Le 76th Scientific Sessions dell’ADA 2016
Le relazioni dell’11 giugno 2016
I report della giornata:
Quasi un secolo dopo la sua scoperta, l’uso della metformina va oltre la cura del diabete
L’ipoglicemia rimane un rischio significativo di eventi gravi
Nuove direzioni di ricerca per la retinopatia diabetica
Nove fonti di cellule per il trapianto delle cellule beta
Nuovi algoritmi per il dosaggio dell’insulina, oltre il conteggio dei carboidrati
La ricerca mostra che il diabete condivide meccanismi con il cancro e con l’invecchiamento
La cardiologia per i diabetologi
I ricercatori e i misteri della matrice extracellulare
Quasi un secolo dopo la sua scoperta, l’uso della metformina va oltre la cura del diabete
11 giugno 2016 – Un recente cambiamento delle indicazioni apre la strada all’uso di metformina in pazienti con lieve o moderata malattia renale. Metformina che, come è noto, è il farmaco orale più prescritto per il diabete tipo 2, ma può anche migliorare gli esiti cardiovascolari e ridurre il rischio di cancro.
All’ADA 2016, il Dott. Kasia J. Lipska, MD, MHS, della Yale University School of Medicine (USA), e altri tre esperti hanno discusso il crescente uso della metformina la sessione Metformin Revisited 2016 – New Insights, New Directions.
Le nuove indicazioni sull’uso della metformina ne consentono l’utilizzo in pazienti con un filtrato glomerulare (eGFR) ≥30, mentre sino a oggi il suo impiego era controindicato nei pazienti con qualunque grado di malattia renale valutata con la creatinina.
Il Dott. Lipska ha detto: “La metformina ha un ruolo molto importante tra i farmaci disponibili. Personalmente, consiglio sempre di iniziare con la metformina, a meno che non vi siano controindicazioni. E l’evidenza del suo impiego è grande anche rispetto ai nuovi farmaci”.
Prime preoccupazioni
“Come sappiamo, la metformina è stata sintetizzata nel 1920 e proviene da guanidine naturali vegetali prodotte dal lillà francese e altre piante” ha detto nel suo intervento Clifford J. Bailey, PhD, FRCP Edin, FRCPath, della Aston University di Birmingham, Regno Unito, tracciando un breve excursus storico della molecola. “La metformina e altri derivati della guanidina sono però stati presto messi in ombra dall’insulina e quindi presto dimenticati”.
La molecola è però stata riscoperta nel 1950, ha ricordato Bailey, quando è stata chiamata flumamina e veniva usata per curare l’influenza. La metformina è quindi stata introdotta come trattamento per il diabete in Europa, ma ancora una volta è stata rapidamente oscurata dalla fenformina, una guanidina più potente, scoperta negli Stati Uniti e approvata nel 1959.
La fenformina viene però metabolizzata nel fegato: circa il 9% della popolazione ha una variante di un enzima dell’idrossilasi che si traduce in un rallentamento nel metabolismo della fenformina con conseguente accumulo, ha spiegato Bailey. Il risultato poteva essere la acidosi lattica potenzialmente fatale. Conseguenza: la fenformina è stata ritirata nel 1978.
In Europa si tornò alla metformina ma il negli Stati Uniti fu approvata dalla Food and Drug Administration solo nel 1994, ma con controindicazioni nei pazienti con malattia renale.
“La metformina è così diventata l’agente più utilizzato per il diabete tipo 2 in tutto il mondo” ha detto Bailey. “E viene escreta immodificata e non viene metabolizzata: in tal modo non si ebbero i problemi che c’erano stati con la fenformina. La metformina ha il vantaggio di ridurre la produzione di glucosio nel fegato, aumentando l’utilizzo del glucosio periferico, riducendo i rischi cardiovascolari, e presenta anche una pluralità di altri vantaggi potenziali.
Prevenzione e trattamento del cancro
Michael Pollak, MD, della McGill University di Montreal, Canada, ha detto che l’uso di metformina in questo momento è studiato molto a fondo. E ha ribadito che il rinnovato interesse per la metformina è iniziato quando gli epidemiologi britannici hanno notato “un’associazione tra metformina e cancro”. Infatti, “i pazienti diabetici trattati con metformina avevano tassi inaspettatamente bassi di incidenza e morte per cancro rispetto ai pazienti diabetici trattati con altri farmaci”.
Altri studi di popolazione hanno prodotto risultati simili, ha ricordato Pollak. Gli studi sugli animali hanno mostrato un effetto protettivo contro il cancro, che ha prodotto oltre cento studi clinici. Ma il riesame dei dati ha prodotto più domande che risposte.
I critici ha detto Pollak, hanno messo in discussione i metodi statistici utilizzati negli studi di popolazione, il che suggerisce che gli studi non sono riusciti a spiegare la complessità dell’inizio, la modifica e la sospensione del trattamento nel diabete. Altri hanno notato che il dosaggio della metformina nelle indagini sui topi era di gran lunga superiore a quella dei dosaggi abituali usati nell’uomo. Anche se l’effetto del trattamento è reale, hanno detto tali critici, i risultati nei topi sono clinicamente irrilevanti perché dipendevano da dosi che non possono essere raggiunte negli esseri umani.
“I risultati dei primi due studi clinici hanno smorzato ulteriormente l’entusiasmo” ha ribadito Pollak. Entrambi erano sul cancro al pancreas ed entrambi sono risultati negativi.
“La metformina è un farmaco molto utile nel diabete e ha molte proprietà clinicamente utili” ha sottolineato Pollak. “La metformina modifica il metabolismo energetico in modo tale che si possano prevedere effetti antineoplastici. L’ultimo round della controversia sui topi riporta che in essi vi sono dei processi metabolici tali che il livello ematico di farmaco ottenuto è paragonabile ai livelli ematici che possiamo raggiungere nei pazienti con diabete”.
