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Congresso ADA 2015 – Highlights

Indice congresso    6 giugno    8 giugno    7 giugno   

Le relazioni del 8 giugno

Lixisenatide: sicuro ma non vantaggioso per il cardiovascolare

All’ADA 2015, i risultati dello studio ELIXA (Evaluation of Cardiovascular Outcomes in Patients With Type 2 Diabetes After Acute Coronary Syndrome During Treatment With Lixisenatide) hanno mostrato che il GLP-1 lixisenatide non riduce gli eventi cardiovascolari rispetto ad altre terapia per il diabete, ma non li incrementa.

Il rischio di morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus o angina instabile è stato pressoché identico tra pazienti in trattamento con lixisenatide rispetto al placebo, entrambe parte del trattamento antidiabetico e con un target glicemico analogo (13,4 vs .13,2%, hazard ratio 1,02, IC 95% 0,89-1,17). Se ciò ha consentito di rispondere agli standard della Food and Drug Administration (FDA) relativamente all’esclusione dei danni cardiovascolari, non tuttavia ha soddisfatto l’endpoint primario che mirava a rilevare la superiorità di lixisenatide.

Marc A. Pfeffer, MD, PhD, cardiologo presso il Brigham and Women Hospital di Boston (USA), e colleghi hanno riportato che tutti gli outcome, così come la mortalità complessiva, erano neutri, così come lo erano i risultati delle analisi per sottogruppi, anche quando si aggiungevano i ricoveri per scompenso cardiaco.

“Siamo ben all’interno di un intervallo di sicurezza, ma d’altra parte non si può dire che la randomizzazione a lixisenatide abbia migliorato la prognosi di questi pazienti ad alto rischio” ha detto Pfeffer. Che ha aggiunto: “Ciò dovrebbe comunque fornire a medici e pazienti una riassicurazione su questa terapia aggiuntiva per migliorare il controllo della glicemia”.

L’azienda farmaceutica produttrice di lixisenatide ha annunciato l’intenzione di ripresentare il farmaco per l’approvazione della FDA entro la fine del 2015 sulla base proprio dei risultati di ELIXA.

Durante la presentazione è stato peraltro ricordato che altri GLP-1 hanno risposto alle richieste di FDA di avere studi di sicurezza cardiovascolare per tutti i nuovi farmaci per il diabete tipo 2 (istituito nel 2008 sulla scia del problema rosiglitazone), risultati che sono attesi tra il 2016 e il 2019.

Nessuna sorpresa

Il discussant dello studio, Silvio E. Inzucchi, MD, direttore del Diabetes Center di Yale (USA), ha convenuto che i risultati sono stati rassicuranti e ha suggerito “che questi primi dati di outcome cardiovascolare di un agonista del recettore GLP-1 aumentano la probabilità che le sperimentazioni sugli esiti cardiovascolari daranno esiti neutri anche per il resto della classe”. E ha precisato: “Il motivo per cui nessuno di questi studi ha dato vantaggi potrebbe dipendere dal fatto che il controllo del glucosio è un piccolo pezzo del puzzle della malattia aterosclerotica. Anche se ci fosse un beneficio sul cuore, i due-tre anni di follow-up di questi studi di certo non sarebbero sufficienti a trovarlo”.

E ha ricordato che gli studi che sono riusciti a dimostrare un beneficio cardiovascolare derivante da un migliore controllo glicemico lo hanno trovato dopo 5-7 anni di studio, ma più spesso dopo oltre 10 a 20 anni di follow-up. “Ciò non significa che si tratti di farmaci inutili” ha detto Inzucchi, “pensiamo piuttosto che essi siano utili a ridurre il rischio microvascolare a lungo termine”. E ha concluso: “In ogni modo, se saremo in grado di ridurre la glicemia per un periodo di 5-10 anni avremo un impatto sostanziale sulla vita del paziente in termini di riduzione del rischio microvascolare, di retinopatia, nefropatia e neuropatia”.

Vantaggi modesti…

Nello studio ELIXA, la scelta di altri farmaci antidiabetici non a base di incretine era finalizzata a portare i livelli di HbA1c tra il 7 e l’8% per i 6068 diabetici tipo 2 che sono stati randomizzati allo scopo. Il controllo glicemico è risultato lievemente migliore con lixisenatide (differenza media post-basale -0,27%, IC 95% -0,32 vs. -0,22).

Peraltro, lixisenatide ha avuto anche vantaggi modesti ma significativi per:

  • Rallentare l’aumento dell’ACR (24 vs. 34% dal basale a 24 mesi)
  • Calo ponderale (0,7 kg in meno rispetto al placebo)
  • Pressione arteriosa (0,8 mmHg rispetto al placebo).

