Medico: una questione complessa
Tra problemi e contraddizioni, Ivan Cavicchi ci dice come cambia e dovrebbe cambiare la nostra professione
di Riccardo Fornengo
Negli ultimi tempi la figura del medico è profondamente cambiata. Non troppi decenni or sono diventare medico voleva dire acquisire un ruolo sociale e un reddito che poche altre professioni assicuravano. Il semplice essere medico comportava rispettabilità perché portatore di salute e cultura che nessuno metteva in dubbio. Ma negli anni l’aumentata cultura medica della popolazione generale, il sempre più facile accesso all’informazione, la diffusione della supposta malasanità (anche se siamo considerati dall’OMS come la seconda migliore sanità al mondo), il blocco dei contratti, il blocco del turn over, un lavoro sempre più pressato da norme e leggi che mirano più al controllo della spesa intesa come “risparmio economico” che alla corretta gestione responsabile della salute della popolazione, la sempre più diffusa visione della sanità come “costo” e non come “investimento”, ha comportato una drammatica revisione del proprio ruolo sociale, professionale e personale di ciascuno di noi. Nel tentativo di capire le origini e le possibili strade per uscire da questo “pantano” abbiamo intervistato il Ivan Cavicchi, medico e sociologo, che insegna Sociologia delle organizzazioni sanitarie e Filosofia della medicina alla facoltà di Medicina dell’Università Tor Vergata di Roma, e che ha recentemente pubblicato Questione medica. Come uscire dalla palude, un interessante istant book sull’argomento (scaricabile qui).
Ivan Cavicchi |
Oggi in Italia la figura del medico è troppo spesso delineata sull’onda delle emozioni e del momento che rischiano di far perdere il senso di una categoria che ha avuto un preciso ruolo e missione. E’ tuttavia innegabile che sia in atto un mutamento. Che cosa, in concreto, sta cambiando?
Se per mutamento intendiamo qualcosa che non dipende da noi (ad esempio il tempo, la crisi economica, la società, la politica dei governi, eccetera) e per cambiamento intendiamo invece la risposta razionale, ragionevole, pratica che mettiamo in campo per farvi fronte, allora si può dire che la professione medica, ma non solo, ai vari mutamenti che si sono succeduti soprattutto a partire dalla seconda metà del ’900 non è riuscita a rispondere mettendo in campo dei cambiamenti.
Nessun cambiamento equivale a una regressione…
Se per regressività intendiamo non necessariamente il tornare in dietro ma lo stare fermi di fronte al mutamento, allora la professione medica, almeno negli ultimi cinquant’anni, ha accumulato gradi sempre maggiori di regressività. Restando ferma (invarianza), è come se fosse tornata indietro.
Qual è l’attuale profilo della professione medica?
Se per professione medica intendiamo un paradigma, uno stampo, una ortodossia, una razionalità organizzata, una conoscenza, delle modalità e delle prassi, un ruolo e uno status, allora si può dire che la professione appare prevalentemente invariante: si aggiorna e si adegua al mutamento scientifico ma non risponde a quello sociale, culturale e meno che mai a quello economico.
Quali sono i principali mutamenti che hanno riguardato e riguardano la nostra professione?
I più grandi mutamenti che, soprattutto nel ’900, hanno riguardato la professione medica sono: lo status professionale, da professione liberale essa è diventata sostanzialmente una professione dipendente, in particolar modo con lo sviluppo dei sistemi di welfare; lo status del malato, che da paziente diventa sempre più esigente, cioè da beneficiario a contraente, da organo a persona, da oggetto di conoscenza a soggetto che partecipa alla conoscenza; il limite economico, che determina politiche restrittive di definanziamento e che nel tempo vede sempre più il medico come effettore di spesa, come costo, come lavoro da standardizzare controllare guidare (poiché l’autonomia è costosa); la crescita delle altre professioni, in termini di numero e in termini di ruoli (si pensi alla trasformazione della figura infermieristica). A fronte di tali mutamenti la professione medica, a parte per l’aggiornamento scientifico, a tutt’oggi appare spiazzata e spaesata. Lo dimostra il fenomeno del contenzioso legale, quello della medicina difensiva, la perdita costante di autonomia, la difesa difficile del ruolo, la decapitalizzazione del suo valore retributivo, una formazione inadeguata, una deontologia ferma nel tempo, solo per citare alcune questioni ancora irrisolte.