Pollak ha riconosciuto che l’evidenza clinica non è chiara. Le uniche due prove presentate fino a oggi non hanno mostrato alcun beneficio da parte della metformina sul cancro del pancreas, ma numerosi altri studi sono attualmente in corso. E ha concluso: “Non è ancora possibile dire l’ultima parola sulla metformina e il cancro”.
Malattia cardiovascolare
La prova di benefici cardiovascolari di uso della metformina è emerso dall’UKPDS. L’UKPDS, che si è svolto dalla fine degli anni ‘70 alla fine degli anni ’90 del scolo scorso, ha mostrato effetti cardioprotettivi sorprendentemente forti da parte della metformina.
“I numeri sono stati impressionanti, una riduzione del rischio del 39% per l’infarto del miocardio e una riduzione del 36% del rischio di mortalità per qualsiasi causa”, ha detto Rury R. Holman, FRCP, FMedSci, della Oxford University, Regno Unito. “Ma non c’è una chiara spiegazione dell’effetto. E in quello studio, per gli standard attuali, era stato arruolato un piccolo numero di persone – solo 753”.
Holman ha aggiunto che studi osservazionali successivi, come pure diversi registri, hanno dimostrato benefici simili sui rischi cardiovascolari. I pazienti che assumono metformina in genere vivono più a lungo e hanno meno eventi cardiovascolari. Ma può essere “difficile correlare l’effetto cardiovascolare perché la metformina è in genere la terapia di prima linea e i pazienti, quindi, tendono ad essere mediamente più giovani”.
Concludendo, Holman ha ricordato che un nuovo studio, il Lowering in Non-diabetic hyperglycemia Trial (GLINT),arruolerà circa 12.000 pazienti nel tentativo di fornire dati migliori e risposte più certe sugli effetti cardiovascolari della metformina e le eventuali correlazioni col cancro. Lo studio di fattibilità GLINT avrà durata breve e gli investigatori sono alla ricerca di un finanziamento.
L’ipoglicemia rimane un rischio significativo di eventi gravi
All’ADA 2016 è stato ricordato che l’ipoglicemia può essere letale negli adulti, incidere sulla salute e sullo sviluppo neurologico nei bambini, e che può manifestarsi anche subito dopo un pasto in presenza di gastroparesi. Il tema è stato dibattuto nella sessione Hypoglycemia in Special Situations in Diabetes.
Stephen N. Davis, MD, della University Maryland School of Medicine (USA) ha dichiarato: “L’ipoglicemia nei bambini, durante il giorno o soprattutto di notte, è un evento particolarmente preoccupante. L’ipoglicemia negli adulti è associata a un aumento di gravi eventi cardiovascolari, mortalità cardiovascolare, e un rischio di mortalità per qualsiasi causa. Ed è un rischio elevato e una minaccia per le persone che praticano l’insulina”.
Davis ha spiegato che l’ipoglicemia è un rischio evidente in individui con scarso controllo glicemico. E che può essere un rischio ancora maggiore “negli individui con controllo moderato che stanno cercando di ridurre le loro escursioni glicemiche e portare la loro glicemia sotto stretto controllo”.
Ancora Davis ha ricordato che un problema importante può peraltro essere il rapporto tra esercizio fisico e ipoglicemia. L’esercizio fisico è la terapia di prima linea per il diabete tipo 2 e svolge un ruolo chiave nel trattamento per il diabete tipo 1, ma può anche innescare ipoglicemie prolungate. Ma l’esercizio fisico aumenta la produzione endogena di glucosio, principalmente dal fegato, e facilita il passaggio del glucosio dalla circolazione ai tessuti muscolari, dove viene convertito in energia. L’esercizio rende anche il tessuto muscolare più sensibile all’insulina, un effetto che può durare due o tre giorni.
E’ poi noto da tempo che i pazienti che praticano insulina hanno bisogno di consumare carboidrati supplementari con l’esercizio fisico per ripristinare le riserve esaurite e ridurre la quantità di insulina esogena per scongiurare il rischio di ipoglicemia. Meno nota è invece la possibilità da parte di un’ipoglicemia di qualsiasi grado di predisporre un individuo a un altro episodio di ipoglicemia nel corso dei giorni successivi.
“Se si ha un’ipoglicemia oggi la controregolazione ormonale, come adrenalina e glucagone, può essere ridotta fino al 50% nel corso di un episodio successivo di ipoglicemia” ha spiegato Davis. “L’ipoglicemia può inoltre generare ipoglicemia. Purtroppo, c’è anche un reciproco feed-forward, in modo tale che se si ha un’ipoglicemia oggi, questa riduce la capacità di proteggere la glicemia durante l’esercizio fisico successivo. Allo stesso modo, l’esercizio fisico di oggi riduce la capacità di difendersi domani dall’ipoglicemia o il giorno successivo”.
E ha continuato: “Risulta che l’ipoglicemia down-regola le risposte controregolatorie omeostatiche durante l’esercizio fisico. Questa down-regolazione non solo riduce la secrezione di ormoni, come il glucagone e adrenalina, ma riduce di conseguenza la produzione di glucosio da parte del fegato.”
“La glicemia è mantenuta costante durante l’esercizio fisico dalla quantità di glucosio che entra nel sistema. Questo può provenire dalla gluconeogenesi epatica e / o da carboidrati esogeni. Quando il glucosio non riesce a soddisfare le esigenze dei muscoli, si manifesta l’ipoglicemia”.
La regolazione della glicemia può essere ancora più critica nei bambini. Sia l’iperglicemia sia l’ipoglicemia possono avere effetti negativi sullo sviluppo del cervello, ha osservato William V. Tamborlane, MD, della Yale School of Medicine (USA). “L’iperglicemia può essere una minaccia per lo sviluppo neurale, ma anche gli eventi ipoglicemici sono importanti” ha ricordato.