… E alcuni svantaggi

Il farmaco ha avuto più eventi avversi complessivi, soprattutto nausea e vomito. E ha aumentato in modo significativo la frequenza cardiaca rispetto al placebo per una media di 0,4 bpm in più rispetto al basale, cosa che secondo l’analisi dei cardiologi non può essere considerata un dato favorevole per la cardiopatia ischemica.

“La maggior parte dei partecipanti aveva avuto un infarto miocardico acuto come evento qualificante per sindrome coronarica per entrare nello studio, piuttosto che angina instabile, che rappresentava solo circa il 17% in entrambi i gruppi. La durata media del diabete era di poco superiore ai 9 anni in entrambi i gruppi.

Non ci sono stati episodi di pancreatite, carcinoma pancreatico o altri tumori, o insufficienza cardiaca, eventi che avevano sollevato domande per gli altri farmaci a base di incretine, in particolare DPP-4.

Robert Eckel, MD, della University of Colorado Denver (USA) ed ex presidente dell’American Heart Association, ha messo in guardia: “Tale aspetto è stato rassicurante, ma un follow-up relativamente breve non ha avuto abbastanza tempo per valutare il rischio di malignità”.

Ancora Inzucchi ha suggerito che con lo scarso vantaggio complessivo per lixisenatide, è difficile vedere una logica nell’impiegare una spesa maggiore rispetto ad altri farmaci che sembrano funzionare più o meno allo stesso modo. “Il costo di questo farmaco per prevenire eventi è molto elevato” ha detto. “Ed è anche estremamente costoso solo per ridurre la glicemia”. E ha precisato ancora: “E’ possibile acquistare i 10 anni di terapia con una sulfonilurea generica con un mese di terapia con GLP-1. Per il controllo della glicemia, la giustificazione del costo di questi farmaci deve essere basata non solo sui loro effetti sulle complicanze, ma anche la facilità d’uso e la qualità della vita”.

Eckel ha infine osservato che i GLP-1 sono spesso utilizzati clinicamente per facilitare la riduzione ponderale: “Questo, di per sé potrebbe valere la spesa” ha detto. “E la mancanza di beneficio in questo studio sugli outcome con lixisenatide non mi impedisce di utilizzare i GLP-1 agonisti se voglio migliorare la glicata con la riduzione del peso corporeo”.

Conflitti di interesse: Pfeffer ha dichiarato rapporti con Aastrom, Abbott Vascular, Amgen, Bayer, Celladon, Concert, Daiichi Sankyo, FibroGen, Genzyme, Medicines Company, Medtronic, Merck, Novartis, Novo Nordisk, Relypsa, Roche, Salix, Sanderling, sanofi-aventis, Servier e Teva. Riddle ha dichiarato rapporti con Sanofi, AstraZeneca Pharmaceuticals, Eli Lilly, Valeritas, Elcelyx Therapeutics, Biodel, Novo Nordisk e Pfizer. Gerstein ha dichiarato rapporti con Sanofi-Aventis, Novo Nordisk, GlaxoSmithKline, Abbott Diabetes Care, AstraZeneca, Boehringer Ingelheim, Eli Lilly.
Fonte: Pfeffer A. et al. The evaluation of lixisenatide in acute coronary syndrome – The results of ELIXA. ADA 2015; Abstract 3-CT-SY28.


Sitagliptin: non rischi e non vantaggi, una buona parità

Il sitagliptin, inibitore della dipeptidil peptidasi-4 (DPP-4), non ha aumentato il rischio di eventi cardiovascolari rispetto al placebo, ma non ha ridotto i rischi.

All’ADA 2015 sono stati presentati i risultati dello studio TECOS (Evaluating Cardiovascular Outcomes with Sitagliptin), trial clinico svolto su oltre 14.000 pazienti con un follow-up medio di 3,0 anni, ed è stato ricordato che l’endpoint primario, composito di eventi cardiovascolari, si è verificato nell’11,4% dei pazienti trattati con sitagliptin (4,06 per 100 anni-persona) e nell’11,6% dei pazienti trattati con placebo (4,17 per 100 persone-anno). I soggetti trattati con sitagliptin avevano un hazard ratio di 0,98 (IC 95% 0,88-1,09; p <0,001 per la non inferiorità).

Inoltre, “i tassi di ospedalizzazione non differivano tra i due gruppi” ha detto Rury Holman, MD, ChB, dell’Università di Oxford (UK), investigatore principale dello studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine.

