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Un ROMEO per il miglioramento e la valorizzazione professionale contitui


Marina Trento
 

Marina Trento, psicopedagogista torinese, esperta di educazione della persona con diabete, insegna Pedagogia clinica e collabora con la Scuola allievi infermieri ed Educatori professionali dell’Università di Torino. Lavora presso Laboratorio di Pedagogia Clinica del Dipartimento di Medicina Interna dell’Università di Torino ed è stata impegnata nella progettazione e realizzazione del progetto ROMEO (Ripensare l’Organizzazione per Modificare l’Educazione e gli Outcomes), con Massimo Porta quale Responsabile scientifico, che si è svolto fra il 1999 e il 2007. Un’esperienza significativa, di cui parliamo con la stessa Marina Trento, che abbiamo incontrato all’EASD 2008, ove ha ricevuto numerosi consensi internazionali e un premio, per cercare di capire meglio le potenzialità di quella che può essere definita una risposta organica e strutturata al problema dell’organizzazione di una metodologia centrata sul paziente, che coordina e integra i diversi interventi e le risorse in una logica di miglioramento e valorizzazione professionale continui. E dopo l’intervista, un intervento di Giorgio Grassi, direttamente coinvolto nel progetto.

di Marco Comoglio


Ripensare l’organizzazione per modificare l’educazione e gli outcome. Marina Trento, che tipo esperienza è stata?
Tutto nasce nel 1996, presso il Dipartimento di Medicina Interna dell’Università di Torino. Allora ebbe inizio uno studio clinico controllato e randomizzato con il fine di sperimentare un nuovo modello clinico-educativo per la gestione e il trattamento del diabete tipo 2. Quello studio permise di dimostrare che con un intervento denominato Group Care era possibile migliorare la qualità di vita e stabilizzare il compenso metabolico in persone con diabete tipo 2. I risultati ottenuti e l’interesse dimostrato da diversi servizi di diabetologia sono stati lo stimolo per la realizzazione del progetto ROMEO.

ROMEO: un bel nome per un progetto…
Al di là del nome, sicuramente gradevole, il ROMEO (Ripensare l’Organizzazione per Migliorare l’Educazione e gli Outcome) iniziò con la partecipazione di 12 servizi di diabetologia sparsi sull’intero territorio nazionale per verificare l’applicabilità e la trasferibilità del modello educativo della Group Care. Gli obiettivi erano chiari: insegnare il metodo agli altri operatori interessati, valutare la trasferibilità e l’applicabilità del metodo ad altri centri, e valutare i risultati del metodo utilizzato nei diversi centri. Le motivazioni del coinvolgimento sono principalmente da ricondurre ad esigenze di tipo organizzativo-gestionale, formative e di valorizzazione del ruolo delle diverse figure professionali componenti l’équipe diabetologica. Allora era infatti diffuso il bisogno di ricondurre ad una dimensione scientifica misurabile il ruolo dell’educazione terapeutica ed esisteva una comune percezione che la tradizionale visita diabetologica individuale, caratterizzata da un approccio duale e unidirezionale operatore-paziente, difficilmente fosse capace di creare condizioni e setting educativi in grado di favorire l’acquisizione di stili di vita nuovi e più favorevoli.

 

In sostanza, che cosa si prefiggeva il ROMEO?
Realizzare un programma di formazione per gli operatori che volontariamente dichiaravano di voler applicare la Group Care nella propria realtà. Si sono tenute riunioni finalizzate a coinvolgere i centri e gli operatori nella costruzione, organizzazione e realizzazione del progetto. La formazione, rivolta all’équipe diabetologica, è stata finalizzata ad acquisire un metodo, un linguaggio e un sapere comune, a prendere coscienza dei diversi ruoli e competenze, a identificare i problemi nella concreta applicazione del programma educativo e orientare il percorso formativo alla soluzione dei problemi.

Avete lavorato su argomenti specifici?
Sì, certamente. Nelle diverse riunioni sono stati affrontati i principi e gli obiettivi dell’educazione terapeutica, la discussione del programma di tutoraggio per gruppi di educazione terapeutica, le attività pratiche per imparare a condurre i gruppi e l’analisi del processo di trasferimento. 