E ha spiegato che un problema particolare è l’ipoglicemia di notte causata dalla mancata corrispondenza tra l’attività di insulina e pasto serale. L’esercizio fisico, un’attività che è notoriamente discontinua sia nei bambini sia negli adolescenti, può esacerbare la propensione per l’ipoglicemia notturna.
Ha quindi ricordato che è stato condotto uno studio su bambini utilizzando esercizi cronometrati su tapis roulant per esaminare gli effetti dell’attività fisica sull’ipoglicemia notturna. I partecipanti sono stati controllati per l’ipoglicemia la notte seguente l’esercizio praticato al pomeriggio sul tapis roulant e in una giornata simile senza esercizio fisico.
“C’è stato un discreto numero di ipoglicemie, anche nella notte di controllo, circa una su quattro, mentre dormivano” ha detto Tamborlane. “Ma nelle notti seguenti l’esercizio, le ipoglicemie si sono verificate in una su due. Il cinquanta per cento dei bambini è andato in ipoglicemia nella notte dopo l’attività fisica”.
Nuove direzioni di ricerca per la retinopatia diabetica
I progressi nella scienza di base indicano che la retinopatia diabetica è solo una manifestazione di problemi sistemici causati da cambiamenti epigenetici, aprendo nuove vie di ricerca e trattamento.
All’ADA 2016, Renu A. Kowluru, PhD, della Wayne State University Kresge Eye Institute (USA), ha detto che “alti livelli di glicemia possono essere causa di retinopatia diabetica, ma il modo in cui esattamente essi ne sono la causa non si sa”. E ha aggiunto: “Alti livelli di glucosio provocano modificazioni epigenetiche che cambiano il modo in cui i geni agiscono e le proteine da essi codificate. Se saremo in grado di fermare o invertire questi cambiamenti epigenetici, saremo in grado di prevenire o ritardare la retinopatia diabetica e le altre complicazioni del diabete”.
Kowluru, che ha condotto la sessione New Advances in Diabetic Retinopathy – What Wikipedia Can’t Tell You,ha discusso, con altri colleghi, vari approcci alla terapia della retinopatia diabetica, i progressi nella diagnostica per immagini della retina nei soggetti con diabete e la terapia con cellule staminali per il trattamento di malattie oculari legate al diabete.
Cause e trattamenti
Proprio Kowluru ha spiegato che il diabete non può cambiare le strutture genetiche di base responsabili del mantenimento del microcircolo negli occhi. La presenza di alte concentrazioni di glucosio del diabete potrebbe trasformare i geni o disattivarli modificando il DNA. I geni che dovrebbero essere attivi verrebbero inibiti mentre altri geni che normalmente sono inattivi verrebbero attivati.
E ha continuato: “Nella retinopatia diabetica il problema è l’iperglicemia, ma si sa che lo stile di vita, droghe, alcool, fumo di tabacco, l’inquinamento ambientale, e altri fattori esterni hanno anche effetti epigenetici simili.”
La retinopatia è causata da modifiche ai vasi sanguigni che irrorano la retina. Man mano che i vasi sanguigni della retina si deteriorano, porzioni della retina diventano ischemiche e ipossiche. La risposta fisiologica è quella di fare crescere nuovi vasi per sostituire l’afflusso di sangue disfunzionale.
In realtà, nella retinopatia diabetica, la neovascolarizzazione nella parte posteriore dell’occhio è disfunzionale. I nuovi vasi sono tortuosi ed intrecciati ostacolando il flusso di sangue. I nuovi vasi lasciano passare le cellule del sangue e siero, il che altera la visione e peggiora l’ischemia, ha spiegato Kowluru.
Il trattamento convenzionale per la retinopatia diabetica è la fotocoagulazione laser, ma il miglioramento è temporaneo. Il trattamento laser rimuove i vasi indesiderati, ma può anche sopprimere le cellule della retina. E i cambiamenti epigenetici innescati da alti livelli di glucosio assicurano la ricrescita dei vasi più disfunzionali.
“Quello che dobbiamo fare è bloccare quei cambiamenti epigenetici” ha detto Kowluru. “Ci sono farmaci già in uso per il cancro che possono correggere alcuni dei cambiamenti che vediamo in epigenetica. Tali farmaci non sono specifici per il diabete o per la retinopatia diabetica, ma potrebbero essere un inizio per bloccare almeno alcuni cambiamenti epigenetici che interessano l’occhio. E ora che conosciamo alcuni dei meccanismi epigenetici coinvolti, possiamo cercare altri farmaci che potrebbero essere più specifici e più efficaci”.
La terapia con cellule staminali potrebbe essere un’opzione
Durante la sessione è stato ricordato che la retinopatia diabetica progredisce lentamente nel corso di decenni. L’aggiunta di precursori sani di cellule specifiche dell’occhio nelle prime fasi del decorso della malattia potrebbe ripristinare le alterazioni iniziali della retinopatia diabetica.
“In modelli animali, i ricercatori sono stati in grado di ‘resuscitare’ vasi sanguigni della retina morti utilizzando cellule progenitrici” ha detto Alexander V. Ljubimov, PhD, del Cedars-Sinai Medical Center (USA). “Le cellule precursori migrate alle aree della retina che non avevano afflusso di sangue, perché i vasi erano morti, hanno cominciato a rigenerare i vasi. Alcuni dei vasi ripristinati erano adeguati per condurre sangue, ma non tutti. La sfida principale è quello di aumentare l’effetto”.
Ci sono diversi approcci per la terapia con cellule staminali, ha continuato Ljubimov. Una possibilità è quella di usare cellule staminali da sangue del cordone ombelicale provenienti da banche o qualche altro donatore. “Ma queste cellule staminali donate generano risposte immunitarie, il che significa che i pazienti hanno bisogno di farmaci immunosoppressori”.