“Riteniamo che il TECOS affronti molto adeguatamente il problema e metta a tacere la domanda se vi è qualche rischio cardiovascolare con sitagliptin” ha detto molto chiaramente Holman durante la conferenza stampa che ha preceduto la presentazione vera e propria. “Ci sono state anche preoccupazioni sul fatto che gli inibitori della DPP-4 fossero associati con pancreatite e cancro al pancreas, ma i tassi di entrambi i gruppi dello studio erano bassi e non differivano in modo significativo. Dal punto di vista della sicurezza, abbiamo riscontrato un tasso molto basso di pancreatite acuta. In altre parole, non ci sono stati nuovi dati che suggeriscono preoccupazioni”.

Lo studio

Il TECOS è stato il terzo trial di grandi dimensioni, e di lunga durata, sui un inibitore della DPP-4, dopo il SAVOR-TIMI 53 e l’EXAMINE, che avevano invece indotto preoccupazioni circa un aumento del rischio di insufficienza cardiaca.

Ma i risultati riportati dai ricercatori all’ADA hanno chiarito che non vi era alcuna differenza nei gruppi placebo e sitagliptin quando si trattava di sicurezza cardiovascolare. Allison B. Goldfine, MD, del Joslin Diabetes Center di Boston (USA), nelle vesti di discussant, ha ribadito che “è importante rendersi conto del disegno dello studio. Disegno finalizzato a cercare informazioni sulla sicurezza e non a valutare l’efficacia nell’abbassare i livelli di glicemia. Dunque, la questione non è stata valutare se il controllo della glicemia fosse più o meno efficace.”

E ha aggiunto: “Lo studio è stato condotto mantenendo un equilibrio, il che significa che gli altri farmaci sono stati utilizzati nello studio per gestire il diabete in modo che le differenze dei livelli di glicata nei due bracci di trattamento fossero modeste. La conclusione per la quale è possibile utilizzare il sitagliptin insieme ad altri farmaci per trattare il diabete è di per sé molto rassicurante”.

Holman ha ricordato che lo studio è stato condotto su 14.671 soggetti in 38 paesi diversi. Tutti i pazienti avevano diabete tipo 2 e malattie cardiovascolari, avevano almeno 50 anni di età e un livello di emoglobina glicata da 6,5 a 8,0% ed erano trattati con farmaci ipoglicemizzanti come metformina, pioglitazone, sulfonilurea o con insulina. Essi sono stati assegnati 1:1 a o sitagliptin o placebo, in aggiunta al trattamento abituale.

Sono stati esclusi soggetti che avessero assunto un inibitore della DPP-4, un GLP-1 o un tiazolidinedione diverso dal pioglitazone nei 3 mesi antecedenti all’arruolamento. Anche i soggetti con una storia di due o più episodi di ipoglicemia grave nel corso degli ultimi 12 mesi sono stati esclusi, come lo sono stati quelli che avevano un tasso di filtrazione glomerulare inferiore a 30 ml/min/1,73 m2 al basale.

I pazienti che hanno avuto due o più episodi di ipoglicemia grave durante lo studio hanno sospeso il sitagliptin. L’endpoint primario è stato definito come il primo evento confermato di morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale, ictus non fatale o ospedalizzazione per angina instabile.

L’endpoint secondario era lo stesso come il primo con l’eccezione di ospedalizzazione per angina instabile. Altri outcome secondari comprendevano la morte per qualsiasi causa e ospedalizzazione per insufficienza cardiaca. Un comitato indipendente di valutazione ha valutato anche altri risultati di salute come la morte, la pancreatite acuta e l’incidenza di tumori.

I risultati

A 4 mesi, i valori di emoglobina glicata medi erano 0,4 punti percentuali in meno nel gruppo sitagliptin. Ma tale differenza si riduceva nel restante periodo di studio. C’era una differenza complessiva quadratica media dello 0,29% nel gruppo sitagliptin (IC 95% da -0,32 a -0,27).

I pazienti nel gruppo sitagliptin hanno ricevuto meno farmaci ipoglicemizzanti aggiuntivi rispetto a quelli del gruppo placebo (1591 vs. 2046 pazienti; HR 0,72, IC 95% 0,68-0,77; p <0,001). Essi hanno avuto anche meno probabilità di iniziare la terapia a lungo termine con insulina (542 pazienti vs. 744 pazienti; HR 0,70, IC 95% 0,63-0,79; p <0,001).

“Ci sentiamo molto fiduciosi che questo farmaco possa essere utilizzato in modo molto sicuro nei pazienti con malattie cardiovascolari” ha detto il co-autore Eric Peterson, MD, cardiologo del Duke Clinical Research Institute. E ha aggiunto che “non c’è stato nemmeno un accenno che sitagliptin inducesse il rischio di eventi cardiovascolari.”

