La complessità: mille e un volto della pratica quotidiana
Eccoci arrivati alla conclusione del ciclo di interviste sulla complessità. Dopo Guido Ruffino e Manuel Boavida, vengono ora a presentarci le loro impressioni il matematico Bruno Barberis, che insegna logica matematica all’Università di Torino, il musicista Luigi Giannelli
di Marco Comoglio
“Complessità” non rappresenta soltanto un termine astratto per delineare le difficoltà, che si incontrano quotidianamente nello svolgimento della attività lavorativa. Difficoltà peraltro determinate dal ritmo lavorativo sempre più incalzante, dalla ricerca di maggior produttività ed efficienza − a fronte di una continua riduzione delle risorse a disposizione o dal disorientamento legato al continuo cambiamento degli scenari normativi in cui si è costretti ad operare. In diabetologia la “complessità” nasce soprattutto dalla peculiarità della malattia stessa in quanto di lunga durata. Partendo da queste considerazioni, nel Seminario di Torre Pellice, in provincia di Torino, del maggio scorso, i partecipanti hanno affrontato le basi del problema “Complessità”, si sono confrontati praticamente con le tematiche inerenti e hanno provato a formulare alcune strategie concrete da riprodurre nella pratica quotidiana della propria realtà lavorativa.
Ci è parso interessante sentire l’opinione di persone al di fuori del nostro lavoro e della nostra professione, che hanno però partecipato ai lavori del corso condividendo con noi il percorso di analisi del problema della complessità.
Quali spunti di riflessione ha dato al matematico e la musicista la discussione sulla complessità con i diabetologi?
Bruno Barberis: La complessità non è una caratteristica tipica o esclusiva di alcuni fenomeni o di alcune scienze. Riguarda ogni fenomeno che avviene in natura e ogni campo di studio, dalla medicina alla fisica, dalla musica all’arte. E ognuno di essi ha i suoi metodi di approccio, a volte di tipo qualitativo, a volte, quando è possibile, di tipo quantitativo. Ed è interessante vedere come tecniche e metodologie molto diverse e lontane fra loro siano utili per affrontare, anche se da punti di vista differenti, gli stessi problemi complessi.
Un esempio di scienza ideata per affrontare la complessità è la ricerca operativa, una recente branca della matematica, nata durante la seconda guerra mondiale per risolvere complessi problemi tattici e strategici. Dopo la guerra, e soprattutto a partire dagli anni ’60, essa fu applicata ai più disparati settori, tanto che oggi la ricerca operativa è diventata lo strumento insostituibile per risolvere problemi complessi che nascono nella direzione e gestione di uomini, macchine, materiali e denaro, nell’industria, negli affari, nell’amministrazione pubblica e privata, nelle aziende di trasporto e in quelle commerciali, ecc.
Luigi Giannelli: Prima di questa esperienza non avevo mai riflettuto sul fatto che l’aspetto della “complessità” potesse costituire un denominatore comune per la musica e per la medicina. In effetti ambedue sono rivolte alla persona, all’uomo, benché su due differenti piani: la musica è riferita più alla sfera psico-spirituale, la medicina a quella fisico-materiale. Dall’incontro di Torre Pellice mi sono fatto l’idea di come anche il medico possa lavorare con la mente di un musicista, il quale prima di suonare deve accordare, direi meglio “armonizzare” lo strumento. Indubbiamente il medico ha una responsabilità maggiore: penso a quanto debba impegnarsi un diabetologo per “armonizzare” nuovamente un organismo “dissonante” a motivo delle varie patologie che caratterizzano il diabete. Tutt’e due, poi, si prefiggono un risultato positivo: lo “star bene” del paziente, il successo del concerto. Ho poi particolarmente apprezzato alcune metodologie, che − con i dovuti cambiamenti − sono riuscito ad attuare nel mio lavoro quotidiano. Un esempio: l’arricchimento che chiunque può recare in un gruppo ristretto e da qui ad un’intera assemblea, indipendentemente dal ruolo o dal titolo.
Sulla base della sua esperienza, quale consiglio dal matematico per gestire la nostra complessità professionale?