Un altro approccio è quello di utilizzare le cellule del paziente, che possono essere indotte a diventare cellule staminali pluripotenti. Tali “cellule potrebbero essere potenzialmente normalizzate per rimuovere i cambiamenti epigenetici causati dal diabete, e quindi convertite in cellule progenitrici specifiche che potrebbero essere trapiantate al paziente. Utilizzando le cellule del paziente si eviterebbe la risposta immunitaria”.
In sostanza, “abbiamo risultati promettenti con la normalizzazione di cellule staminali autologhe utilizzando la terapia genica con vettori virali o polimeri nano” ha spiegato Ljubimov. “La formulazione nano penetra il tessuto facilmente, quindi potremmo essere in grado di indirizzare le cellule esistenti e normalizzarsi dove si trovano piuttosto che praticare iniezioni di cellule staminali”.
E ha concluso: “Non abbiamo molti studi clinici in questo campo, ma le ricerche si stanno sviluppando rapidamente e non solo per la retinopatia diabetica”.
Nove fonti di cellule per il trapianto delle cellule beta
L’insulina sostitutiva è una terapia di ripiego. E l’insulina esogena può rendere approssimativo il controllo della glicemia in molti pazienti affetti da diabete. Peraltro, anche le migliori insuline esogene sono molto meno efficaci del controllo fornita da cellule beta completamente funzionali. Il problema è trovare le cellule beta che possono essere trapiantate in pazienti le cui cellule beta non funzionano più.
La difficoltà ad aumentare il pool dei potenziali donatori di pancreas, ma anche la possibilità di sviluppare altre fonti di isole e cellule beta, è stato il tema discusso durante l’incontro di aggiornamento Update on Cell Sources for Beta-Cell Replacementnel corso dell’ADA 2016.
La realtà attuale e il futuro prossimo
“Ci sono un certo numero di centri in tutto il mondo che effettuano trapianti di isole umane con risultati incoraggianti” ha detto all’ADA 2016 David K.C. Cooper, MD, PhD, FRCS, dello University of Pittsburgh Medical Center (USA). “Il problema più grande è il numero di donatori. In generale, ad esempio negli Stati Uniti, sono stati effettuati solo un migliaio di trapianti di isole nel corso degli ultimi 10 anni. Il problema dei donatori precluderebbe alla maggior parte dei pazienti con diabete di ricevere un trapianto di isole”.
Chad A. Cowan, PhD, dell’Harvard Stem Cell Institute (USA), ha dichiarato di voler produrre cellule che possono essere trapiantate in qualsiasi paziente senza timore di rigetto o di un attacco autoimmune. “Siamo in grado di manipolare il genoma a volontà con ilclustered regularly interspaced short palindromic repeats e altri strumenti di modifica del genoma” ha detto. “Dunque, perché non creare una cellula donatore universale, l’equivalente del gruppo sangigno ‘zero negativo’, che chiunque potrebbe ricevere, per fare una sostituzione delle cellule beta?”
La modifica del genoma, ha ricordato Cowan, permette la rimozione dei maggiori complessi di istocompatibilità che segnano cellule come auto o non auto. Le cellule che non esprimono antigeni dei leucociti umani (HLA) non provocano la risposta di rigetto acuto delle cellule T. Cowan ha sviluppato le cellule che non provocano rigetto acuto nei topi con sistema immunitario umanizzato. Parimenti, ha detto, è in sperimentazione una modificazione genetica simile per evitare il rigetto a lungo termine.
“Questo concetto di donatore universale è direttamente applicabile alla produzione di cellule beta”, ha ribadito Cowan. “Una cellula donatrice universale apre la porta a qualsiasi terapia a base di cellule. Una cellula donatrice universale è il precursore diretto alla creazione di miliardi di cellule beta per il trattamento personalizzato del diabete”.
E il Dott. Cooper ha ancora ricordato che si stanno usando strumenti genetici simili per umanizzare isole di maiale per il trapianto. L’insulina suina è quasi identica all’insulina umana, ha osservato, ed è stata utilizzata con successo per trattare il diabete prima dell’avvento delle insuline umane ricombinanti. Lo xenotrapianto utilizzando isolotti di maiale è il passo successivo all’impiego di insulina suina.
Il problema è che il tessuto suino normale evoca una risposta di rifiuto anticorpo-mediata importante. Ma alcune, forse tutte, le molecole suine che evocano la risposta immunitaria possono essere rimosse geneticamente. Ed è anche possibile aggiungere proteine umane per ridurre ulteriormente risposta immunitaria.
Le manipolazioni genetiche non hanno prodotto isole di maiale senza antigene fino ad oggi, ha osservato Cooper, ma “i risultati attuali suggeriscono che i farmaci immunosoppressori usati per reni e altri trapianti di organi umani possono essere utilizzati per gestire il rigetto di insule di suino modificati”.
“Ci sono probabilmente 40 differenti manipolazioni genetiche che sono state effettuate in diversi maiali” ha detto Cooper. “La chiave è ottenere tutte le necessarie modifiche genetiche nello stesso maiale. Con risorse economiche sufficienti, potremmo produrre un modello clinico entro un anno o due. Abbiamo già raggiunto normoglicemia in alcune scimmie diabetiche per più di un anno”.
A tal proposito, Cooper ha ricordato che lo xenotrapianto ha visto una riduzione dei finanziamenti negli Stati Uniti. I modelli animali di maggior successo sono venuti dalla Corea, dove la ricerca continua ad essere sostenuta. E anche finanziatori cinesi stanno valutando la ricerca suina.
Cooper ha quindi concluso: “Abbiamo chiaramente dimostrato che se si conducono certe manipolazioni genetiche nel maiale, non solo si proteggono quelle insule dal rigetto iniziale ma è necessaria meno terapia immunosoppressiva per una protezione più a lungo termine”.