E ha ricordato che non c’era alcuna differenza nell’analisi secondaria composita cardiovascolare (HR 0,99, IC 95% 0,89-1,11; p <0,001) per la non inferiorità o nell’analisi intention-to-treat (HR 0,99, IC 95% 0,89-1,10; p = 0,84 ) per la superiorità.

La morte per tutte le cause si è verificata in 547 pazienti nel gruppo sitagliptin (7,5%, 2,48 per 100 anni-persona) e in 537 pazienti nel gruppo placebo (7,3%, 2,45 per 100 persone-anno; HR 1,01, IC 95% 0,90-1,14; p = 0,88 per l’analisi intention-to-treat).

Un sottogruppo di ricercatori ha effettuato anche l’analisi dei principali eventi cardiovascolari primari indicati. E non sono state osservate interazioni significative, a parte l’indice di massa corporea.

Ancora: non è stata riscontrata alcuna differenza significativa tra il gruppo sitagliptin e il gruppo placebo quando si trattava l’incidenza complessiva di infezioni, cancro, insufficienza renale o ipoglicemia grave. Eventi acuti quali la pancreatite sono risultati rari in entrambi i gruppi, ma ce ne sono stati più nel gruppo sitagliptin (23 vs. 12 nel gruppo placebo; p = 0,07 nell’analisi intention-to-treat e p = 0,12 nell’analisi per protocollo). D’altra parte, c’erano più cancri pancreatici nel gruppo placebo che nel gruppo sitagliptin (9 vs. 14 eventi; p = 0,32 nell’analisi intention-to-treat e p = 0,85 nell’analisi per protocollo).

Robert Eckel, MD, della University of Colorado Denver (USA), durante la discussione ha detto che i risultati sono abbastanza decisivi per essere sicuri nel prescrivere il sitagliptin ai pazienti. Ma ha aggiunto che “ci sono ragioni per cui i medici potrebbero non prescrivere inibitori della DPP-4 per i loro pazienti”. “Quando prendiamo una decisione clinica su come trattare i nostri pazienti, cominciamo a individuare gli obiettivi del trattamento” ha detto. “Essi includono la durata del diabete, le comorbilità, altri fattori di rischio, la tolleranza al farmaco e il costo. Quest’ultimo fattore è particolarmente importante quando si tratta degli inibitori della DPP-4, che sono costosi”.

Goldfine, nelle conclusioni, ha sottolineato che nel corso dei prossimi mesi i ricercatori approfondiranno ulteriormente l’analisi dei dati per cercare altre differenze in sottogruppi specifici: “Saranno analizzati i dati per determinare se vi sono sottogruppi che hanno risposto in modo diverso, più o meno favorevole, al farmaco. Anche se è già stata svolta una prima valutazione e tutti i sottogruppi sembrano dare risposte simili”.

I limiti dello studio includono un tempo relativamente breve di follow-up, i soggetti con insufficienza renale grave sono stati esclusi e c’erano potenziali errori dovuti agli effetti confondenti sui risultati cardiovascolari, come le piccole differenze nei livelli di emoglobina tra i gruppi e il maggior uso di farmaci ipoglicemizzanti nel gruppo placebo.

Conflitto di interessi: Lo studio è stato supportato da Merck Sharp and Dohme. Holman ha dichiarato rapport con Merck, AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Bayer, Amgen, Intarcia, Novartis, Novo Nordisk, Owen Green Mumford, GlaxoSmithKline, Janssen eTakeda. I colelghi ricercatori hanno dichiarto rapport con numerse società farmaceutiche e non, fra le quali: Merck, Eli Lilly, Hoffmann-La Roche, Dance Biopharm, Medtronic Minimed, Tolerex, Osiris, Halozyme, Pfizer, Johnson and Johnson, Andromeda, Boehringer Ingelheim, GlaxoSmithKline, Astellas, MacroGenics, Intarcia Therapeutics, Lexicon, Liposcience, GI Dynamics, Amylin, Orexigen Elcylex, Novo Nordisk, Metavention, Transtech Pharma, AstraZeneca, Takeda, Quest, American Diabetes Association, Bristol-Myers Squibb Together on Diabetes Foundation e National Diabetes Education Program. Eckel ha dichiarato l’assenza di potenziali conflitti di interessi. Goldfine ha ricevuto grant per la ricerca da Amneal Pharmaceuticals, LifeScan, Nestle e Novo Nordisk.
Fonti:
Green J, et al. Effect of sitagliptin on cardiovascular outcomes in type 2 diabetes. N Engl J Med 2015; DOI: 10.1056/NEJMoa1501352.
TECOS website
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Hanno valore i trial cardiovascolari nel diabete? Qualcuno dice di no

Dopo che i due grandi studi clinici cardiovascolari di sicurezza per gli antidiabetici (ELIXA e TECOS) hanno scoperto che i rispettivi farmaci non aumentavano ma neppure diminuivano il rischio cardiovascolare, sono sorti dei dubbi sull’utilità di studi post-marketing tanto costosi.