B. Barberis: Premetto, come dissi a Torre Pellice, che la mia esperienza di matematico applicato è molto lontana dalla medicina. Di consigli dunque non ne ho. Semmai, alcune considerazioni di carattere generale e metodologico. Anzitutto, un qualsiasi uomo di scienza, anche se opera in un settore estremamente empirico (e quindi complesso) come il vostro, ha il dovere di impegnarsi al massimo per mettere in atto un approccio il più possibile razionale e determinista ai vari problemi che deve risolvere. Cosa che richiede l’assunzione di una mentalità rigorosa durante l’intero processo che va dall’acquisizione dei dati alla loro elaborazione, fino alla costruzione di un modello teorico che consenta di effettuare una seria e fondata previsione. Mi spiego: una volta diagnosticata una malattia, un medico è necessariamente chiamato a prescrivere una terapia, e lo fa ovviamente sulla base della consapevolezza che il trattamento terapeutico migliori la prognosi del paziente. Ma la prognosi è previsione di ciò che accadrà in futuro al soggetto affetto da quella malattia e pertanto l’utilità della terapia scaturisce dal confronto tra prognosi in assenza di terapia e previsione della modifica che la terapia può apportare alle condizioni del paziente. È in questa fase che si manifesta la necessità di usare tutti gli strumenti oggi a disposizione per riuscire a porre nella giusta relazione di causa-effetto i fenomeni, in questo caso terapia e prognosi. Il problema sta nel fatto che la relazione di inferenza causale non si consegue mai mediante ragionamenti a priori, ma nasce dall’esperienza, che è quasi sempre fondata su un numero assai limitato di osservazioni eseguite nel passato. Inoltre, spesso l’inferenza causale deve essere applicata anche a fenomeni di cui non si è avuta esperienza diretta o sufficientemente approfondita.
Altra difficoltà, non meno grave, deriva dalla consapevolezza che la costanza del legame tra causa ed effetto presuppone la permanenza di tutte le altre condizioni al contorno che possono influire sul fenomeno in esame. In altre parole, se vi sono altri fenomeni, le cui variazioni influenzano la relazione tra terapia e prognosi, e se tali fenomeni non possono essere tenuti costanti, allora è difficile individuare la suddetta relazione tra terapia e prognosi e, se anche fosse possibile, sarebbe di scarsa utilità, in quanto le variazioni dei fenomeni incontrollati altererebbero sostanzialmente i risultati della terapia sperimentata, rendendoli assai differenti da caso a caso. In conclusione, quindi, il determinismo può, al più, essere considerato uno strumento di prima approssimazione per la conoscenza del reale, e quindi le previsioni condotte con modelli deterministici soltanto come preziose approssimazioni.
Come dire che non esiste una sola causa di fenomeno…
B. Barberis: La consapevolezza che non esiste solo una causa di un fenomeno, ovvero che un fenomeno è normalmente prodotto da una molteplicità di cause diverse, che non sempre una stessa causa produce lo stesso effetto, ecc. orientano verso una concezione del reale di straordinaria complessità. In cui, tuttavia, il determinismo, seppure attenuato dalla variabilità dei fenomeni che è necessario studiare, appare concettualmente come uno strumento insostituibile. Soprattutto in quelle scienze, come la medicina, dove non tutte le cause (che hanno a priori un’importanza dello stesso ordine di grandezza) sono note. Allora, la soluzione determinista non può che essere di tipo statistico-probabilistico, dove all’effetto congiunto delle “determinanti” che non si è riusciti a valutare viene sostituito, nell’analisi, un termine di errore. Errore che spiega la variabilità dei risultati a parità dei livelli delle determinanti note. Errore che, però, si riduce fortemente non appena è possibile valutare l’effetto di nuove determinanti che, producendo una minore fluttuazione dei risultati, consentono previsioni più precise. La componente deterministica del modello viene allora ad assumere l’aspetto di un valor medio, la cui fluttuazione è misurata dalla variabilità dell’errore.
Ma in medicina le possibili variabili sono sempre tante, vista la complessità dell’individuo…
B. Barberis: Vero. Ad esempio, è nell’esperienza comune che una stessa terapia somministrata a soggetti affetti dalla stessa malattia può produrre effetti diversi: per alcuni influisce molto favorevolmente sul decorso della malattia, per altri, pur migliorandone la prognosi, ha effetti minori, per altri ancora non esplica alcun effetto sostanziale. Ciò è dovuto, almeno in parte, alla presenza di fattori individuali che esercitano un’azione il cui ordine di grandezza è talvolta analogo, se non superiore, a quello del farmaco: questi è più efficace in presenza di particolari combinazioni di modalità di tali fattori, detti fattori prognostici, in quanto in grado, a parità di trattamento terapeutico, di modificare la prognosi. In tale schema, visto che i soggetti hanno tutti la stessa malattia, la terapia può essere considerata la causa, e la guarigione del paziente il possibile effetto. Non conosciamo a priori su quali soggetti la terapia avrà successo; tuttavia possiamo ugualmente formulare una previsione su base probabilistica, andando a rapportare il numero dei soggetti che hanno tratto beneficio dalla terapia al numero totale dei soggetti a cui essa è stata somministrata.