Nuovi algoritmi per il dosaggio dell’insulina, oltre il conteggio dei carboidrati
Il conteggio dei carboidrati è stato a lungo la pietra miliare della somministrazione di insulina nel diabete tipo 1. Pur con le difficoltà che comporta, il conteggio dei carboidrati è stato finora l’approccio più pratico per molti pazienti. Più recentemente, tecniche sempre più accurate hanno incluso grassi e proteine nell’algoritmo di dosaggio.
All’ADA 2016 se ne è discusso nella sessione Cutting through the Controversies in Fat, Protein, and Carb Counting in Type 1 Diabetes.
“Il conteggio dei carboidrati non è mai stato convalidato da studi di qualsiasi tipo”, ha detto Garry M. Steil, PhD, della Harvard Medical School (USA) e ricercatore preso il Boston Children’s Hospital. Il quale ha ricordato che elevati contenuti di grassi e proteine in un pasto possono influenzare sia la quantità di insulina necessaria sia il come l’insulina debba essere deve essere somministrata. Ad esempio, per i pazienti che utilizzano il microinfusore la soluzione è di utilizzare un bolo a onda doppia. La difficoltà sta nel calcolare la quantità da erogare immediatamente e come estendere la restante parte per ottenere un controllo ottimale della glicemia.
Una strategia, ha detto Steil, è quella di regolare il bolo a ogni pasto. Ma non ci sono mai due pasti uguali per mix di carboidrati, grassi, proteine e indici glicemici. I ricercatori Boston Children’s Hospitale del Joslin Diabetes Center –ha ricordato – stanno sviluppando un algoritmo per tentare di regolare il bolo per tutte queste variabili-fine. “Al momento, stanno sviluppando un algoritmo che si rivolgerà a pasti specifici” ha precisato.
E ha aggiunto: “I pazienti con diabete tipo 1 spesso mangiano lo stesso pasto giorno dopo giorno. Così stiamo andando a ottimizzare il bolo per questi pasti, alcuni ad alto contenuto di grassi, altri a basso contenuto di grassi, con diverse quantità di proteine e carboidrati. Una volta che avremo ottenuto il modello del bolo ottimale per un numero sufficiente di pasti per coprire proteine, grassi e carboidrati nella dieta del paziente, saremo in grado di estendere l’algoritmo per controllare in modo ottimale ogni pasto”.
L’algoritmo verrà quindi convertito in un’applicazione per smartphone che potrà istruire il paziente a regolare la programmazione del microinfusore per un dato pasto, ha detto Steil. L’obiettivo è di collegare smartphone e microinfusore per controllare il microinfusore direttamente dallo smartphone, eliminando la necessità di un controllo diretto del microinfusore.
Se quello di Steil è stato il punto sulla ricerca negli USA, i ricercatori europei hanno per contro un orientamento leggermente diverso. Essi hanno segnalato da tempo che il conteggio dei carboidrati non è un modo efficace per valutare il dosaggio del bolo per i pasti ad alto contenuto di grassi.
“Quando qualcuno mangia pizza o lasagne o qualche altro cibo con un’elevata quantità di proteine e grassi, ha un aumento della glicemia ritardato di 2 o 3 ore e un elevato fabbisogno di insulina in questo secondo momento” ha detto Olga Kordonouri, MD, del Diabetes Centre for Children and Adolescents Auf Der Bult dell’Hanover Medical School, in Germania. “Alcuni paesi europei, a cominciare dalla Polonia e dalla Germania, hanno elaborato formule empiriche per ovviare al problema. E quando il paziente ha un microinfusore, può usare la possibilità del microinfusore di variare i tempi di erogazione con una diversa tipologia di boli prolungati per i diversi tipi di pasti”.
Alcuni paesi europei hanno adottato il bolo prolungato, mentre altri sono ancora in fase di transizione, ha ricordato Kordonouri. Alcuni insegnano ai pazienti a usare il bolo prolungato fin dall’inizio della formazione all’uso del microinfusore. Altri paesi iniziano invece con il conteggio dei carboidrati come alternativa più facile per i pazienti di nuova diagnosi e introducono istruzioni più complesse al fine di adeguare il dosaggio per migliorare il controllo glicemico.
Kordonouri ha concluso: “Noi chiediamo alle persone di prestare maggiore attenzione al controllo della glicemia, soprattutto dopo i pasti ad alto contenuto di grassi e proteine, e di regolare il dosaggio dell’insulina. In genere, cerchiamo di dare una dose basale inferiore rispetto ai nostri colleghi statunitensi e di dare ai pazienti basali maggiormente differenziate”.
La ricerca mostra che il diabete condivide meccanismi con il cancro e con l’invecchiamento
Esistono sempre più evidenze. che collegano il diabete, l’invecchiamento e il cancro. In tale prospettiva, sappiamo che la metformina ha mostrato risultati promettenti nel trattamento del cancro, mentre le possibili cause di diabete, come l’alterazione della sensibilità all’insulina, hanno dimostrato di svolgere un ruolo anche nell’invecchiamento.
Questo è stato il tema della sessione Shared Mechanisms of Diabetes, Cancer, and Agingall’ADA 2016.
“Il diabete e il cancro ai polmoni sono le due principali cause di morte negli Stati Uniti ed entrambe comportano una via metabolica comune” ha dettoReuben J. Shaw, MD, del Center for Clinical and Translational Sciences at the University of Kentucky (USA).
“Nel cancro del polmone, le cellule mutate utilizzano la via dell’AMPK per alimentare la crescita aggressiva. Nel trattamento del diabete tipo 2, la metformina attiva l’AMPK per riprogrammare il metabolismo del fegato e altri organi” ha spiegato Shaw. “L’AMPK e la via dell’AMPK sono sempre stati considerati centrali per il metabolismo glucidico e lipidico di tanti tessuti”.
