Congresso ADA 2015 – Highlights
Le relazioni del 6 giugno
ADA: l’educazione per il diabete tipo 2 è deplorevolmente sottoutilizzata
Lo stato attuale dell’educazione sanitaria dedicata al diabete tipo 2 è decisamente scarso, con meno del 7% dei pazienti seguiti da educatori professionali, almeno degli USA.
Al meeting 2015 la stessa American Diabetes Association (ADA) e altre organizzazioni hanno partecipato a una riunione al termine della quale è stata presa una posizione precisa e decisa. Margaret Powers, MD, del Diabetes Center presso il Park Nicollet a Minneapolis (USA), è stata la principale autrice del position statement: “Il Diabetes Self-management Education and Support in Type 2 Diabetes (DSME/S) è un position statement congiunto di American Diabetes Association, American Association of Diabetes Educators e Academy of Nutrition and Dietetics” ha detto, specificando che il documento “offre ai sanitari le linee-guida e un algoritmo in merito a quando inviare i pazienti con diabete a educatori certificati o ad altro personale qualificato”.
“Siamo peraltro consapevoli che lo statement sul DSME è molto in ritardo,” ha aggiunto David Marrero, PhD, presidente ADA Healthcare and Educatione docente presso l’Indiana University School of Medicinedi Indianapolis. “Io vivo con il diabete da 40 anni e più volte ho potuto verificare che l’educazione è una parte importante della gestione della malattia. E’ incomprensibile che si stia facendo così poco in questo settore. Sono dunque particolarmente lieto di vedere questo statement”.
Pubblicato online su Diabetes Care, lo statement riporta che “per consentire alle persone di apprendere le competenze necessarie per essere efficaci gestori di se stessi, il DSME/S è fondamentale per porre le basi conseguenti a un supporto continuo finalizzato a mantenere i risultati conseguiti durante il percorso educazionale svolto. Nonostante i benefici comprovati e la sua accettazione generale, il numero di pazienti che ricevono DSME/S è troppo piccolo”.
E secondo Martha Funnell, co-autrice dello statement e docente all’University of Michigan di Ann Arbor (USA), il numero di pazienti con nuova diagnosi di diabete tipo 2 coperti da assicurazione sanitaria privata che partecipano a DSME entro 12 mesi, è al massimo pari al 7%. “Mentre meno del 7% è un buon valore di glicata, è un numero pessimo se indica la quantità di persone che dovrebbero ricevere un’educazione specifica”, ha detto Funnell.
Secondo Melinda Maryniuk, RD, del Joslin Diabetes Center di Boston (USA), co-autrice dello statement, molti dei pazienti prendono decisioni importanti sulla loro salute sulla base di una cattiva informazione, e i loro medici potrebbero non saperlo. “I sanitari dovrebbero essere sorpresi di quanto spesso i pazienti decidono di non prendere i farmaci, quando la glicemia ha un buon valore, o quando si sentono bene”.
Secondo gli autori dello statement, l’obiettivo del DSME/S è quello di ridurre la confusione e fornire linee-guida chiare per gli operatori sanitari. Nello specifico, sono state individuate quattro situazioni critiche in cui un paziente potrebbe avere bisogno di consultare un educatore:
- Al momento della diagnosi
- Su base annua
- Quando nuovi fattori influenzano l’autogestione, come un nuovo problema di salute
- Quando è necessario un cambiamento nella cura.
L’algoritmo DMSE/S delinea ciò che il medico e l’educatore possono fare per fornire l’assistenza migliore. Precedenti ricerche hanno dimostrato che l’educazione può contribuire a ridurre i livelli di glicata, ridurre le complicanze del diabete, migliorare gli stili di vita e diminuire lo stress e la depressione correlati al diabete.
Peraltro, è stato ricordato che un recente studio pubblicato sul Journal of Diabetes and Metabolic Syndrome Disorders ha esaminato come 74 pazienti con diabete tipo 2 di New York abbiano utilizzato e risposto a un programma di educazione sul diabete. I ricercatori hanno trovato che l’educazione è stata sottoutilizzata, e quando era prevista è stata mal strutturata e i pazienti non ne hanno tratto beneficio.
Joel Zonszein, MD, dell’Albert Einstein College of Medicine di New York (USA) e co-autore dello studio, ha osservato: “Più di due terzi della popolazione con diabete non sono mai stati educati, e quelli che avevano seguito un percorso educazionale non hanno tratto beneficio”. E ha aggiunto: “Lo studio ha confermato la necessità di aumentare l’uso dell’attività educazionale e di migliorarne la qualità.”
E Joan Bardsley, RN, CDE, del MedStar Health Research Institute di Hyattsville (USA), co-autore del position statement, ha detto: “Possiamo dire che l’educazione, negli USA è rimborsata da Medicare,ed è un beneficio purtroppo sottoutilizzato”. La conclusione degli autori dello statement è stata che “se anche i rimborsi non coprono il costo DMSE/S, ci sono prove che l’educazione sul diabete può risparmiare costi sanitari nel corso del tempo”.