All’ADA 2015 diversi ricercatori hanno detto che proprio quegli studi sono stati costosi e non abbastanza lunghi per valutare outcome di lungo termine, il tutto per farmaci che spesso hanno costi proibitivi.

Il TECOS, sul sitagliptin, iniziato più di 5 anni fa, ha concluso che l’antidiabetico non ha aumentato né diminuito il rischio di un evento cardiovascolare. Ulteriori analisi hanno rivelato poche differenze tra i gruppi di trattamento e il gruppo placebo. I risultati sono stati simili in ELIXA, lo studio su lixisenatide, che non è riuscito a dimostrare la superiorità su altri trattamenti nella prevenzione degli eventi cardiovascolari.

Entrambi gli studi sono stati disegnati tenendo conto delle nuove indicazioni dalla Food and Drug Adiministration (FDA) dopo che il rosiglitazone aveva palesato gravi effetti collaterali, sollevando dubbi sulla sicurezza cardiovascolare di tutte le nuove classi degli antidiabetici. Uno dei primi studi condotti sulla scia del requisito della FDA è stato su un altro inibitore della DPP-4, il saxagliptin; e quello studio aveva rilevato un rischio per l’insufficienza cardiaca.

“Da un punto di vista normativo, come siamo arrivati a questo punto?” si è chiesta Allison Goldfine, MD, del Joslin Diabetes Center di Boston (USA). “Dal 1995 al 2008, il controllo glicemico è stato il principale outcome degli studi, che di solito duravano 6 mesi. Le malattie cardiovascolari e malattie renali erano spesso criteri di esclusione in tali studi. E se erano disponibili dati cardiovascolari a lungo termine, non erano controllati”.

E ha continuato: “Così siamo entrati in una foresta intricatissima e le prove disponibili non consentono mai ai medici di comprendere se i farmaci sono sicuri per i loro pazienti a più alto rischio. Molti di questi pazienti con diabete hanno un rischio di malattie cardiovascolari da due a quattro volte superiore”.

Ma sulla scia dei risultati dei nuovi studi, Goldfine ha ribadito che è il momento di fare un passo indietro e porci delle domande: “I molteplici studi in corso sono davvero in grado di fornire risposte ai più importanti quesiti clinici? Questo è l’argomento di cui abbiamo bisogno di discutere per informare come meglio procedere nei processi di regolamentazione e di che cosa abbiamo bisogno per garantire la sicurezza dei nostri pazienti”.

Trial costosi, farmaci costosi

“Il senno di poi è una cosa meravigliosa” ha detto Rury Holman, MD, ChB, dell’Università di Oxford (UK), investigatore dello studio TECOS, quando gli è stato chiesto se i nuovi studi meritavano la spesa. “Penso che sia stato opportuno fissare delle garanzie” ha aggiunto Holman. “Ora sappiamo che non c’è differenza, quindi è facile dire che avremmo potuto fare qualcosa di diverso”. Ma ha precisato che il denaro speso oggi negli studi dovrebbe consentire agli stessi di essere prolungati nel tempo e di coinvolgere più farmaci in ogni studio per ottenere altri dati importanti comparativi.

Robert Eckel, MD, della University of Colorado School of Medicine (USA), ha detto di aver fatto parte di un gruppo di lavoro della FDA che ha discusso appunto della necessità di tali studi, e ha ricordato che proprio dopo le preoccupazioni sul rosiglitazone sono state investite molte risorse. “Penso che dobbiamo comportarci diversamente” ha detto. “Non dobbiamo aumentare il costo dei farmaci per poter fare studi di sicurezza quando, in realtà, sarebbe sufficiente la valutazione in aperto degli eventi, che di per sé può essere un campanello di allarme per ciò che può essere preoccupante”.

Ci sono domande non solo sui i costi degli studi, ma anche dei farmaci stessi. Gli inibitori dei DPP-4 sono “estremamente costosi”, ha osservato Silvio E. Inzucchi, MD, della Yale School of Medicine (USA). “Possono costare 8 dollari a pillola ed essere un farmaco di terza linea”. E ha aggiunto che, giusto per fare un esempio, il costo di lixisenatide per prevenire gli eventi è “infinito” e che è “difficile capire perché il denaro dovrebbe essere speso per testare una classe di farmaci con prestazioni simili a quelle di altri con minor prezzo”.