Shaw ha quindi preso in esame i diversi ruoli dell’AMPK nel diabete e nel cancro. Il potenziale della metformina, l’agente più comunemente usato per il diabete tipo 2, per trattare anche il cancro ha ricevuto ampia pubblicità nelle comunità scientifiche che si occupano di cancro e di diabete, ha ricordato Shaw. Mentre la possibilità di manipolare altri percorsi ormonali nel diabete e dell’’invecchiamento è meno noto. Il fattore di crescita dei fibroblasti 21 (FGF21), per esempio, agisce per migliorare la funzione metabolica. Esso è prodotto principalmente nel fegato in risposta a vari tipi di stress metabolico. In presenza di obesità, migliora la sensibilità all’insulina e aumenta la spesa energetica attraverso l’attivazione del tessuto adiposo bruno.
“Il tessuto adiposo bruno aumenta la termogenesi per aumentare il dispendio energetico e indurre calo ponderale” ha spiegato Steven Kliewer, PhD, dello University of Texas Southwestern Medical Center (USA). “L’FGF21 causa calo ponderale nei topi, nei primati e negli esseri umani. Sono in corso studi su derivati di questo ormone a lunga durata di azione. La svolta interessante è che FGF21 opera in gran parte attraverso il cervello”.
Inoltre, ha ricordato, l’FGF21 induce anche resistenza all’ormone della crescita, un effetto visto in corso di digiuno. Una ridotta attività dell’ormone della crescita è associata con prolungamento della durata della vita in una varietà di specie. L’ormone agisce riducendo l’insulin-like growth factor 1 (IFG1) e riduce anche i livelli di insulina.
Kliewer ha precisato che l’inibizione dell’asse ormone della crescita-IFG1 e la diminuzione dell’insulina sono entrambi utili nel prolungamento della vita: “L’FGF21 può estendere la durata della vita dei topi del 40% e più ancora”.
“In media, un topo vive circa due anni. Abbiamo avuto un topo che è vissuto più di quattro anni. Ciò non è nemmeno il record del mondo, che è di un topo nel quale il percorso di segnalazione dell’ormone della crescita era stato completamente alterato. FGF21 riduce proprio il signaling dell’ormone della crescita”.
Kliewer ha poi detto che se l’effetto dell’FGF21 sulla durata della vita degli esseri umani non è stato testato, vi sono tuttavia popolazioni umane con varianti genetiche che riducono la segnalazione dell’ormone della crescita e che sono più resistenti alle malattie.
“Non c’è una persona in questa sessione che non abbia sentito parlare di AMPK o metformina” ha ribadito Shaw. “Ma probabilmente li conoscono nella cornice del diabete e probabilmente non conoscono i risultati degli studi su cancro e invecchiamento. Quindi, la sovrapposizione potrà apparire inaspettata per molti dei partecipanti”.
La cardiologia per i diabetologi
All’ADA 2016, quattro cardiologi hanno discusso la gestione delle malattie cardiovascolari nei pazienti con diabete, valutando le ultime evidenze sulla prevenzione e sul trattamento dell’angina instabile e dell’infarto del miocardio, dell’insufficienza cardiaca, della malattia delle arterie periferiche e dell’ipertensione.
I cardiologi dicono
“I pazienti con diabete hanno risultati peggiori rispetto ai pazienti senza diabete e, pertanto, dovrebbero essere trattati in modo aggressivo” ha dichiarato Yochai Birnbaum, MD, delBaylor College of Medicine (USA). “L’obiettivo deve essere quello di utilizzare un approccio più aggressivo e farmaci più potenti, perché il potenziale beneficio è maggiore nei pazienti con diabete”.
Birnbaum ha precisato che il primo passo fondamentale è quello di trattare la glicemia. Sia il diabete sia il prediabete sono associati a risultati peggiori, a un aumento della mortalità e degli eventi cardiovascolari. E l’iperglicemia e/o alti livelli di emoglobina glicata, anche a livelli inferiori a quelli associati al diabete franco, sono associati a una peggiore prognosi a lungo termine.
“I pazienti con diabete presentano una più diffusa malattia coronarica e maggiori comorbilità” ha detto Birnbaum. “Il diabete è anche associato a uno stato proinfiammatorio e a uno stato di ipercoagulabilità, di attivazione piastrinica e di resistenza alla terapia”.
Birnbaum ha ricordato che le linee-guida europee raccomandano un controllo di routine della glicata sia in pazienti con infarto miocardico con sopraslivellamento sia con sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST. E che studi a lungo termine suggeriscono che il controllo del glucosio eccessivamente aggressivo può peggiorare i risultati: ma un obiettivo di glucosio nel sangue di 180 mg/dl o meno resta ragionevole, egli ha ribadito.
Per i pazienti che soffrono di attacchi di cuore, i più recenti farmaci antipiastrinici – ticagrelor e prasugrel – sono da preferire rispetto al clopidogrel, ha continuato Birnbaum, perché offrono una maggiore riduzione del rischio complessivo. Le linee-guida, inoltre, ha aggiunto, mettono in evidenza che i pazienti con malattia coronarica multivasale hanno risultati migliori se trattati con un intervento chirurgico di bypass coronarico, piuttosto che con interventi percutanei.
Ipertensione: che cosa possono fare i diabetologi
Per contro, i diabetologi possono intervenire direttamente per ridurre il rischio di eventi cardiovascolari. Circa il 70% dei diabetici tipo 2 hanno l’ipertensione, un fattore di rischio cardiovascolare. La riduzione della pressione arteriosa è un passo fondamentale sia nella prevenzione sia nel trattamento delle malattie cardiovascolari. La domanda tuttavia è: quanto bassa deve essere?