Dunque, una questione anzitutto di metodo: ma come trasferire il metodo?
Per valutare la trasferibilità e l’applicabilità del metodo sono stati effettuati sopralluoghi nei centri partecipanti al fine di verificare con le équipe la possibilità di inserire il modello nella specifica organizzazione ambulatoriale. La successiva fase di applicazione metodologica è stata realizzata attraverso la verifica dell’acquisizione del processo formativo e l’analisi di fattibilità organizzativa nelle singole realtà operative. Svolta tale fase per ogni singolo centro è stata curata lapreparazione del materiale, costruito uno specifico database per la raccolta dati, garantito dall’Università di Torino e dal Gruppo di Coordinamento un appoggio logistico continuo per la realizzazione delle attività sperimentali. È stata infine offerta la supervisione pedagogica e metodologica agli operatori coinvolti affinché potessero affrontare ed applicare con modalità corrette il nuovo modello educativo loro proposto. 

 

Quali risultati sono arrivati dai centri?
Nel corso dello studio a ciascun centro era stato chiesto di compilare, dopo il primo anno di attività, un questionario appositamente costruito volto a individuare le modalità organizzative adottate, verificare l’andamento degli aspetti operativi del progetto e valorizzare la produzione di idee emerse dal trasferimento del metodo nelle singole realtà. Attraverso l’analisi dei risultati emersi dal questionario è stato possibile valutare l’impatto che il trasferimento del metodo ha determinato sull’organizzazione del lavoro. In particolare si è voluto evidenziare quali fossero state, in questa prima fase, l’acquisizione di competenze da parte degli operatori, il riconoscimento dell’attività educativa a livello aziendale, la valorizzazione del ruolo dei singoli operatori.

I risultati?
Direi eccellenti. Anzitutto il questionario è stato prodotto a partire da un’iniziale analisi dei bisogni strutturali, organizzativi e formativi all’interno di una struttura campione. Questa prima analisi ha consentito di individuare una serie di item in grado di descrivere l’area della formalizzazione interaziendale, della comunicazione, dell’analisi delle risorse, della formazione, del metodo e della misurazione, della motivazione dell’équipe e del paziente. Il questionario, suddiviso in aree tematiche, ha rilevato che, ad un anno dall’inizio del progetto, nell’ambito dell’area della formalizzazione interaziendale, 6 centri avevano avuto un riconoscimento intraziendale per l’attività di Group Care svolta nel Servizio di Diabetologia. In particolare, due centri avevano ottenuto l’approvazione per Progetti-Obiettivo e un centro aveva stipulato una delibera/determina tra la propria azienda sanitaria, lo staff dell’Educazione alla salute e l’Università di Torino. L’attività, in sette casi, è stata resa nota ai Medici di Medicina Generale e/o ad altre strutture cliniche od organizzative all’interno delle rispettive aziende. In un servizio l’attività è stata resa nota allo staff della Direzione Generale, quello di Promozione alla Salute e Qualità Aziendale. Risulta pressoché totale la comunicazione ai responsabili di macro struttura e/o alle Direzioni Sanitarie. Per quanto concerne l’area della comunicazione, risulta essere valorizzato in 4 servizi anche il ruolo dell’utente e/o associazione dei pazienti.

Per quel che riguarda le risorse?
Qui è emersa un’approfondita e dettagliata valutazione in merito alla convenienza dell’intervento, condotta facendo riferimento a ciascuna delle figure professionali coinvolte. I tempi netti medi di lavoro dedicati per ogni seduta di gruppo condotta per dieci pazienti hanno evidenziato che il medico dedica ad ogni sessione 108 minuti e l’infermiere 57. Per quanto riguarda il coinvolgimento di altre figure professionali risulta particolarmente rilevante, dove esistente, il tempo dedicato dal dietista a questi interventi: 34 minuti. Altrove si è fatto ricorso ad altre figure professionali dotate di valenza educazionale, con un impiego medio di 60 minuti. Esiste anche un utilizzo di spazi fisici dedicati, anche se non ad uso esclusivo dell’attività educativa, con una dimensione media di 34 metri quadrati. Per l’attuazione operativa delle sedute di gruppo, per la totalità dei servizi non vi sono stati oneri aggiuntivi, in quanto l’Università di Torino ha fornito il materiale didattico.