Su analoga posizione è stato Joel Zonszein, MD, dell’Albert Einstein College of Medicine di New York (USA), il quale ha detto che “il denaro che è stato speso per lo studio poteva essere speso nella prevenzione del diabete”, o per lo meno per i farmaci presi precocemente nel corso della malattia. “Milioni di dollari possono essere investiti per trattare il diabete nelle prime fasi della malattia e per prevenire la malattia, invece di avere questi studi sulla sicurezza cardiovascolare che sono terribilmente costosi e non hanno dato risultati significativi”.

Holman ha infine ricordato che gli studi generalmente fanno quello per cui sono stati disegnati: “ TECOS ed ELIXA hanno dimostrato che non vi è stato alcun aumento del rischio cardiovascolare rispetto al placebo. Certo, poi dobbiamo aspettare le prove di un lungo follow-up per essere in grado di dissipare tutte le nostre possibili preoccupazioni”. E ha concluso: “Le persone con diabete tipo 2 il diabete ce l’hanno per tutta la vita e gli studi di durata di 1 e 2 anni sono un po’ difficili da interpretare: ovvio che se fossimo in grado di continuare tali studi di sicurezza più a lungo potremmo avere risultati diversi. Ma chi lo può dire? E’ possibile che in futuro si vedano i reali benefici. O, forse, nuovi rischi…”.


L’aggiunta di glucagone al pancreas artificiale può ridurre l’ipoglicemia

Un’analisi combinata di due piccoli studi ambulatoriali presentata all’ADA 2015 ha suggerito che l’utilizzo di glucagone in microinfusore integrato con monitoraggio continuo del glucosio potrebbe ridurre l’ipoglicemia notturna nel diabete tipo 1.

Ahmad Haidar, PhD, della McGill University di Montreal (Canada), e colleghi hanno segnalato che l’uso notturno del sistema dual-ormone è stato associato a un minor tempo di permanenza nella fascia di glicemia sotto i 72 mg/dl, 1,0 vs. 3,1% con il sistema single-ormone e 5,1% con la terapia con microinfusore convenzionale. La differenza è stata quasi interamente contabilizzata durante la prima metà della notte, il momento in cui è stato somministrato glucagone, mentre la somministrazione di insulina era altrimenti simile tra i due sistemi di pancreas artificiale.

Lo dicono i risultati di due studi clinici in crossover, in aperto, randomizzati, uno con 21 adulti e 7 bambini in un ambiente domestico con microinfusori Medtronic e sensori per 2 notti per un intervento e l’altro con 33 bambini in un ambiente di campo-scuola con sensori DexCom e microinfusori Roche per 3 notti a intervento.

I due sistemi di pancreas artificiale hanno dato livelli di glicemia complessivamente simili, con in media 122 mg/dl vs. i 140 mg/dl con la terapia pompa convenzionale.

Il tempo trascorso durante la notte nella fascia di iperglicemia oltre 144 mg/dl è stata del 21% con il sistema dual, del 23% con il sistema single-ormone, e dell 48% con la terapia con microinfusore convenzionale.

Nel secondo studio è stato utilizzato un sistema di monitoraggio con monitor della glicemia che la rilevava ogni 10 minuti; i dati sono stati poi inseriti manualmente dai ricercatori in un tablet PC per determinare un algoritmo di dosaggio per il pancreas artificiale che è stato poi utilizzato per somministrare manualmente i farmaci tramite telecomando.

I ricercatori hanno suggerito che i loro risultati giustificano studi più lunghi con l’obiettivo di un sistema completamente integrato.

Per contro, Jessica R. Castle, MD, della Oregon Health & Science University di Portland (USA), in un editoriale di commento ai risultati presentati pubblicato su Lancet Diabetes & Endocrinology ha ammonito che un tale sistema sarebbe decisamente complesso: “Sono necessari molti progressi per realizzare un sistema automatizzato a due ormoni commercialmente redditizio, compresa l’approvazione di una formulazione di glucagone stabile, un microinfusore a doppia camera per la conservazione e somministrazione di insulina e glucagone, e la preparazione di un set di infusione che consenta la somministrazione combinata attraverso un singolo sito di iniezione”.

