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Differenze correlate al sesso e al genere nella diagnosi di COVID-19 e nell’utilizzo del test per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 durante la prima ondata della pandemia: il Dutch Lifelines COVID-19 Cohort study

Punti chiave

Domanda: È possibile affermare che l’attività lavorativa nell’ambito delle professioni sanitarie espone maggiormente all’infezione da SARS-CoV-2? Esistono differenze di genere in tal senso?

Risultati: Uno studio osservazionale olandese condotto durante la prima ondata della pandemia ha dimostrato che, mentre nella popolazione generale non si sono evidenziate differenze di genere nella diagnosi di COVID-19, tra i professionisti sanitari si è osservata un’aumentata probabilità di contrarre l’infezione, con una minore probabilità di eseguire il test e di avere una diagnosi nel sesso femminile.

Significato: La preponderanza di maschi testati e diagnosticati per il COVID-19 tra gli operatori sanitari, rispetto alla popolazione generale, potrebbe essere spiegata con la presenza di sintomi più gravi nel sesso maschile o potrebbe essere determinata da ineguaglianze di genere.


A cura di Marcello Monesi, in collaborazione Laura Tonutti, Patrizia Ruggeri, Anna Bogazzi, Elisabetta Brun, Annalisa Giandalia, Chiara Giuliani, Annalisa Giancaterini e Angela Napoli – Gruppo AMD Medicina di genere

28 febbraio 2022 (Gruppo ComunicAzione) – Gli studi epidemiologici relativi all’infezione da SARS-CoV-2 hanno evidenziato una simile prevalenza nei due sessi, mentre sono differenti l’evoluzione e la severità del quadro clinico. I pazienti di sesso maschile presentano più elevati tassi di ricovero ospedaliero, di cure in terapia intensiva e di mortalità. In tale ambito gli aspetti legati al genere potrebbero risultare importanti nel modificare la distribuzione dei fattori di rischio e i pattern di esposizione. Le donne, ad esempio, rappresentano la maggior parte della popolazione che lavora nei servizi sanitari o nelle professioni che richiedono contatto con le persone in quasi tutti i paesi del mondo. Le differenze di sesso e le caratteristiche di genere impattano sui comportamenti legati alla salute, e potrebbero influenzare, anche in modo complesso, l’epidemiologia dell’infezione da SARS-CoV-2 nella popolazione.

Sulla base di queste considerazioni, uno studio recentemente pubblicato si è posto l’obiettivo di analizzare le influenze del sesso e di alcune variabili di genere sulla diagnosi di COVID-19 e sulla esecuzione dei test diagnostici in una ampia coorte della popolazione residente in alcune province del nord dell’Olanda, durante la prima ondata pandemica.

La popolazione in studio costituisce un sottogruppo di una più ampia coorte inclusa in uno studio epidemiologico prospettico, il Dutch Lifelines Cohort Study, che ha lo scopo di analizzare le condizioni e i comportamenti di salute in un gruppo di 176.729 abitanti in una regione nel nord della Olanda, arruolati dal 2006 al 2013 e seguiti per un trentennio.

I pazienti del sottogruppo Lifelines COVID-19 study sono 74.722 soggetti (60,8% donne) reclutati durante la prima ondata di pandemia e sottoposti a un follow-up di alcuni mesi (marzo-agosto 2020) mediante la autocompilazione in modalità digitale di un questionario: le domande hanno riguardato la diagnosi di malattia da COVID-19, dati demografici, occupazionali, informazioni riguardo la composizione familiare, la presenza di comorbilità, abitudini come fumo e alcol e l’aderenza alle norme di protezione individuale.

Nei soggetti arruolati l’età media era simile nei due sessi: 55,4 anni nei maschi (M) e 52,7 anni nelle femmine (F). Nelle attività lavorative e professionali che richiedono contatto con il pubblico, la quota di popolazione più rappresentata era quella femminile (65% F vs 47% M). Il divario risultava più spiccato nelle attività educative (7,6% F vs 4,8% M) e nelle professioni sanitarie (6,7% F vs 2,3% M).

Nell’1,7% delle donne e nell’1,2% degli uomini inclusi nello studio era stata formulata la diagnosi di COVID-19, con un numero di ricoveri molto basso in entrambi i sessi. Le comorbilità considerate (ad esempio diabete, malattie respiratorie, epatiche, renali, autoimmuni, neoplastiche) erano presenti nel 20% degli uomini e nel 23% delle donne.

Le relazioni tra i fattori predittivi e le variabili dipendenti “diagnosi di COVID-19” ed “effettuazione del test diagnostico per SARS-CoV-2” sono state studiate con analisi bivariate e multivariate.

La variabile dipendente “diagnosi di COVID-19”, nell’analisi bivariata, ha evidenziato che il sesso femminile è associato a un rischio aggiuntivo del 37% rispetto a quello maschile (OR 1,37; IC 95% = 1,21-1,55, p <0,002). Tuttavia, se venivano considerati tutti i fattori predittivi inseriti nei questionari, questa differenza si appianava (OR 0,94; IC 95% = 0,81-1,09).

Il fattore predittivo più importante per la diagnosi di malattia da COVID-19 è risultato essere l’esercizio di una professione sanitaria (OR 1,68; IC 95% = 1,30-2,17, p <0,002), con una significativa disparità nei due sessi. L’associazione era infatti più evidente nei maschi (OR 2,69; IC 95% = 1,66-4,38 p <0,002) rispetto alle femmine (OR 1,84; IC 95% = 1,61- 2,12, p <0,002).

Infine, valutando l’interazione tra il sesso e l’esercizio di una professione sanitaria, si è dimostrato che un minor numero di donne ha ricevuto la “diagnosi di COVID-19” rispetto alla controparte maschile (OR 0,54; IC 95% = 0,32-0,92).

Questo studio ha sostanzialmente evidenziato che in questa coorte olandese, nella prima ondata di infezione da COVID -19, gli operatori sanitari hanno maggiormente beneficiato dell’esecuzione dei test diagnostici e sono risultati maggiormente infettati rispetto alla popolazione generale, con una significativa differenza tra i sessi: nelle donne è stato eseguito un minor numero di test diagnostici ed è stato riscontrato un numero di diagnosi di infezione da COVID-19 minore rispetto ai colleghi maschi.

Come già dimostrato, fattori legati al sesso e al genere possono influire sulla differente necessità di accesso ai test diagnostici, come per i maschi, ad esempio, la maggior severità dei sintomi. Inoltre, più frequentemente gli operatori sanitari di sesso femminile sono impiegati nella assistenza territoriale, dove l’accesso ai test diagnostici è più limitato, così come la disponibilità di dispositivi di protezione, con il risultato non solo di una sottoesposizione ai test, ma soprattutto di una sottostima delle diagnosi.

Il messaggio che questo studio vuole dare è che tutti gli aspetti legati al sesso e al genere dovrebbero essere valorizzati nell’ambito non solo della ricerca legata all’epidemia da COVID-19, ma anche nell’ambito dell’organizzazione sanitaria, soprattutto nei paesi con cronica scarsità di risorse, per prevenire e contrastare le diseguaglianze di genere.



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