Il titolo del suo libro è Questione medica. Cosa intende con questa espressione?
Mi riferisco a tutto ciò che ho detto poco fa. “Questione medica” è il complesso sistema di problemi che sta trasformando di fatto la professione in peggio. Purtroppo, a questa decadenza non si riesce a contrapporre un’alternativa credibile, a parte rivendicare in modo retroverso un ruolo o un atto che però nella loro legittimità andrebbero profondamente riformati.
Nel mondo di oggi come può il medico gestire efficacemente la complessità sempre maggiore della scienza e della medicina?
La complessità non è una conoscenza (gnoseologia) ma un modo di conoscere (epistemologia). Qualcuno usa l’espressione teoria della complessità, altri parlano di metodo della complessità, altri ancora di logica della complessità. Al centro di tutto vi è il tentativo di studiare la realtà nella sua varietà, cioè come un “mondo a molti mondi”, con lo scopo di comprendere i comportamenti globali, le tante interazioni, le tante covalenze e consignificanze, le tante relazioni allo scopo di predirne l’evoluzione.
Ci aiuta a capire meglio?
Il malato complesso per la medicina è un anziano, con malattie croniche, acuzie e polipatologie. Per la filosofia invece questo malato è solamente clinicamente complicato, ma diventa complesso se è anche solo, con una pensione al minimo, con una assistenza inadeguata. Diventa ancora più complesso se si considera che è una persona con una propria cognizione, una propria storia, se pretende di avere dei diritti, fino a diventare ipercomplesso se ha pure una singolarità, una specificità, cioè se le risposte alla clinica sono difformi dagli standard. Il malato moderno, cioè “l’esigente”, per me è complesso per definizione. Per cui quella medica è una professione che non ha a che fare con un mondo solo (biologico), ma con un “mondo a molti mondi” (biologici e sovrabiologici).
Una complessità decisamente complessa…
Se la complessità la definiamo come il tentativo di conoscere la realtà senza per forza ridurla o semplificarla o molecolarizzandola (riduzionismo), allora la medicina e quindi il medico sta perdendo il treno della complessità. Nonostante tanti aggiornamenti nel modello di formazione medica, il medico resta prevalentemente un riduzionista, un organicista, un determinista, un nozionista, un fisicista. E’ uno scientista ancora fermo al neopositivismo dei primi decenni del ’900. Serve una riforma non solo gnoseologica (a questa provvede il progresso scientifico) ma epistemologica (a questa dovrebbe provvedere l’università).
Quali sono le altre competenze che il medico dovrebbe quindi avere?
Oggi il medico è come spiazzato: oltre ad essere un clinico dovrebbe essere un organizzatore, un gestore, un economista, abile nelle relazioni interpersonali e sapere di codici civili e penali (non si sa mai!). Il problema di fondo delle facoltà di Medicina è che ancora oggi esse si riferiscono a una idea di scienza medica ormai ampiamente superata, o se si preferisce complessificata. Oggi siamo a pieno nel post-positivismo. Il biologismo, che pur resta la base portante della conoscenza medica, soprattutto clinica, deve vedersela quotidianamente con altri “ismi”. La clinica oggi non si può più permettere solo di osservare, di misurare, di fattualizzare il visibile, ma è sempre più spinta a ragionare oltre se stessa, cioè oltre l’osservabile.
Nel nostro mondo guidato da linee-guida, protocolli ed EBM come si può gestire la complessità?
L’unico modo che io conosco per governare la complessità di un malato, cioè la sua singolarità, è saper navigare a vista e rinunciare quando serve alle EBM e ai protocolli. Il medico deve essere capace di autonomia cognitiva, di congetturare, ragionare e pensare fuori dalla protocollarità. Ma oggi tutto è protocollare e quando il malato resta fuori per ragioni di singolarità dal protocollo (penso all’oncologia) i medici annaspano e si muovono al buio. E’ paradossale che nonostante vi sia un’esplosione della variabile singolarità (bio-genetica-sociale), anziché formare il medico al governo della complessità, e quindi all’uso della propria autonomia cognitiva, tale autonomia venga imbrigliata standardizzando le prassi cliniche il più possibile. La faccenda dell’appropriatezza prescrittiva e delle sanzioni è sotto ai nostri occhi. Il problema non è evitare che il medico giudichi e scelga, ma qualificare tanto il giudizio che la scelta. Senza un medico capace di giudicare e scegliere, la complessità ce la possiamo scordare!
