L’indice glicemico
Antonio Ceriello
Direttore del Dipartimento di Ricerca su “Diabete e Malattie Cardiovascolari” all’Institut d’Investigacions Biomèdiques August Pi i Sunyer (IDIBAPS), di Barcellona, membro dell’International Carbohydrate Quality Consortium (ICQC) e Presidente della Fondazione AMD.
Si chiama Indice glicemico ed è un numero compreso fra 0 e 100-150 e indica la ‘velocità’ con la quale i carboidrati presenti in un alimento sono trasformati in glucosio ed entrano nel sangue. «Maggiore è l’indice glicemico, maggiore la possibilità che i carboidrati presenti in un alimento siano assorbiti rapidamente e quindi più rapido sarà l’aumento della glicemia», spiega Antonio Ceriello, Presidente della Fondazione AMD e fino al maggio 2015 presidente dell’Associazione Medici Diabetologi.
Ceriello fa parte dell’International Carbohydrate Quality Consortium (ICQC), un gruppo di studio che comprende nutrizionisti, alimentaristi e medici specialisti di diabete e malattie cardiovascolari. L’ICQC si è posto l’obiettivo di standardizzare il metodo per calcolare l’indice glicemico degli alimenti. «Molti consumatori, infatti, vogliono conoscere l’indice glicemico dell’alimento che acquistano. In Australia la legge impone di scriverlo sulle confezioni degli alimenti in commercio. Occorreva quindi una metodologia standard», spiega Ceriello Direttore del Dipartimento di Ricerca su “Diabete e Malattie Cardiovascolari” all’Institut d’Investigacions Biomèdiques August Pi i Sunyer (IDIBAPS), di Barcellona.
Oltre alle calorie, e alla composizione di un alimento, bisogna tener conto anche dell’Indice glicemico? «Direi di sì», risponde Ceriello, «Tra le persone con prediabete che assumono pasti o bevande o fuoripasto ad alto indice glicemico il rischio cardiovascolare è quattro volte superiore alla media. Anche il rischio di tumori è otto volte superiore, ma questo dato – va detto – è meno solido e le correlazioni fra glicemia e tumore sono meno chiare».
Antonio Ceriello è stato tra i primi ricercatori a sottolineare l’impatto dei ‘picchi iperglicemici’ vale a dire i rialzi della glicemia brevi ma rapidi e significativi. L’effetto di un picco iperglicemico non finisce quando la glicemia torna nei valori normali. Le pareti delle arterie per esempio sono scalfite e infiammate da queste impennate del glucosio e lo stesso vale anche per il metabolismo intracellulare. «Un alimento ad alto indice glicemico ha più probabilità di scatenare un picco iperglicemico anche nella persona con pre-diabete», nota Ceriello, che ha insegnato all’Università di Udine e poi a Warwick in Inghilterra. «È interessante notare che i picchi iperglicemici colpiscono anche tessuti come quelli del cuore che non hanno bisogno dell’insulina per utilizzare il glucosio. Proprio per questo l’improvviso afflusso di zucchero porta a delle distorsioni e delle reazioni infiammatorie del tessuto».
Chi deve stare attento all’indice glicemico? La maggior parte delle persone no. «Quale che sia la quantità di glucosio assunta e quale che sia l’indice glicemico, la glicemia resta sempre in un ambito abbastanza stretto: mai sotto i 70 e mai sopra i 140 mg/dL Devono fare attenzione invece le persone con diabete. Soprattutto quelle che usano insulina rapida prima dei pasti, per calcolare bene dose e tempi di assunzione ma ancora di più le persone con il cosiddetto ‘pre-diabete’ che sono almeno il doppio e quindi 10 milioni in Italia. Molte di loro persone esprimono la cosiddetta IGT, sigla inglese tradotta con la locuzione ‘Ridotta tolleranza al glucosio’. In questi casi la produzione di insulina da parte del pancreas è ritardata e inizialmente insufficiente. Sono queste persone – che generalmente non assumono nessun farmaco – a dover stare attente all’indice glicemico perché il loro pancreas probabilmente farà fronte tranquillamente a un pasto con basso indice glicemico ma sarà in difficoltà con uno ad alto indice glicemico», nota Antonio Ceriello.
Come si traduce in concreto questa indicazione? Il fatto è che l’indice glicemico di un singolo alimento dipende molto dalla varietà dell’alimento, dalla sua freschezza (più è maturo più è alto l’indice), dalla sua forma (gli spaghetti hanno un indice glicemico più basso della pasta corta) e soprattutto dalla cottura (in linea generale più l’alimento è cotto più l’indice è alto). E poi gli alimenti che si incontrano nella vita quotidiana sono complessi: la brioche può essere farcita o vuota, il pane con la nutella (che contiene una buona quota di grassi) ha un indice più basso del pane da solo. Le orecchiette con le cime di rape (ricche di fibre) hanno un indice più basso di quelle al sugo.
«E ancora più complessi sono i pasti. Gli alimenti assunti uno dopo l’altro si mischiano nella digestione. E l’indice glicemico ‘che conta’ è quello medio del pasto. Una patata lessa ha un indice glicemico altissimo, più dello stesso zucchero ma mangiata insieme a una bistecca (ricca di grassi) o a degli spinaci (ricchi di fibre) crea un pasto con un indice di glicemico medio o medio-basso», esemplifica Ceriello.
Insomma, calcolare precisamente l’indice glicemico di quel che si mangia è una fatica tale da far passare la voglia di mangiare. «Ma la precisione non serve perché alla fine le indicazioni concrete sono poche e semplici da seguire», conclude il presidente della Fondazione AMD, «primo: evitare come la peste le bevande zuccherate sempre e soprattutto fuori pasto. Secondo: dimenticare i fuori pasto che quasi sempre comprendono carboidrati il cui effetto non è ‘ammortizzato’ da grassi o fibre. Terzo: inserire sempre in ogni pasto una buona quota di fibre e – se non vi sono controindicazioni dl altro tipo – di grassi che abbassano l’indice glicemico. Quarto: preferire farine non raffinate, il pane ‘nero’ o comunque colorato a quello bianco. Queste regole sono sufficienti e non limitano affatto la qualità di quel che si mangia!».