“Dipende ovviamente dalle linee-guida di consultate” ha detto William C. Cushman, MD, dello University of Tennessee Health Science Center (USA). “Molte linee-guida raccomandano 140 mmHg quale obiettivo target della pressione arteriosa sistolica nel diabete. Ma alla luce di studi recenti, in futuro le linee-guida probabilmente raccomanderanno come target i 120 o i 130 mmHg di sistolica. Le linee-guida canadesi raccomandano già 130 mmHg”.
Cushman è stato uno dei principali investigatori dello studio ACCORD, pubblicato nel 2010, e del Systolic Blood Pressure Intervention Trial (SPRINT), pubblicato alla fine del 2015. Lo SPRINT ha riscontrato evidenti vantaggi da una pressione sistolica di 120 mmHg quale obiettivo target, e anche i risultati dello studio ACCORD avevano evidenziato un vantaggio dalla riduzione della pressione sistolica. Negli USA, ha poi ricordato, l’American Heart Association e l’American College of Cardiology hanno in programma di emettere una revisione delle linee-guida sulla pressione arteriosa entro la fine dell’anno.
Ancora: dieta ed esercizio fisico spesso non sono sufficienti per controllare l’ipertensione nel diabete, il che rende i farmaci antipertensivi una parte essenziale del trattamento. La maggior parte delle linee-guida raccomandano terapie da una delle quattro classi di farmaci definite allo scopo: diuretici tiazidici, calcioantagonisti, inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina (ACE) e bloccanti del recettore dell’angiotensina (ARB). Tutte e quattro le classi sono efficaci nel ridurre gli eventi cardiovascolari nel diabete, anche se i diuretici tiazidici forniscono un maggiore beneficio cardiovascolare. E mentre i diuretici dovrebbero essere un pilastro per la maggior parte dei pazienti con diabete, gli individui con qualsiasi grado di malattia renale possono anche beneficiare di un ACE-inibitore o di un ARB.
Cushman ha detto che gli afroamericani mostrano minor beneficio cardiovascolare da ACE-inibitori e ARB rispetto ad altri antipertensivi, e all’inizio è meglio trattarli con diuretici o calcioantagonisti. ACE-inibitori o ARB dovrebbero essere comunque somministrati anche ad afroamericani con malattie renali, ha comunque ribadito.
Ovviamente, i pazienti possono essere in terapia con più di una classe di antipertensivi, se necessario, ma gli ACE-inibitori e ARB non devono essere somministrati insieme, ha ribadito Cushman. “Non si vedono troppe interazioni tra antipertensivi e farmaci per il diabete” ha osservato. “Alcuni farmaci per il diabete hanno anche effetto ipotensivo, come ad esempio gli SGLT2 inibitori, che possono appunto richiedere aggiustamento della terapia ipotensiva. E non ci sono controindicazioni a utilizzare insieme antipertensivi e ipoglicemizzanti”.
Amputazioni
La malattia cardiovascolare contribuisce anche all’aumento delle amputazioni. La malattia delle arterie periferiche è la responsabile e le ulcere del piede sono la conseguenza.
Tre possono essere le cause delle ulcere ai piedi dei pazienti diabetici, ha detto William C. Pevec, MD, Chief of Vascular Surgery dello University of California Davis Medical Center (USA). Molti pazienti si feriscono i piedi o si procurano lesioni da calzature inadatte a causa della insensibilità dovuta alla neuropatia, ha ricordato. Altri pazienti sviluppano anomalie meccaniche del piede da neuropatia, che porta a punti di pressione anomali con conseguente lesione cutanea. Altri hanno problemi di circolazione a causa di arterie occluse.
“Ognuna di queste tre o qualsiasi loro combinazione può causare problemi importanti” ha detto Pevec. “Troppi medici le raggruppano sotto la definizione di ‘ulcere del piede diabetico’ e prescrivono un antibiotico. Gli antibiotici possono essere parte del trattamento, ma non sono mai la cura”.
Cura che dovrebbe sempre avere inizio con un esame annuale dei polsi, ha sottolineato Pavec: “I medici dovrebbero controllare il polso femorale, il polso popliteo e le arterie dorsale e la tibiale posteriore in entrambi i piedi”. Il passo successivo “è un esame del piede con attento controllo della sensibilità, delle anomalie meccaniche e dei cambiamenti della cute. Nel caso di dubbi circa l’adeguatezza della circolazione nei piedi, è necessario indirizzare il paziente ad un laboratorio vascolare”.
“I pazienti con diabete tendono ad avere ostruzioni significative delle arterie, in particolare molto periferiche” ha spiegato. “Ora abbiamo molteplici tecniche che possono risolvere queste arterie con opzioni percutanee con anestesia locale”. E ha concluso: “Le amputazioni non devono più essere una caratteristica del diabete”.
I ricercatori e i misteri della matrice extracellulare
La ricerca ha rivelato un nuovo elemento che interviene tra le possibili cause del diabete: la matrice extracellulare (extracellular matrix,ECM). Composta di collagene, proteine, lipidi, zuccheri e altre sostanze biologiche, l’ECM circonda le cellule in ogni tessuto. Essa svolge un ruolo nella sindrome metabolica, nell’insulino-resistenza, nella fibrosi e –probabilmente – in altri momenti fisiopatologici e nelle cause di malattie.
Questi argomenti sono stati trattati alla’ADA 2016 nella sessione All Things In-between – The Extracellular Matrix and Insulin Resistance, nel quale sono state discusse le ultime ricerche sull’ECM, sulle vie di segnalazione, sul tessuto adiposo, sul muscolo scheletrico, sulla variazione ponderale e gli effetti sulla resistenza all’insulina.