Conflitto di interessi: I ricercatori hanno dichiarato l’assenza di conflitti di interesse.
Fonte: Powers M, et al. Diabetes self-management education and support in type 2 diabetes: A joint position statement of the American Diabetes Association, the American Association of Diabetes Educators, and the Academy of Nutrition and Dietetics. Diabetes Care 2015; DOI: 10.2337/dc15-0730.
Statine ai giovani con diabete tipo 1: un eccesso?
Le persone con diabete tipo 1 di età inferiore ai 40 anni possono essere candidati all’uso di statine, così come quelle con età superiore sempre ai 40 anni, secondo quanto detto all’ADA 2015. Basandosi su quanto espresso dall’American Heart Association (AHA) e dall’American College of Cardiology (ACC), Rachel G. Miller, MD, della University of Pittsburgh (USA), e colleghi hanno trovato in una loro ricerca che il rischio cardiovascolare a 10 anni era di circa il 5% per i pazienti diabetici tipo 1 di età 30-39 anni e di circa il 13% in quelli di età 40-44 anni.
L’aggiunta di rivascolarizzazione coronarica a quanto indicato da AHA/ACC – che comprende anche la morte cardiovascolare o ictus non fatale o infarto miocardico – ha portato per i diabetici tipo 1 trentenni il rischio a 10 anni a quasi il 7%.
Sebbene la soglia di rischio del 7,5% a 10 anni per il trattamento con statine nelle linee-guida sia raccomandata con cautela, nello studio il 20% della coorte già in trattamento con statina prima dei 40 anni è stato escluso per una serie di eventi accaduti prima dell’inizio del follow-up.
Il gruppo di Miller ha concluso: “Riteniamo che i giovani adulti diabetici tipo 1 di età compresa tra i 30 e i 39 anni, con durata del diabete di 20 anni o meno, siano a elevato rischio di malattia cardiovascolare aterosclerotica da meritare una terapia con statine”.
Le linee-guida AHA/ACC e dell’American Diabetes Association raccomandano le statine dopo i 40 anni per tutti i pazienti diabetici e supportano con una certa cautela il possibile utilizzo per i giovani con fattori di rischio di malattia cardiovascolare.
“Finora ci siamo basati sull’idea che tutti i diabetici tipo 2 di età superiore ai 40 anni avrebbero dovuto essere trattati con una statina, e per trasposizione anche i diabetici tipo 1 di età superiore ai 40 dovrebbero essere trattati con le statine” ha commentato Naveed Sattar, MD, della University of Glasgow, Scozia (UK). “Quello che ora serve è una nuova linea-guida sul comportamento da tenere con i diabetici tipo 1 sotto i 40 anni di età che dovrebbero essere trattati con statina”.
Sattar ha osservato: “Non ci sono dati sufficienti per sviluppare un punteggio di rischio per il diabete tipo 1. Il rischio di vita potrebbe essere un criterio migliore di quello del rischio a 10 anni proposto dalle attuali linee-guida”. E ha aggiunto: “Credo che nei prossimi 2 o 3 anni avremo da banche dati nazionali di Scandinavia o Scozia un punteggio di rischio per il diabete tipo1 che ci potrà permettere di avere una risposta al problema”.
Il numero assoluto degli eventi, nello studio di Miller, era piccolo nonostante l’importante aumento del rischio di diabete tipo 1. Tra le 517 persone sotto i 45 anni, senza malattia cardiovascolare aterosclerotica preesistente, seguite dal 1996-2011 nel Pittsburgh Epidemiology of Diabetes Complications Study (un gruppo prospettico di soggetti a esordio infantile riscontrato in un unico centro subito dopo la diagnosi):
- Un evento si è verificato in soggetti di età compresa fra i 20 e i 29 anni
- 18 eventi si sono verificati in quelli di età compresa fra i 30 e i 40 anni
- 22 eventi si sono verificati in soggetti nei loro primi 40 anni di età.
La percentuale di evento coronarico fatale e ictus non fatale o infarto miocardico era di 134 ogni 100.000 nella fascia di età 20-29 anni, 502 per 100.000 persone nella fascia da 30 a 40 anni e 1336 per 100.000 nella fascia da 40 a 44 anni.
Concludendo, Sattar ha comunque messo in guardia contro una sopravalutazione di questi dati, definiti “per certi aspetti ancora molto grezzi”.
Conflitto di interessi: Miller ha dichiarato l’assenza di conflitti di interesse. Un coautore a dichiarato rapporti con Eli Lilly and Company e il Profil Institute for Clinical Research. Sattar ha dichiarato rapporti con Amgen, AstraZeneca eSanofi.