A tale livello di conoscenza, quindi, non si è certi che la terapia sarà efficace nel singolo soggetto, ma a ciascuno è assegnata la stessa probabilità di trarne giovamento. In tal caso, la variabilità delle risposte è elevata, in quanto dipende, oltre che dalla terapia, comune a tutti, da caratteristiche individuali che, nel gruppo complessivo dei pazienti, sono molto diverse. Ad esempio, età molto differenti, gruppo eterogeneo rispetto al sesso, presenza di altre malattie concomitanti, condizioni generali di salute, ecc.
E infatti la statistica ci viene in qualche modo in aiuto, almeno negli studi clinici…
B. Barberis: Il successivo passo nell’analisi consiste nella costruzione di gruppi di soggetti, omogenei per certe caratteristiche individuali (stessa età, stesso sesso, presenza o meno di altre malattie, ecc.) che verosimilmente influenzano la risposta (prognosi). All’interno di ciascuno di tali gruppi di soggetti viene ricalcolata la probabilità di esito favorevole della terapia. Se le caratteristiche individuali rispetto alle quali sono stati classificati i pazienti sono importanti ai fini del differente miglioramento della prognosi, i valori delle probabilità di guarigione così ottenuti risulteranno diversi da gruppo a gruppo, così che le risposte, all’interno di ciascun gruppo, presenteranno una variabilità inferiore a quella osservata considerando l’intero collettivo dei pazienti. In tal modo, oltre alla terapia, sono state considerate altre “cause” di guarigione, introdotte nel modello come fattori prognostici, che sono riuscite a ridurre la variabilità delle risposte. Si tratta ancora di un modello probabilistico, in quanto la previsione di guarigione all’interno di ciascun gruppo è ancora su base probabilistica, che però è in grado di fornire previsioni molto più precise in quanto parte della variabilità iniziale è stata spiegata dalle caratteristiche individuali. È l’effetto dei fattori non ancora presi in considerazione (o perché sconosciuti o perché non osservabili sul singolo soggetto) che produce la variabilità residua all’interno dei gruppi, variabilità che è ineliminabile, in quanto mai potranno essere considerati tutti i fattori che influenzano la risposta al trattamento. È per tale motivo che nella ricerca scientifica contemporanea più che di “cause” si parla di determinanti. Quindi, malgrado sia evidente la consapevolezza che ogni previsione non può che essere su base probabilistica, si tenta di aumentare il peso della componente deterministica, cercando di scoprire nuovi e più potenti (dal punto di vista esplicativo e, quindi, predittivo) fattori prognostici che siano in grado di ridurre sempre più la variabilità delle risposte.
Quindi la relazione, il nostro più importante strumento logico, è irrinunciabile?
B. Barberis: Sì. Però, il suo enunciato non può più restare quello deterministico di condizione necessaria e sufficiente, e va pertanto attenuato in una visione probabilistica dei fenomeni, spesso la sola possibile. Concettualmente resta lo stesso strumento, ma non è più sufficiente un solo esperimento per confutare una teoria, in quanto, nella visione probabilistica del reale, una sola osservazione nulla prova o confuta, essendo ogni possibile osservazione compatibile − sotto un profilo deterministico − con la legge. Per respingere un’ipotesi scientifica, in senso probabilistico (ossia con un margine di errore nella decisione di confutarla), è necessaria una pluralità di osservazioni. Pertanto, nel moderno processo di acquisizione di conoscenze in campo scientifico, dominato dalla consapevolezza della complessità del reale, la matematica gioca un ruolo decisivo, soprattutto attraverso l’utilizzo dei modelli statistico-probabilistici. Nello studio dei fenomeni tipici della medicina la componente deterministica assume un ruolo di straordinaria importanza, nel senso che quanto più i suoi effetti sulla risposta sono marcati, tanto minore è la fluttuazione casuale dovuta all’errore, e, quindi, tanto più precisa risulta la previsione.
E per il musicista?
L. Giannelli: Penso che sia molto importante confrontarsi con chi, come voi, lavora nel reale. Perché, secondo me, ciò significa saper dialogare, arricchirsi di nuove esperienze, aggiornarsi, mettersi (coraggiosamente!) in discussione. Ed è quanto avviene nei congressi o nei seminari. Visto che abbiamo colmato il fossato che in qualche modo sembrava dividerci, direi che si tratta dello stesso percorso sul quale deve procedere anche un musicista, perché la musica − fortunatamente − non si è fermata a Vivaldi, a Mozart, a Beethoven o a Verdi, benché questi siano grandi musicisti o quelli che potremmo preferire. È interessante e bello anche il ritmo delle percussioni di una tribù africana del nostro tempo…
Infine, darei molta importanza all’ascolto “paziente”… del paziente, soprattutto perché da parte sua è segno di fiducia, a volte sfogo, superamento della solitudine, bisogno di sicurezza: sono aspetti che ormai accomunano giovani e anziani. Da parte del medico potrebbe essere l’inizio del successo nella cura della patologia diabetica.