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Fare di più non significa fare meglio: risultati di una survey

A cura di: Maria Franca Mulas Per il Gruppo AMD: Diabetologia misurata

20 maggio 2016 (Gruppo ComunicAzione) – E’ un fatto sufficientemente acquisito che il medico italiano, solo negli ultimi anni e in modo non così diffuso, stia acquisendo una certa dimestichezza con i temi di economia e organizzazione sanitaria, di assetto organizzativo delle aziende sanitarie, di finanziamento del sistema sanitario e a prestazione, di leadership e comunicazione, di funzioni e strumenti di pianificazione operativa (sistema di budget), di gestione del lavoro per processi, di sistemi informativi, di reporting e misurazione della performance, di clinical governance (da qui in poi governo clinico) quale modello per un approccio sistematico al mantenimento, verifica e miglioramento della qualità delle cure ai pazienti all’interno dei sistemi sanitari e per l’attivazione di meccanismi di responsabilizzazione, gestione e governo dei processi assistenziali da parte degli attori principali che ne fanno parte. Because clinicians are at the core of clinical work, they must be at the heart of clinical governance (1), i medici devono ambire a diventare i protagonisti assoluti della governance e non essere piuttosto dei meri soggetti amministrati. Dovrebbe perciò ridursi la dissonanza esistente tra l’esigenza di assoluta e incondizionata libertà nel proprio agire e le necessità di bilancio delle direzioni aziendali.

Oggi i termini di sicurezza, efficacia, appropriatezza, partecipazione degli utenti, equità, efficienza, che sono le dimensioni del governo clinico, sono abbastanza noti, così come è sufficientemente nota l’importanza di: medicina basata sulle prove, linee-guida e percorsi assistenziali, Health Technology Assessment, audit clinico, gestione del rischio, formazione continua, laboratorio formativo, accreditamento professionale, ricerca e sviluppo professionale, gestione delle risorse umane, partecipazione degli utenti. Siamo certamente ancora lontani dal momento in cui la classe medica possiederà una competenza adeguata sugli strumenti del governo clinico, ma non possiamo negare che l’Associazione Medici Diabetologi (AMD) abbia contribuito nel corso degli anni ad avvicinare i diabetologi alle diverse dimensioni del governo clinico. Sulla spinta di queste sollecitazioni culturali, all’interno dei gruppi di lavoro AMD è nata l’esigenza di avere un insieme di persone che agiscano in modo trasversale nei gruppi.

Il gruppo “Diabetologia misurata” ha identificato le prime cinque pratiche ad alto rischio di inappropriatezza, offrendo ai diabetologi così un primo esempio di coniugazione di sostenibilità e appropriatezza: esse si possono riassumere in cinque frasi:

  • non utilizzare la terapia insulinica “al bisogno” per il trattamento dell’iperglicemia nel paziente ricoverato in ospedale;
  • non prescrivere di routine l’automisurazione domiciliare quotidiana della glicemia nelle persone con diabete tipo 2 in trattamento con farmaci che non causano ipoglicemia;
  • non effettuare lo screening indiscriminato delle complicanze croniche del diabetico con modi e tempi diversi da quelli indicati dalle linee-guida nazionali;
  • non trattare in modo indiscriminato i pazienti diabetici con farmaci antiaggreganti piastrinici;
  • non eseguire nei pazienti diabetici il dosaggio routinario di C-peptide ematico.

La lista è stata presentata ufficialmente ai diabetologi il 24 ottobre 2014 nel corso del convegno AMD-CSR di Baveno.

L’eco mediatica che ha avuto la pubblicazione delle cinque pratiche è stato davvero sorprendente (2,3) e ha confermato la necessità di valutarne l’impatto anche presso i diabetologi, per cui nel 2015 è stata lanciata una survey a cui hanno partecipato 422 persone, di età media 55 anni, in leggera prevalenza maschi (55%), con buon equilibrio di partecipazione nord-centro-sud, appartenenti a strutture ospedaliere al 57% o territoriali al 43%, diabetologi per la grandissima maggioranza (90%). Lo scopo dell’indagine era la valutazione della capacità della lista delle cinque ratiche inappropriate di cambiare le prassi cliniche e di far emergere le difficoltà di applicazione. Va precisato che le frasi che descrivono la pratica inappropriata sono state scritte secondo il format previsto dal progetto nazionale “Fare di più, non significa fare meglio”.

In sintesi, la proposta di una lista di 5 pratiche inappropriate è stata applicata con interesse anche dai diabetologi, 68,4% (media per le 5 pratiche) degli intervistati. Le difficoltà applicative, valutate sul 11,8% delle risposte (max 20, min 6%) sono originate dall’aspettarsi obiezioni del paziente 24%, da barriere organizzative 36,4%, e poi in percentuali minori, da difficoltà culturali, libertà decisionale, necessità di personalizzazione delle decisioni, pratica già adottata, difficoltà al cambiamento.

E’ molto lusinghiero il fatto che il 90% degli intervistati ritenga che la sostenibilità sia un problema del diabetologo. E’ una dichiarazione d’intenti promettente. Analogamente, il fatto che il 95% dei diabetologi ritenga che le cinque pratiche possano essere implementate è un indicatore proxi della disponibilità al cambiamento. Infatti, se pure in percentuali rispettivamente a scalare, il 95% ritiene che le pratiche possano essere implementate nel proprio servizio, l’80% dichiara il suo interesse a essere testimonial dell’implementazione delle cinque pratiche nel proprio servizio con la pubblicazione di un poster, il 62% è favorevole alla partecipazione a un progetto per la valutazione dell’osservanza all’esclusione delle cinque pratiche dalle prassi lavorative.

 

1) BMJ 2004;329:679-81

PubMed

2) Quotidiano Sanità

3) Gruppo AMD Slow Medicine


AMD segnala articoli della letteratura internazionale la cui rilevanza e significato clinico restano aperti alla discussione scientifica e al giudizio critico individuale. Opinioni, riflessioni e commenti da parte degli autori degli articoli proposti non riflettono quindi posizioni ufficiali dell’Associazione Medici Diabetologi.