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Rischio di ipoglicemie gravi e chetoacidosi? In un ampio studio di coorte CSII meglio di MDII in bambini, adolescenti e giovani adulti con diabete tipo 1

A cura di Lucia Briatore

4 dicembre 2017 (Gruppo ComunicAzione) – Il trattamento con microinfusore di insulina (continuous subcutaneous insulin infusion, CSII) è sempre più diffuso nei pazienti con diabete mellito tipo 1 (DMT1) e molti dati della letteratura hanno mostrato un vantaggio rispetto alla terapia insulinica multiniettiva (multiple daily dose insulin, MDII) in termini di riduzione dell’emoglobina glicata (HbA1c). In passato, la terapia con CSII è stata però associata a un maggior numero di eventi di chetoacidosi in pazienti pediatrici mentre non è ancora chiaro il rapporto tra CSII e ipoglicemie gravi.

Muovendo da tali premesse Beate Karges (Division of Endocrinology and Diabetes, Medical Faculty, RWTH Aachen University, Aachen, Germania) e coll. hanno disegnato un grande studio di coorte in un’ampia popolazione di pazienti con DMT1 afferenti a 446 centri diabetologici di Germania, Austria, Svizzera e Lussemburgo, i cui dati sono stati pubblicati su JAMA. Utilizzando il database del Diabetes Prospective Follow-up Initiative sono stati analizzati i dati di 30.579 pazienti, di cui 14.119 in CSII e 16.460 in MDII. Utilizzando la metodica del propensity score sono stati poi presi in considerazione 9814 pazienti con CSII accoppiati a 9814 pazienti in MDII. Per l’analisi dei dati è stato considerato un periodo di 12 mesi consecutivi di trattamento. Gli outcome primari dello studio erano gli eventi ipoglicemici severi e le chetoacidosi; quelli secondari il controllo glicemico e la dose totale giornaliera di insulina.

Nella coorte accoppiata, le ipoglicemie severe sono state minori nel gruppo CSII vs. MDII (9,55 vs. 13,97 per 100 pazienti/anno; differenza per 100 pazienti/anni, -4,42 [IC 95%: -6.15/-2.69]; IRR, 0,68 [IC 95%: 0,59-0,79]). Anche gli episodi di coma ipoglicemico sono stati inferiori nel CSII vs. MDII (2,30 vs. 2,96 per 100 pazienti/anno; differenza per 100 pazienti/anno, -0.66 [IC 95%: -1,24/-0,08]; IRR, 0,78 [IC 95%: 0,62-0,97]). Tali differenze permanevano anche nell’analisi di tutta la popolazione e nelle diverse fasce di età, ad eccezione del gruppo di età 1,5-5 anni dove non si sono rilevate differenze.

Per quanto riguarda la chetoacidosi, nella coorte accoppiata i pazienti in CSII hanno avuto meno eventi rispetto ai pazienti in MDII (3,64 vs. 4,26 per 100 pazienti/anno; differenza per 100 pazienti/anno, -0,63 [IC 95%: -1,24/-0,02]; IRR, 0,85 [IC 95%: 0,73-0,995]). La differenza è stata significativa anche per le chetoacidosi gravi, anche considerando l’intera popolazione in studio non accoppiata. Nell’analisi per età, il rischio è stato significativamente ridotto solo tra gli adolescenti (16-19 anni).

Tra gli altri parametri considerati, è stata osservata un’HbA1c più bassa nei pazienti del gruppo CSII (8,04 vs. 8,22%; differenza -0.18 [IC 95%: -0,22/-0,13]); inoltre, tali pazienti somministravano un minore dosaggio totale giornaliero di insulina ed eseguivano un autocontrollo glicemico più frequente.

In conclusione, lo studio di Karges e coll. presenta diversi punti di forza (la numerosità della popolazione in studio, l’attenta raccolta dati e la metodica statistica utilizzata), pur avendo il limite della mancata randomizzazione. Tuttavia, sulla base degli importanti risultati ottenuti, gli autori ribadiscono che la terapia con CSII, in popolazioni delicate come quella pediatrica, adolescenziale e dei giovani adulti, e analizzando l’incidenza delle complicanze acute del diabete, sia non solo efficace per migliorare il compenso glicemico ma anche sicura.


JAMA 2017;318(14):1358-66

PubMed


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