È un miracolo che tu sia qui
Intervista ad Aldo Maldonato
È il principale esponente italiano nell’Educazione Terapeutica. Ha fondato e presieduto il Gruppo Italiano di Studio sull’Educazione Terapeutica ed è attualmente Presidente del Diabetes Education Study Group. Lavora presso l’Unità di Diabetologia dell’Ospedale S.Andrea di Roma. È docente alla Scuola di specializzazione in Endocrinologia e Malattie Metaboliche dell’Università La Sapienza di Roma
Questa volta è il diabetologo a consegnare il diario al suo paziente, a raccontare di cosa si prova a vivere cercando di aiutare le persone con il diabete a mantenere un buon controllo. Hai letto bene, non ho scritto che il diabetologo ‘cura’ il diabete. Non l’ho scritto per la semplice ragione che non è vero. Sappiamo benissimo tutti, lo sappiamo io e te per esempio, che uscito da questo studio sei tu a decidere se, come e quando effettuare delle scelte che potrebbero o meno avere un impatto sulla tua glicemia. Detto in altre parole il ‘potere’ nel diabete è interamente in mano al paziente.
La visita vista dall’altro lato della scrivania… Ma andiamo con ordine. Leggendo questo diario, tu paziente vorrai forse sapere come appare la visita, dall’‘altro lato della scrivania’. Posso dirti come appariva in passato: frustrante. Una volta noi Diabetologi eravamo convinti che il nostro compito fosse decidere ‘al posto del’ paziente, imporgli le scelte che il Sapere medico riteneva più corrette e poi verificare se il paziente seguiva i nostri consigli. Ovviamente questo accadeva ben di rado. Il paziente entrava, veniva giudicato all’istante (“Non è dimagrito nemmeno di un chilo, e sì che mi sono tanto raccomandato!” pensava il medico), porgeva il suo diario o le emoglobine glicate e si sentiva poco ascoltato, poco creduto, molto rimproverato, e poi riceveva una nuova prescrizione, in genere uguale alla precedente. Era un’esperienza antipatica e frustrante per il paziente ma anche – i diari servono per fare confessioni no? – per il diabetologo. A un certo punto molti di noi si sono chiesti cosa sarebbe successo se avessimo evitato di giudicare, il che non vuol dire “non far trasparire il giudizio”, ma proprio astenersi dal giudicare i comportamenti del paziente.
Dissolta la cappa di frustrazione aria fresca e luce entrano a fiotti. È stato come se avessimo aperto le finestre e alzato le tapparelle in una stanza: la cappa di frustrazione si è dissolta; aria fresca e luce sono entrate a fiotti. Non è stato facile. Il Medico ha un riflesso condizionato quando incontra un paziente: si sente in dovere di fare “qualcosa” di concreto, immediato e – secondo i suoi valori – utile per il paziente. Dietro questo riflesso condizionato (che in moltissime situazioni è sacrosanto) ci sono però degli assunti tutti da verificare: 1) Il Medico ne sa di più del paziente 2) Il Medico quindi può e deve decidere al posto del paziente 3) Il Medico è in qualche misura responsabile di quel che fa il paziente. Il diabete scuote questi assunti. Il medico è un ottimo conoscitore dei meccanismi fisiologici della malattia, ma nel diabete questo è solo uno degli aspetti. L’obiettivo comune non è abbassare la glicemia, ma modificare stabilmente alcune abitudini di vita. E solo il paziente è l’esperto delle proprie abitudini e di come i cambiamenti proposti interferiranno con la sua vita familiare e sociale.
Non decidere ‘al posto del’ paziente. Il medico non può decidere al posto del paziente e quindi non deve porsi questo obiettivo. Se lo fa va incontro a una frustrazione che scaricherà fatalmente sul paziente criticandolo. E nessun colloquio, nessun incontro funziona se parte con una critica. Proprio perché non può decidere al posto del paziente il Medico non è responsabile ‘per conto’ del paziente. Qui l’equilibrio è delicato. Ammettere che il paziente ha il gioco in mano e che in ultima analisi potrebbe anche decidere che vi sono ottime ragioni per non raggiungere il controllo glicemico, non significa ‘lavarsene le mani’. Significa spostare il proprio impegno dalla fisiologia alla relazione. Mi spiego: è il paziente che decide fra le varie opzioni terapeutiche, ma per farlo deve avere buone informazioni. All’università abbiamo imparato a distinguere fra molti tipi di patologie, ma non a gestire i problemi di una persona che si deve alzare presto al mattino e ha una figlia appena nata che sembra non dormire mai. E se hai una figlia appena nata che non dorme, il tuo problema è quello. È di quello che nel colloquio bisogna parlare.
