremo di sviluppare i problemi legati al tema della complessità in alcune delle sue sfaccettature e in particolar modo alla comunicazione.

Guido Ruffino, qual è la tua definizione di “complessità”?
Io non oso darne una definizione. È un insieme di situazioni difficili. Qualcuna forse senza soluzione, altre con soluzioni, situazioni in cui, sempre, si trova a vivere una persona. Ancora: per me complessità è il comunicare in tutti i suoi aspetti con la difficoltà che il comunicare comporta.
E quando parlo di comunicare intendo a tutti i livelli: la comunicazione tra addetti ai lavori come potremmo essere noi, tra addetti e utenti, tra gli utenti stessi e la più complessa di tutte è la comunicazione da parte dei mass media.

Nell’ambito della comunicazione scientifica quali sono le criticità che tu rilevi nel momento in cui questa comunicazione viene trasferita a tutti i livelli?
Vedo due pericoli: uno è che si banalizzi l’informazione e si voglia ad ogni costo renderla semplice, troppo semplice. L’altro, invece, è che si voglia andare troppo a fondo tra “non addetti”, e si renda l’informazione troppo scientifica utilizzando parole che non tutti capiscono. Il problema importante è comunque non banalizzare…e rendere accessibile l’informazione conservandone il contenuto. E questo è il grande problema dei mezzi di comunicazione, che pur di fare colpo danno in pasto ai lettori notizie senza la verifica, il confronto e la spiegazione delle fonti, e soprattutto senza pensare da un lato alle conseguenze che potrebbero avere i contenuti e dall’altro al modo con cui l’informazione viene data.

Questo in particolare quando ti rivolgi al paziente o comunque a chi non è un operatore sanitario. Noi ci rivolgiamo soprattutto a dei medici, per di più diabetologi. Secondo te, nella nostra comunicazione, che cosa dobbiamo privilegiare per essere efficaci quando parliamo a persone che ci possono capire veramente bene?
Soprattutto bisogna essere chiari, semplici e senza nessuna ambiguità. In modo che chi ci ascolta sappia esattamente quello che vogliamo dire e che non abbia bisogno di interpretare. Che non debba dirsi: “chissà che cosa voleva dire con quello…”.

Ravvisi qualche pericolo nell’enorme diffusione che adesso può avere l’informazione scientifica attraverso Internet? Ormai tutti possono accedere a tutto. Secondo te questo fatto può essere pericoloso in qualche modo oppure può essere di vantaggio per i pazienti?
Credo che l’utilità sia indiscutibile, tuttavia credo anche che si debba fare molta attenzione. Può essere pericoloso lo scollamento tra i titoli o sottotitoli, creati ad effetto, e i reali contenuti dell’articolo. Questo lo possiamo vedere specialmente nei quotidiani e nelle riviste, e in particolare lo ho sperimentato pochi giorni fa in Argentina. Un grande titolo, che ha avuto l’effetto di una bomba, diceva: “Con il sovrappeso non solo non si sta meno bene, ma anche si può vivere di più”. Questo era il titolo mentre nell’articolo si diceva che uno studio, sul quale non tutti sono d’accordo, aveva rilevato una maggior durata di sopravvivenza nei soggetti in sovrappeso.
Che cosa fa generalmente il paziente di fronte ad una notizia del genere? Dice: “vedete, non ho più bisogno di fare tanti sacrifici. Il mio sovrappeso non solo non è una cosa negativa, ma mi consentirà di vivere di più”. Quindi attenzione con i titoli, soprattutto ai grandi annunci: perché tanta gente si ferma al titolo.
Tornando a Internet, strumento che io non uso abitualmente, ritengo possa essere estremamente utile se al centro dei nostri messaggi a delle nostre comunicazioni mettiamo l’attenzione all’uomo, altrimenti corriamo il rischio di compiere gli stessi errori di cui abbiamo parlato prima.

Quando ci troviamo di fronte ad una richiesta, ad un quesito strano, atipico, qual è il tipo di atteggiamento che dobbiamo tenere? Di rifiuto completo, di comprensione, di accettazione, di tentativo di giustificazione per poi riproporlo successivamente?
Direi che dipende dalla situazione. Se il paziente o la persona che ci parla viene senza l’articolo, senza una fotocopia, senza i giornali o senza la rivista, allora dobbiamo riuscire a capire qual è stata la sua fonte, se ha capito tutto, se ci sono espressioni di cui non è molto sicuro, se ne ha già parlato con qualcuno… Se invece viene con una rivista,un articolo, un ritaglio di giornale o una fotocopia si dovrà leggere l’articolo insieme a lui e vedere che cosa lui ci dice al riguardo. Verificare con lui, anche con semplicità, quanto ha capito. E poi bisognerà riuscire a fare passare il messaggio: “Attenzione un articolo bisogna sempre leggerlo tutto, tranquillamente, cercando di capire tutto”.Se invece si presenta con una notizia riferita dobbiamo assolutamente sapere chi glielo ha detto. Non perché siamo degli inquisitori, ma per sapere chi glielo ha detto, in che occasione e come e perché glielo ha detto. Dovremo cercare di capire che cosa lo ha colpito di più della notizia e se si dispone della fonte fargliela leggere direttamente aiutandolo nella comprensione. Soltanto cosi svolgeremo un lavoro pedagogico non solo di aiuto a comprendere una informazione, ma anche di insegnare un metodo e una capacità critica di lettura e interpretazione.

Dunque per noi al centro c’è il paziente. Ci sembra che tu dica che dobbiamo prestare molta attenzione a quello che il paziente dice: aspetto, questo, molto importante quando dobbiamo gestire la complessità della malattia.
Esattamente. È ciò che penso e che facevo quando insegnavo al liceo o all’Università. Io cercavo sempre di incontrarmi con i miei allievi sul loro piano cercando di guardare la realtà con i oro occhi. Così quando facevamo i corsi a Ginevra con Jean Philippe al primo posto non c’era quello che dovevamo insegnare ai pazienti, ma i loro problemi, le loro difficoltà, i loro dubbi, per arrivare poi ai contenuti che volevamo fare passare. In tutti i nostri insegnamenti la complessità è capire chi ci sta davanti e che disponibilità a ad “ascoltare” quello che stiamo comunicando. La complessità della malattia cronica è tale che se non stiamo attenti ci può capitare di parlare a qualcuno che apparentemente ci ascolta, ma in quel particolare momento della sua storia è sordo.