Medicina e politica hanno un rapporto difficile. Secondo lei ha sempre senso scioperare? E per cosa?
Ho sostenuto pubblicamente i medici nelle loro lotte perché sostengo che il medico sia un bene comune e che come tale va difeso nell’interesse primario del cittadino e anche perché, a parte i suoi colpevoli ritardi storici e le sue regressività, ci sono ragioni da vendere. La condizione medica sta diventando sempre più insostenibile. Ma l’aver pubblicato un libro sulla “questione medica” offrendolo gratuitamente su “quotidianosanità.it” è da parte mia innegabilmente un gesto polemico. Manca un’idea nuova di medico, la voglia di rispondere alle restrizioni economiche, al contenzioso legale, alla medicina difensiva con un altro modo di fare e di essere medico. Lo sciopero dei medici senza una piattaforma credibile diventa un modo vecchio di affrontare le questioni sul tappeto, contratti compresi.
La sua idea è quella di un medico “invariante” anche quando protesta, sebbene abbia ragione. Come ci si può muovere diversamente?
Oggi, soprattutto dopo l’ultima legge finanziaria, il finanziamento alla sanità è condizionato nel senso che è commisurato alle diseconomie che si potrebbero cancellare. Per tale motivo i medici si dovrebbero presentare al governo con una piattaforma che li impegni per quello che li riguarda a ridurre sprechi, diseconomie e antieconomie. Dovrebbero proporre un medico moderno in grado di governare la complessità e che in ragione di nuove abilità aiuti a ridurre la spesa, il contenzioso legale, i propri comportamenti opportunisti. Propongano di rinnovare le formule contrattuali in funzione dei risultati e vedranno se il governo si può permettere il lusso di snobbarli come dei barboni. Ma come è possibile ancora oggi, nel tempo dove il risultato è diventato il grande referente di tutto, pagare i medici di base a quota capitaria e gli specialisti ambulatoriali a ore e tutti gli altri per compiti? Come è possibile avere ancora ospedali che sono stati concepiti nel 1938 (prima riforma ospedaliera), poi completata nel ’68 (riforma Mariotti) e poi recepita tale e quale nel ’78 (riforma sanitaria)?
Quindi?
Oggi chi chiede e basta è incompatibile con la spesa pubblica, per cui è politicamente fuori, cioè incompatibile con gli interessi, si dice, del paese. Propongano i medici un medico auto–re, come ormai vado dicendo da molti anni, cioè una nuova transazione: dammi più auto-nomia e in cambio ti do più re-sponsabilità. Voglio vedere se davanti a questa idea il governo tira dritto per la sua strada.
Come si può conciliare l’etica professionale con i vincoli di spesa sempre più spesso imposti?
Il conflitto fra etica e economia oggi si risolve con una nuova parola: “compossibilità”. L’etica è compossibile con la scienza e con l’economia solo se tra loro non vi sono contraddizioni. Dobbiamo uscire dalla vecchia logica della compatibilità in ragione della quale l’etica e la scienza devono sempre e comunque adattarsi all’economia. Ricordo la questione del costo dei farmaci innovativi. Di questo passo, dal momento che è previsto per gli anni a venire un definanziamento programmato per la sanità l’etica e la scienza finiranno con il soccombere sotto limiti che nel tempo, non si ridurranno ma cresceranno. Quali contraddizioni si possono rimuovere tra domanda e offerta? Tra l’essere medico e l’azienda? Tra essere medico e la formazione? Tra essere medico e le altre professioni? Tra essere medico e la società, il cittadino? Quali organizzazioni del lavoro si possono concepire con un basso grado di contraddizioni. Occhio a non confondere “problema” con “contraddizione”: il primo si risolve senza cambiare il mondo (problem solving), la seconda si rimuove o si risolve cambiando il mondo. Oggi la professione medica è spesso in contraddizione con il contesto in cui opera.
Ma come si rimuove questa contraddizione?
In un modo solo: reinventando il medico, il suo ruolo, il suo status… Perché alla fine della fiera troppi sono i mutamenti ai quali da almeno cinquant’anni anni dobbiamo rispondere.