E ha poi scritto: “Nonostante questi ostacoli, è necessario tentare uno sviluppo dei sistemi dual. Fino a quando non si disporrà di un’insulina veramente ultrarapida, un sistema unico con tale insulina sarà ottimale, soprattutto in situazioni in cui le necessità di insulina possono calare rapidamente, come ad esempio durante l’esercizio fisico”.

Conflitto di interessi: Lo studio è statoo supportato dalla Canadian Diabetes Association and Fondation J.A. De Sève con un contributo di Medtronic. Haidar ha dichiarato relazioni con la Diabetic Children’s Foundation e la SNELL Medical Communication in relazione all aproprietà intellettuale del pancreas artificiale. Castle ha dichirato interesis con la Pacific Diabetes Technologies.
Fonti:
Haidar A, et al. Outpatient overnight glucose control with dual-hormone artificial pancreas, single-hormone artificial pancreas, or conventional insulin pump therapy in children and adolescents with type 1 diabetes: an open-label, randomised controlled trial. Lancet Diabetes Endocrinol online, June 9, 2015; DOI: 10.1016/S2213-8587(15)00141-2.
Castle JR. Is glucagon needed in type 1 diabetes? Lancet Diabetes Endocrinol 2015; DOI: 10.1016/S2213-8587(15)00210-7.
Haidar A, et al. Outpatient overnight glucose control with dual- and single-hormone artificial pancreas systems in type 1 diabetes: randomized controlled trials. ADA 2015; Abstract 383-OR.


I bambini di madre obesa sono a rischio di obesità?

All’ADA 2015 è stato presentato uno studio che potrebbe far luce sul motivo per cui i figli di genitori obesi sono ad alto rischio di obesità e disturbi metabolici.

I ricercatori, guidati da Kristen Boyle, PhD, della University of Colorado School of Medicine (USA), hanno esaminato cellule staminali fetali e hanno scoperto che, nell’utero, una madre obesa può “programmare” le cellule di un bambino ad accumulare grasso in più o sviluppare diversi modelli metabolici che potrebbero poi portare all’insulino-resistenza.

“Era già noto che i bambini di madri che avevano il diabete durante la gravidanza avrebbero potuto avere problemi di accrescimento o metabolici, ma più recentemente tali risultati sono stati estesi alle madri obese”, ha detto Phil Zeitler, MD, PhD, sempre della University of Colorado School of Medicine, nella conferenza stampa che ha anticipato la presentazione dei risultati. “I quali indicano che l’ambiente uterino può programmare i tessuti del feto ad accumulare grasso”.

Boyle e colleghi hanno prelevato cellule staminali mesenchimali dal cordone ombelicale di neonati normopeso e madri obese e le hanno coltivate insieme a cellule adipose e muscolari in laboratorio. Complessivamente, sono state coltivate 12 cellule staminali prelevate dal cordone ombelicale di bambini di madri obese e 12 di madri normopeso; tutte le cellule avevano lo stesso contenuto adiposo al basale. Prima di essere coltivate e differenziate, quelle prelevate dal cordone ombelicale di bambini di madri obese avevano espresso il doppio di CD13, che è stato associato a un aumento dell’adipogenesi (p <0,05). Le cellule sono state poi differenziate ad adipociti o miociti per 21 giorni e sono stati misurati i marcatori proteici per l’adipogenesi e la miogenesi.

I ricercatori hanno scoperto che quando le cellule sono state differenziate ad adipociti, le cellule provenienti dal cordone ombelicale di bambini di madri obese hanno espresso il 50% in più dei recettori attivanti la proliferazione dei perossisomi (PPAR) rispetto a quelle da madri normopeso (p <0,05). E quando sono stati differenziati i miociti non c’erano differenze nel contenuto della catena pesante della miosina (MHC), ma le cellule dai bambini di madri obese avevano un contenuto di lipidi superiore (p <0,05).

I ricercatori hanno detto: “Inoltre, il contenuto di RNA messaggero del trasportatore del glucosio (GLUT) 4 era inferiore del 60% nelle cellule di bambini da madri obese. Il maggior contenuto lipidico e il ridotto GLUT4 in quelle cellule indicano un “rischio programmato per insulino-resistenza che potrebbe essere sotto controllo epigenetico”.

“Le cellule di bambini di mamme obese hanno un maggiore accumulo di grasso e un più alto contenuto di marcatori di cellule lipidiche, il che indicherebbe che hanno una maggiore propensione a diventare cellule adipose” ha precisato Boyle. “Inoltre, abbiamo notato che l’accumulo di grasso in tali cellule corrispondeva alla massa grassa dei bambini quando sono nati. Le cellule che accumulavano più grasso in laboratorio provenivano da i bambini che avevano una massa grassa maggiore al momento della nascita”.