Rimaniamo ancora ai numeri: il trasferimento del metodo rappresenta davvero un’opportunità di ripensare l’organizzazione all’interno delle équipe diabetologiche?
Direi di sì. Ad esempio, nell’ambito dell’area della motivazione delle équipe sono emerse, quali opportunità: la partecipazione a nuove modalità terapeutiche in 12 centri, più tempo per l’educazione in 11, la condivisione di obiettivi comuni in 12, un maggior senso di appartenenza all’équipe in 12, una migliore qualità delle prestazioni in 12, migliori esiti di cura in 12, una miglior organizzazione del lavoro in 11, la valorizzazione professionale in 12 e il riconoscimento di un ruolo educativo in 11.

L’area del metodo ha identificato specifici punti di forza?
A livello di analisi progettuale emerge come punto di forza l’adozione di un programma educativo già strutturato e articolato con lezioni sviluppate su argomenti specifici. A tal riguardo è stato rilevato che i pazienti sono stimolati ad apprendere per esperienza diretta fornendo un immediato e continuo feedback agli operatori sanitari. Il progetto ha inoltre favorito a livello aziendale l’inserimento in progetti obiettivo e/o delibere/determine che hanno consentito l’attribuzione di una maggiore credibilità all’intervento stesso. La diversa organizzazione dell’attività educativa ha favorito all’interno del team la condivisione di obiettivi comuni ed una maggiore valorizzazione delle diverse figure professionali.

E le criticità?
Sono state individuate nell’iniziale fatica ad accettare il cambiamento, a seguire un protocollo di ricerca predefinito, a procedere in modo sistematico nella somministrazione dei questionari, nella raccolta dei dati e a pianificare le scadenze e l’attività organizzativa in modo continuativo.

Vi è stata una verifica interna di percorso?
Certamente: nel 75% dei casi è stato individuato nel livello di gradimento da parte dell’utente, espresso con la frequenza di partecipazione.

Sul versante pazienti?
La valutazione degli aspetti ritenuti importanti nello stimolare l’adesione dei pazienti al programma ha portato all’identificazione di specifiche leve motivazionali: in 12 centri la partecipazione a nuove modalità terapeutiche e un maggior tempo dedicato all’educazione, in 7 centri la condivisione di obiettivi comuni e in 6 un maggior senso di appartenenza all’équipe. In 11 centri l’adesione dei pazienti si è focalizzata su una migliore qualità delle prestazioni e migliori esiti di cura. La possibilità di comprendere meglio la malattia ha rappresentato un’importante leva in tutti i centri, mentre il diverso utilizzo del tempo di attesa è stato colto come un’opportunità in 11 casi. Queste strategie motivazionali, variamente combinate tra di loro, sono state frutto di un’attenta analisi preliminare da parte dei centri che hanno valorizzato i loro maggiori punti di forza

Ma il percorso del ROMEO potrebbe concretamente essere trasferito anche a livello di sistema sanitario nazionale?
I promettenti risultati ottenuti con l’applicazione della Group Care nel Centro di Torino lasciano intravedere la possibilità di modificare l’approccio al malato cronico: da quello tradizionale medicalizzato a quello dove invece il paziente assume gradualmente un ruolo più centrale, grazie all’applicazione delle metodologie di pedagogia dell’adulto. Infatti, i pazienti seguiti mediante Group Care hanno ottenuto importanti miglioramenti dal punto di vista sia clinico che psicocognitivo. In tale prospettiva, il completamento del progetto ROMEO potrà confermarne la trasferibilità e la sostenibilità, come procedura altamente costo-efficace.

Ma gli MMG potranno essere coinvolti? E come?
L’adozione della procedura da parte dei Medici di Medicina Generale dovrebbe essere concreta, qualora l’evoluzione dei loro rapporti contrattuali con il Servizio Sanitario Nazionale arrivino a prevedere forme di collaborazione con i servizi ospedalieri.

Il contributo di ROMEO alla pratica quotidiana
Giorgio Grassi
Divisione di Endocrinologia e Metabolismo
Dipartimento di Medicina Interna
Università di Torino
Osp. Molinette


G. Grassi
 

Come medico impegnato quotidianamente nell’assistenza alle persone con diabete ho sempre considerato di primaria importanza la trasmissione della conoscenza sulla condizione di malattia e di sviluppare comportamenti atti ad aumentare la capacità di gestire con maggior autonomia la quotidianità della cura.