La resistenza all’insulina
“Le cellule adipose sono progettate per espandersi e contrarsi con la nutrizione, questo in presenza di una matrice extracellulare che permette alle cellule adipose di crescere” ha detto Philip A. Kern, MD, del Center for Clinical and Translational Sciences at the University of Kentucky (USA). “Ma quando le cellule adipose si espandono al di là della duttilità dell’ECM, la stessa impedisce una maggiore espansione. Ciò probabilmente si traduce in un certo grado di ipossia e di riduzione dell’afflusso di sangue, con un probabile inizio di morte cellulare e con richiamo di macrofagi e di altre cellule infiammatorie. Tale processo di danno conseguente all’espansione del tessuto adiposo può essere l’innesco dell’insulino-resistenza”.
E poi stato ricordato che una delle domande di sempre è come e perché nel diabete si manifesta la resistenza all’insulina e perché in tanti tessuti diversi. Una risposta potrebbe essere: perché tutti i tessuti hanno in comune l’ECM.
“La questione è come i cambiamenti nell’ECM possono influenzare la resistenza all’insulina in questi diversi tessuti”, ha detto David H. Wasserman, PhD, della Vanderbilt University School of Medicine (USA). “I recettori dell’integrina raccontano all’interno della cella di ciò che sta accadendo al di fuori, nell’ECM appunto. Tale segnale fa sì che la cellula si adatti ai cambiamenti nel suo ambiente. Nel caso dell’insulino-resistenza, si adatta in modo negativo conducendo alla malattia”.
L’obesità provoca l’infiammazione dell’ECM, e anche fibrosi, nei casi più gravi. Il rimodellamento dell’ECM innesca a sua volta un cambiamento nei recettori delle integrine, che contribuisce alla resistenza all’insulina, ha ribadito Wasserman. Il quale ha ricordato che studi con topi knockout hanno dimostrato che il blocco di segnalazione dell’integrina può migliorare l’azione dell’insulina, anche nell’obesità indotta dalla dieta. E studi sugli uomini hanno dimostrato un simile rimodellamento dell’ECM in risposta all’obesità e all’infiammazione.
“Ci sono farmaci che possono influenzare il signaling dell’integrina” ha detto Wasserman. “L’ECM è come un iceberg, e ciò che ora conosciamo è solo la punta di quell’iceberg. C’è una quantità enorme di informazioni sull’ECM che non è ancora nota e rimane da definire”.
Il processo infiammatorio che porta all’ECM
Il Dott. Kern ha precisato di studiare il processo infiammatorio che porta al rimodellamento dell’ECM. Convenzionalmente, l’infiammazione è intesa quale fatto negativo. I macrofagi inducono la secrezione di TNF, IL-6 e altri mediatori infiammatori che entrano circolazione, e causano la resistenza all’insulina.
“Questi mediatori dell’infiammazione sono attivati per lo più da un sottotipo di macrofagi, gli M1, che intervengono in caso di infezioni batteriche” ha spiegato Kern. “Ma ci sono anche i macrofagi M2, che sono coinvolti nella riparazione delle ferite e permettono al tessuto adiposo di rimodellarsi in risposta alle diverse condizioni che cambiano le dimensioni delle cellule adipose e alterano l’architettura del tessuto” ha continuato. “Gli M2 secernono citochine antinfiammatorie come IL4. E gli M2 possono anche convertire il tessuto adiposo bianco in tessuto adiposo bruno, che brucia grassi per produrre calore”.
I macrofagi M2 possono essere importanti nella conversione del grasso sottocutaneo da bianco a bruno in presenza di freddo per termogenesi, ha ricordato Kern. Favorendo la produzione di macrofagi M2 invece di M1 ci sarebbe la possibilità di ridurre la risposta infiammatoria che può scatenare la resistenza all’insulina. Si potrebbero anche favorire percorsi che portano alla termogenesi. Aumentando la produzione di energia da parte dei lipidi accumulati non solo si potrebbero ridurre le dimensioni delle cellule adipose, riducendo lo stress sull’ECM, ma si potrebbe anche indurre calo ponderale, ha detto ancora Kern.
Altri meccanismi
Nella sessione, sono stati ricordati anche altri meccanismi che portano dall’obesità all’infiammazione nel tessuto adiposo. Come il tessuto adiposo si espande verso l’obesità, secerne crescenti livelli di endotrophin. L’effetto locale dell’endotrophin è infiammazione e fibrosi del tessuto adiposo. Poiché la proteina entra in circolo, si diffonde l’infiammazione e la fibrosi al muscolo, al fegato e ad altri tessuti metabolicamente attivi.
“L’aumento dei livelli di endotrophin provoca resistenza all’insulina nei tessuti” ha detto Kai Sun, MD, PhD, University of Texas Health Science Center at Houston McGovern Medical School (USA), che ha scoperto la proteina.
“Abbiamo sviluppato un anticorpo monoclonale per endotrophin e lo abbiamo iniettato in topi molto obesi nutriti con una dieta ricca di grassi. Abbiamo scoperto che l’anticorpo può ripristinare i normali profili metabolici, inclusi i metabolismi lipidico e glucidico. E gli animali diventano più magri, addirittura troppo, anche se continuiamo a somministrare loro una dieta ricca di grassi”.
L’endotrophin è un target ovvio, ha detto Sun, ma può anche essere utile come biomarker. Egli ha paragonato i livelli di endotrophin in pazienti obesi con sindrome metabolica e pazienti obesi con normali profili metabolici. I pazienti con sindrome metabolica avevano livelli estremamente elevati di endotrophin mentre quelli con normali profili metabolici avevano livelli pressoché indosabili.
“L’ECM è molto importante” ha detto Sun. “Quasi la metà dei pazienti muore a causa di uno sviluppo anormale di ECM, come nel caso dei tumori. Modifiche dell’ECM sono molto simili nel diabete e in altre malattie fibrotiche. Una volta che avremo davvero capito i meccanismi che cambiano l’ECM, saremo in grado di indirizzare i percorsi e fermare, forse anche di invertire la fibrosi”.