È incredibile come – su queste nuove basi – il colloquio con il paziente divenga piacevole e premiante. Notava lo psicologo Carl Rogers che l’esperienza di parlare sentendosi ascoltati con attenzione e capiti, senza essere giudicati, è preziosa quanto rara e stimolante. La conversazione finisce per vertere su temi concreti. Facilmente si raggiunge l’assetto giusto: il paziente racconta la sua vita reale, riferisce i suoi problemi concreti. Il diabetologo aiuta il paziente a valutare i pro e i contro delle varie opzioni terapeutiche. Lo aiuta nell’individuazione dei passi concreti da compiere per raggiungere l’obiettivo prescelto, e nella programmazione della valutazione dei risultati raggiunti. Cambia ruolo e, da guida che prende tutte le decisioni, si trasforma in consulente e compagno di strada.
È un miracolo che tu sia qui. Non è stato facile cambiare atteggiamento e accettare l’idea di non essere responsabile di “fare” qualcosa di utile per il paziente. Ed è tuttora difficile, anche per chi ha abbracciato questo nuovo modo di operare (definito Educazione Terapeutica), superare un latente senso di frustrazione quando si incontrano a intervalli regolari pazienti che non sembrano aver tratto alcun giovamento dall’incontro precedente. Ma siamo sicuri di interpretare bene la situazione? Questo paziente, in fondo, alle visite si fa vedere. Guardo il suo indirizzo sulla cartella clinica, abita dall’altra parte di Roma. Ha attraversato la città in autobus ha fatto magari anche un’ora di attesa per partecipare a questo incontro. Non è affatto banale. Il diabete non gli causa dolori né limitazioni: in realtà anche le glicemie abbastanza alte non gli danno nessun fastidio. Se non fosse stato scoperto per caso, non se ne sarebbe nemmeno accorto. E la medicina non può risolvergli il problema con una pillola, può solo dargli consigli su alcuni cambiamenti di vecchie abitudini, che – questi sì – risultano in genere abbastanza fastidiosi. Insomma è un piccolo miracolo che lui sia qui. Anzi non è un miracolo è un segnale. Nonostante le difficoltà e le delusioni, il paziente spera ancora qualcosa da me si attende qualcosa da me. Sono io la parte inadempiente forse. Forse non sto utilizzando le parole che lui adotta per definire se stesso e questo aspetto della sua vita che è il diabete.
Usare le parole del paziente. Qualche tempo fa ho seguito una persona con il diabete che di lavoro faceva il piastrellista. L’emoglobina glicata mostrava che questo paziente aveva spesso la glicemia molto alta, ma lui non sembrava interessato a controllarla. Un giorno, nel corso di un incontro di gruppo, sbottò: “A me non interessa nulla del diabete. Se ho un problema questo è la stanchezza. Da alcuni anni faccio più fatica a lavorare e finisco con il posare molti metri quadri in meno di piastrelle al giorno, portando meno soldi in casa”. Un diabetologo sa benissimo che la fatica è uno dei sintomi dell’iperglicemia, ma a cosa serve questa conoscenza se non viene utilizzata? Quella che per il medico è l’iperglicemia per un paziente è la ‘fatica’. Poiché è il paziente ad avere il potere sulla cura (questo il senso della parola ‘empowerment’), il Team deve usare le sue parole.
Nessuno vive una vita ‘in generale’… Forse questo paziente che mi guarda, si aspetta la solita recita. In fondo sono anche un po’ i pazienti a condizionare il medico con le loro attese. Cosa prevede il copione? Un rimprovero velato da parte del medico, una generica spiegazione e un impegno vago a far meglio da parte del paziente e via così. Avanti un altro! Naturalmente non serve a nulla. Quando si parla ‘in generale’ in una visita è segno che nessuno crede a quello che dice. Nessuno vive una vita ‘in generale’, tutti viviamo una vita particolare. Le soluzioni che hanno qualche possibilità di essere messe in atto sono quelle che vanno incontro a problemi sentiti come tali dal paziente e che il paziente ha individuato come praticabili e ha scelto. E questa strada non viene certo imboccata con un atteggiamento giudicante e prescrittivo. Rimproverare non fa che mettere in scena una distanza. Una situazione in cui il medico saprà tutto del diabete ma non sa nulla del paziente.
Tornando alla nostra visita a questo paziente che è qui come altre volte e ha attraversato tutta Roma in nome di un progetto che sembrerebbe non condividere, io medico devo fare qualcosa di utile in questa visita? Cosa? Perché non chiederlo al paziente stesso? È lui ad avere in mano l’archivio dei valori, la conoscenza precisa dei vincoli entro i quali si muove la sua vita.