Tutti i giorni possiamo osservare come la scarsa conoscenza della malattia possa produrre insicurezza e frustrazione nei nostri pazienti. Lo studio clinico controllato e randomizzato nato come Group Care con il fine di sperimentare un nuovo modello clinico-educativo per la gestione e il trattamento del diabete tipo 2 presso il nostro Dipartimento di Medicina Interna, apre una prospettiva che ha la caratteristica di sfruttare al meglio le limitate risorse dei centri, di valorizzare tutte le figure professioni coinvolte nella cura attraverso un percorso ben strutturato con la preziosa caratteristica della gradualità nel dare al partecipanti-pazienti il tempo di crescere ed assorbire nuovi comportamenti ed ai partecipanti-operatori di meglio conoscere gli ostacoli, le resistenze ad una buona gestione della malattia diabetica (feed-back).

Per quanto riguarda l’équipe, l’applicazione del metodo di terapia-educazione di gruppo ci ha permesso di meglio organizzare il lavoro, ottimizzando l’uso del tempo. Dopo la formazione e attraverso la condivisione di metodo e contenuti, nella pratica educativa gli infermieri del centro hanno toccato con mano il loro ruolo in un modello educativo che privilegia il rapporto con un gruppo di pazienti. Nei giorni della Group Care, dopo l’incontro di gruppo condotto dall’infermiere di volta in volta con il dietista o il medico, mi sono reso conto, nel veloce contatto con i pazienti per la gestione di problematiche mediche emergenti o nella valutazione annuale globale, quanto fosse di vantaggio educativo il superamento dell’approccio unicamente unidirezionale e duale medico-paziente. Nella pratica quotidiana la Group Care valorizza il momento educativo e rende coesa l’équipe.

L’impatto e il contributo di ROMEO su educazione terapeutica ed EBM
La ricerca in campo educativo è complessa sia per la numerosità delle variabili in gioco, sia per l’impossibilità di condurre studi controllabili. Inoltre, la maggior parte della letteratura esistente valuta esclusivamente outcome di conoscenza o relativi al controllo glicemico.

Sin dalle prime pubblicazioni l’ipotesi di lavoro in ambito di eduzione terapeutica della Group Care maturata poi nel progetto ROMEO ha, per la natura e la durata stessa del progetto, mirato a produrre evidenza non solo sugli outcome di conoscenza ma anche clinici.

La revisione delle letteratura in campo educativo prodotta dalla Cochrane già nel 2005 inserisce i primi lavori del gruppo Torinese tra quelli dotati delle caratteristiche di qualità dei trial per sostenere l’evidenza del ruolo del modello educativo-terapeutico di gruppo come un approccio che dimostrata per il diabete tipo 2 efficacia nel migliorare parametri di controllo come l’HbA1c e la pressione arteriosa oltre che le conoscenze sul diabete. Il modello della Group Care, applicato in ambito diabetologico, viene analizzato nella clinical review di Jaber orientata a studiare il ruolo delle “group visits” in diverse condizioni di cronicità.

Diversi aspetti della Group Care vengono valutati e considerati efficaci sotto diverse angolature, la capacità di potenziare il problem solving viene sottolineata in una revisione apparsa sulla rivista Diabetes Educator, mentre la capacità di fornire un supporto sociale e quindi un aiuto alla persona viene evidenziato in una revisione sistematica della letteratura apparsa sulla rivista Patient Education and Counseling.

La qualità del modello come valutato nella Cochrane e i diversi aspetti positivi in ambito pedagogico hanno fatto sì che nei recenti Standard di cura americani la Group Care per i risultati ottenuti sia proposta come modello gestionale in ambito clinico ed educativo.

In sintesi il modello educativo maturato nel progetto Group Care (Turin Study) valorizza il ruolo dell’équipe, delle diverse figure professionali con la capacità di potenziare il problem solving oltre che raggiungere anche obiettivi clinici, supera la prova della trasferibilità nel progetto ROMEO e sostiene la riformulazione dell’educazione terapeutica in ambito diabetologo e potenzialmente nella gestione di altre patologie croniche.