Fonte: Miller RG, et al. Should young adults with type 1 diabetes (T1D) receive statin therapy? A contemporary estimate of atherosclerotic cardiovascular disease (ASCVD) Risk from the Pittsburgh Epidemiology of Diabetes Complications (EDC) Cohort. ADA 2015; Abstract 446-P.
La preoccupazione per l’accesso al cibo è correlata allo scarso controllo metabolico
Uno studio statunitense presentato all’ADA 2015 sui latinos con basso reddito ha dimostrato che le difficoltà per l’accesso al cibo di qualità nei diabetici tipo 2 in assenza di programmi di assistenza alimentare correla con un più scarso controllo glicemico e con assunzione di diete decisamente meno sane.
Britt Rotberg, RN, PhD, della Emory University di Atlanta (USA), e colleghi hanno riportato che il 45% dei latinos di Atlanta che hanno partecipato a un programma educazionale sul diabete e che avevano problemi di reperimento degli alimenti per sé e per la propria famiglia ha avuto un’HbA1c media complessivamente più elevata (9,9 vs. 7,6%, p = 0,001). E solo l’8% di quegli stessi latinos ha avuto un’HbA1c inferiore al 7%, rispetto al 44% di coloro che non avevano problemi di reperimento alimentare (p <0,0001).
I ricercatori hanno ricordato che negli USA, a livello nazionale, circa il 14% delle persone hanno problemi di corretto reperimento alimentare, definito dal CDC come disponibilità limitata di alimenti adeguati da un punto di vista nutrizionale e ottenute in modo socialmente accettabile.
Guillermo E. Umpierrez, MD, sempre della Emory University, ha sottolineato che anche se quel programma (e quindi lo studio) era mirato solo ai latinos, “l’insicurezza alimentare è un problema in molte altre comunità di minoranza”.
Ambra Taylor, MD, direttore del Diabetes Center al Mercy Medical Center di Baltimora (USA), ha concordato con tale affermazione e ha commentato: “Ho una popolazione di pazienti molto varia del centro urbano della mia città, ma i problemi sono simili”. E ha precisato: “Spesso impegniamo le nostre visite in problem solving. Del tipo: nessun negozio di alimentari nelle vicinanze: dunque, cosa fare? Mi dicono: le verdure sono troppo costose: cosa suggerire? Poi: per chi lavora fino a tardi, mangiare cibi da asporto o surgelati è una soluzione semplice: cosa controbattere? E ancora: la possibilità di nutrire correttamente una famiglia di quattro persone con un budget ridotto non è facile: come fare? L’approccio a una soluzione uguale per tutti non funziona, abbiamo bisogno di valutare quali sono le barriere e quindi affrontare i problemi che si sono evidenziati”.
Nel suo programma di educazione sul diabete, il gruppo di Rotberg ha rilevato che molti pazienti non potevano ottenere gli alimenti consigliati. Il programma, che comprendeva 304 latinos adulti a basso reddito che avevano ricevuto un questionario CDC con una domanda circa l’insicurezza alimentare avuta nei 30 giorni precedenti, ha infatti cercato di affrontare il problema dell’insicurezza alimentare. A parte lo scarso controllo del diabete, gli individui con insicurezza alimentare avevano ad esempio anche minori probabilità di consumare verdure (38 vs. 62%; p <0,01).
Rotberg ha precisato: “Non ci sono state differenze di BMI, fatto che ha suggerito che tali individui hanno spostato i costituenti della loro dieta su cibi più economici e trasformati, influenzando conseguentemente il controllo glicemico”.
E ha aggiunto: “Quando si parla di sana alimentazione, non dobbiamo solo parlare di ciò che si consiglia, ma dobbiamo chiedere se c’è reale accesso a tali alimenti, se il negozio di alimentari è vicino… Per esempio, nel modello di una sana alimentazione, invece di parlare di verdure fresche si potrebbero consigliare cibi surgelati o in scatola”. E ha aggiunto: “Una visita al negozio per mostrare quante verdure si potrebbero comprare con pochi spiccioli è stato uno sforzo che è parso dare i suoi frutti”.
Rotberg ha concluso che per i medici è importante capire l’importanza dell’accesso reale a cibi sani per i pazienti diabetici. E ha suggerito: “Quando si trattano pazienti senza l’assistenza di un dietista o di un programma dietetico, ciò che consiglio è usare i programmi e il sostegno a livello comunitario. Gli operatori sanitari comunitari potrebbero entrare in gioco, dando ai pazienti un’educazione e un supporto in più per poter continuare il cambiamento dei comportamenti”.
Uno dei limiti dello studio è stato, ovviamente, l’uso di un questionario autoriferito.
Conflitto di interessi: Lo studio è stato supportato da Sanofi Aventis. Rotberg e Umpierrez hanno dichiarato relazioni con Sanofi.
Fonte: Rotberg B, et al. The impact of food insecurity on glycemic control and dietary habits in low-income Latinos with type 2 diabetes. ADA 2015; Abstract 328-OR.