Ma, ha avvertito Boyle, i risultati sono molto preliminari, perché non è chiaro se le differenze viste nelle cellule in condizioni di laboratorio corrispondano in toto alla fisiologia dei bambini dopo la nascita. “E’ noto da 10-12 anni che il diabete ha conseguenze sulla prole, e poi abbiamo cominciato renderci conto che non si trattava solo di diabete, ma anche di obesità” ha Zeitler. “Solo ora si cominciano ad esaminare questi meccanismi, per cui siamo solo all’inizio”.

Boyle ha concluso che continuerà a seguire la crescita dei bambini studiati per vedere se si riusciranno a trovare altri marker nelle cellule staminali che correlino con i risultati: “Intendiamo misurare altri aspetti metabolici nelle cellule, ad esempio come avviene la segnalazione dell’insulina e come tali cellule rispondono ai trattamenti”.

Conflitto di interessi: I ricercatori hanno dichiarato l’assenza di potenziali conflitti di interessi.
Fonte: Boyle, K. et al. Human Mesenchymal Stem Cells from Offspring of Obese Mothers Have Increased Adipogenesis and Evidence for Insulin Resistance: The Healthy Start Study. ADA 2015; 381-OR.


Il glucagone nasale in polvere è efficace nei bambini

Il glucagone sotto forma di polvere nasale è stato efficace nel gestire l’ipoglicemia nei bambini e negli adolescenti con diabete di tipo 1. Questi i risultati di uno studio presentato all’ADA 2015.

Il glucagone nasale in polvere (PIL) è stato fornito in dispositivo monouso in grado di spruzzare il glucagone nel naso del paziente così da farlo assorbire dalle mucose. Nella coorte dello studio, composta di 48 pazienti con età 4-17 anni, il PNL ha avuto un’efficacia simile al glucagone iniettato.

“Mentre c’erano già stati studi di valutazione dell’uso di glucagone intranasale nella popolazione adulta, questo è il primo esame nella popolazione pediatrica,” ha detto Jennifer Sherr, MD, PhD, della Yale School of Medicine (USA).

Un dato ulteriore dello studio ha sottolineato che una singola dose di 3 mg è stata efficace per tutta la popolazione pediatrica, indipendentemente dal peso o dall’età.

“Sappiamo tutti che il glucagone iniettabile è il trattamento di scelta per l’ipoglicemia grave ed è l’unico attualmente approvato per l’uso in ambiente ambulatoriale, che tuttavia richiede più passaggi prima della somministrazione” ha detto Sherr. “E per i nostri bambini in età scolare può essere richiesto l’intervento non solo dei genitori e familiari, ma anche di altre persone”.

Lo studio è stato condotto in 7 cliniche T1D Exchange. Diciotto pazienti da 4 a 7 anni, 18 da 8 a 11 anni e 12 da 12 a 17 anni hanno partecipato allo studio. Il primo gruppo aveva un diabete con una durata media di 2,9 anni, il secondo per 4,9 anni e il terzo 6,6 anni.

Le due coorti più giovani sono state randomizzate a una somministrazione intramuscolare (usando un ago) o a due amministrazioni intranasali. Quelli nella coorte di maggiore età sono stati randomizzati a 1 mg di glucagone per via intramuscolare e 3 mg di glucagone intranasale che è stato fornito dall’azienda che produce il dispositivo PNL.

Utilizzando l’insulina, la glicemia dei pazienti è stata abbassata a <80 mg/dl e sono trascorsi 5 minuti prima della somministrazione del glucagone. Un aumento di glucosio ≥25 mg/dl entro 20 minuti dalla somministrazione è stata osservata in tutti i pazienti che avevano assunto il glucagone intranasale, tranne in uno; quel paziente si era soffiato il naso immediatamente dopo la somministrazione del glucagone.

Effetti collaterali sono stati rilevati con entrambi i metodi, secondo Sherr, ma erano transitori. Nausea si è verificata in due terzi dei pazienti intramuscolari e nel 42% dei pazienti intranasali (p = 0,06).

Sherr ha infine ricordato che uno studio del PNL nella popolazione adulta ha dimostrato che con il glucagone intranasale ci sono voluti solo pochi minuti in più per avere un effetto analogo a quello del glucagone per via intramuscolare, ma ha aggiunto che “nei bambini non c’è stato tale ritardo”.

Conflitto di interessi: Sherr ha dichiarato l’assenza di potenziali conflitti di interessi.
Fonte: Sherr J, et al. Glucagon nasal powder: An effective alternative to intramuscular glucagon in youth with type 1 diabetes. ADA 2015.