Dapaglifozin e outcome cardiovascolari nel paziente con diabete tipo 2
A cura di Emanuela Zarra
19 novembre 2018 (Gruppo ComunicAzione) – È noto che i pazienti affetti da diabete tipo 2 (DT2) sono soggetti a elevato rischio cardiovascolare (CV); alcune delle attuali terapie utilizzate nella cura del diabete, oltre all’effetto antiperglicemico, hanno dimostrato di ridurre l’incidenza degli eventi CV. Gli inibitori selettivi del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2i) sono una classe di farmaci che agisce bloccando il riassorbimento del glucosio a livello del tubulo renale prossimale, determinandone l’eliminazione attraverso le urine. L’uso di alcuni tra gli SGLT2i è stato già dimostrato essere associato a una riduzione degli eventi CV come la diminuzione del rischio di ospedalizzazione per insufficienza cardiaca, prevalentemente nei pazienti con DT2, e una riduzione della progressione della malattia renale. Non è ancora noto il profilo di sicurezza cardiovascolare di uno degli SGLT2i, il dapagliflozin.
Per tale motivo Stephen D. Wiviott (Div. of Cardiovascular Medicine, Brigham and Women’s Hospital, Boston, MA, USA) e coll., per conto dei DECLARE-TIMI 58 Investigators, hanno voluto valutare gli effetti di dapagliflozin su outcome CV e renali in un’ampia popolazione di pazienti con DT2 che presentavano multipli fattori di rischio per lo sviluppo di una malattia CV o ai quali era già stata diagnosticata una malattia CV, nello studio DECLARE-TIMI 58 (Dapagliflozin Effect on CardiovascularEvents-Thrombolysis in Myocardial Infarction). I dati sono stati pubblicati recentemente sul New England Journal of Medicine.
Si è trattato di uno studio randomizzato di fase 3, in doppio cieco, multicentrico, controllato vs. placebo. L’endpoint primario di sicurezza era composito e si proponeva di dimostrare la riduzione di incidenza di eventi avversi CV maggiori (major adverse cardiovascular events, MACE), definiti come morte CV, infarto miocardico o ictus ischemico), e la riduzione di incidenza di morte CV o di ospedalizzazione per scompenso cardiaco. Anche l’endpoint secondario di sicurezza era composito e riguardava sia gli esiti renali (riduzione ≥40% della velocità di filtrazione glomerulare stimata a <60 ml al minuto per 1,73 m2 di superficie corporea, comparsa di nuova malattia renale allo stadio terminale o morte per causa renale o CV) che la morte per qualsiasi causa.
Sono stati arruolati 17.160 pazienti, di cui 10.186 a elevato rischio CV ma senza malattia CV nota, seguiti per una media di 4,2 anni. L’analisi dei dati ha dimostrato che il dapagliflozin ha raggiunto il suo endpoint primario di sicurezza dato dalla non inferiorità rispetto al placebo per MACE (limite superiore dell’IC 95%, <1,3; p <0,001 per non inferiorità). Infatti, nelle due analisi di efficacia primaria, con l’uso di dapagliflozin si è osservata una minore incidenza di eventi MACE ma tale outcome non ha tuttavia raggiunto la significatività statistica (8,8% nel gruppo con dapagliflozin e 9,4% nel gruppo con placebo; HR 0,93; IC 95%, da 0,84 a 1,03; p = 0,17). L’uso del dapagliflozin ha invece ridotto in maniera statisticamente significativa l’endpoint composito di morte CV o ospedalizzazione per scompenso cardiaco(4,9 vs. 5,8%, HR 0,83; IC 95%, da 0,73 a 0,95; p = 0,005), che corrispondeva a un tasso inferiore di ospedalizzazione per insufficienza cardiaca (HR 0,73, IC 95%, da 0,61 a 0,88); infine, non c’era differenza significativa tra i gruppi nel tasso di incidenza di morte CV (HR 0,98, IC 95%, da 0,82 a 1,17).
Relativamente agli endpoint secondari, nel 4,3% dei pazienti che assumevano dapagliflozin si è verificato un evento renale vs. il 5,6% del gruppo placebo (HR 0,76, IC 95%, 0,67-0,87). La morte per qualsiasi causasi è verificata rispettivamente nel 6,2 e nel 6,6% dei casi (HR 0,93, IC 95%, 0,82-1,04). La chetoacidosi diabetica è stata più frequentemente associata all’uso del dapagliflozin rispetto al placebo (0,3 vs. 0,1%, p = 0,02), così come il tasso di infezioni genitali che hanno portato alla sospensione del farmaco o che sono state classificate come eventi avversi gravi (0,9 vs. 0,1%, p <0,001).
Gli autori concludono che, nei pazienti con DT2 e malattia CV già diagnosticata o multipli fattori di rischio per lo sviluppo di una malattia CV, il trattamento con dapagliflozin ha raggiunto l’endpoint primario di sicurezza, dato dalla non inferiorità per MACE.
Inoltre, l’uso del dapagliflozin, ha ottenuto una riduzione statisticamente significativa dell’endpoint composito di ospedalizzazione per scompenso cardiaco o morte CV, un dato che riflette un tasso inferiore di ospedalizzazione per insufficienza cardiaca, uno dei due endpoint principali di efficacia.
In ultimo, si è osservata una minore incidenza di eventi MACE, anche se questo outcome non ha raggiunto la significatività statistica, e ulteriori risultati supportano un possibile tasso più basso di esiti renali avversi.
N Engl J Med. 2018 Nov 10. doi: 10.1056/NEJMoa1812389. [Epub ahead of print]
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