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Controllo glicemico intensivo in pazienti con diabete tipo 2: follow-up a 15 anni (studio VADT)

A cura di Eugenio Alessi

17 giugno 2019 (Gruppo ComunicAzione) – Trial storici su pazienti con diabete di tipo 1 (DCCT) e con diabete di tipo 2 di recente insorgenza (UKPDS) hanno mostrato che un controllo glicemico intensivo riduce l’incidenza delle complicanze microvascolari, senza però ridurre gli eventi cardiovascolari (1); nei loro follow-up osservazionali a più lungo termine, però, pazienti sottoposti durante lo studio a trattamento intensivo presentavano un minor numero di eventi cardiovascolari e ridotta mortalità (cosiddetto legacy effect o memoria metabolica).

Dopo alcuni anni, i grandi trial su pazienti con diabete di tipo 2 di lunga durata (ACCORD, ADVANCE e VADT) non hanno dimostrato l’effetto significativo di un più stretto controllo glicemico nel ridurre gli eventi cardiovascolari e la mortalità (2); il follow-up a 10 anni del VADT (Veteran Affairs Diabetes Trial) ha invece mostrato un emergente effetto positivo in termini di eventi cardiovascolari. I ricercatori che hanno condotto il VADT, guidati da Peter D. Reaven, del Veterans Affairs Health Care System di Phoenix (USA), hanno pubblicato sul New England Journal of Medicine (3) i risultati del follow-up osservazionale dello studio a 15 anni, riguardo eventi cardiovascolari, qualità della vita e mortalità.

Lo studio originale includeva 1791 veterani dell’esercito (al 98% uomini) con diabete tipo 2 di lunga durata (quasi 12 anni in media), non ben controllato (HbA1c media oltre 9%), randomizzati a ricevere un trattamento intensivo (obiettivo livelli normali di HbA1c) o un trattamento standard (obiettivo di HbA1c fra 8 e 9%), seguiti mediamente per 5,6 anni, con una differenza media di HbA1c fra i due gruppi di 1,5% alla fine del trial. I pazienti che hanno terminato lo studio sono stati poi seguiti in maniera osservazionale utilizzando registri e database per individuare eventi cardiovascolari, ospedalizzazioni e mortalità (coorte completa 1655 pazienti). È stato inoltre chiesto ai pazienti di fornire dati aggiuntivi mediante questionari e revisioni di cartelle (1391 pazienti hanno fatto parte di questa coorte “survey”). L’outcome primario era rappresentato da un composito di eventi cardiovascolari (infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, ospedalizzazione per scompenso cardiaco, amputazioni per ischemia periferica, morte cardiovascolare); la morte per tutte le cause era outcome secondario.

La separazione delle curve di HbA1c, che come detto raggiungeva l’1,5%, si riduceva a 0,2-0,3% dopo 3 anni dalla fine del trial e i valori si stabilizzavano a un livello di 8% circa in entrambi i gruppi, senza differenza significativa. I pazienti sottoposti a trattamento intensivo durante lo studio di intervento avevano un maggior incremento ponderale, che si manteneva tale anche durante il follow-up, mentre l’utilizzo di farmaci ipoglicemizzanti e per il trattamento dei fattori di rischio cardiovascolari era sovrapponibile nei due gruppi durante il periodo di osservazione.

A un follow-up mediano di 13,6 anni il rischio di incidenza dell’outcome primario cardiovascolare composito era inferiore del 9%, ma non in maniera significativa, nel gruppo in trattamento intensivo (HR 0,91; IC 95%, 0,78-1,06; p = 0,23). Vi era anche un rischio minore, ma non in maniera significativa, di eventi avversi legati al diabete (HR 0,90; IC 95%, 0,78-1,04) e morte per cause cardiovascolari (HR 0,94; IC 95%, 0,73-1,20). A un follow-up mediano di 15 anni non c’era nessuna differenza significativa in termini di mortalità per tutte le cause (HR 1,02; IC 95%, 0,88-1,18), in termini di punteggi nei questionari sulla qualità di vita (63,8 vs. 62,2 in media) e in termini di tassi di ospedalizzazione (HR 0,98; IC 95%, 0,88-1,09).

Il rischio di eventi cardiovascolari risultava ridotto del 17% nel gruppo in trattamento intensivo, in maniera significativa (HR 0,83; IC 95%, 0,70-0,99), solamente nel periodo di circa 10 anni in cui c’era una separazione significativa nelle curve di HbA1c fra i due gruppi; al contrario, nel periodo di circa 5 anni dopo che i livelli di HbA1cdiventavano sovrapponibili, non vi erano differenze significative, con un modesto incremento del rischio nel gruppo in trattamento intensivo (HR 1,23; IC 95%, 0,90-1,75). Un’analisi di sensitività ha mostrato che solo i livelli di HbA1c degli ultimi 3 anni, ma non più distanti nel tempo, erano associati al rischio di eventi cardiovascolari.

Gli autori concludono che, sulla base di tali risultati, in pazienti con diabete mellito tipo 2 di lunga durata, ad alto rischio cardiovascolare, 5,6 anni di trattamento intensivo della glicemia, fino a un’HbA1c media di 6,9%, non hanno determinato una riduzione significativa degli eventi cardiovascolari dopo 13,6 anni di follow-up, né una riduzione della mortalità o un miglioramento della qualità di vita dopo 15 anni, senza quindi evidenza di legacy effect o memoria metabolica positiva.

Vi era però evidenza di una significativa riduzione dell’incidenza di eventi cardiovascolari, a favore del trattamento intensivo, durante il periodo di separazione delle curve di HbA1c (approssimativamente 10 anni), influenzato in particolare dai livelli di HbA1c dei 3 anni precedenti, il che dimostra la necessità di mantenere un ottimo compenso metabolico nel tempo per osservarne i benefici, con un effetto stimato di riduzione del 10% del rischio di eventi per ogni punto in meno di HbA1c, in linea con quanto osservato negli altri grandi trial già citati.

Fra i limiti dello studio, sottolineati dagli autori, oltre alle caratteristiche della popolazione reclutata (uomini, di età avanzata e lunga durata di malattia) che potrebbero limitare la estensibilità dei risultati, la natura osservazionale e l’utilizzo di registri elettronici per l’ottenimento dei dati non conferiscono la stessa forza di evidenza degli studi randomizzati e controllati. Questo genere di follow-up post-trial non ha consentito, inoltre, di ottenere dati sulle complicanze microvascolari.


1. BMJ 2000;321:405-12

2. N Engl J Med 2008;358:2560-72

3. N Engl J Med 2019;380:2215-24

PubMed


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