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Guerra e medicina: la prima sviluppa la seconda?

Il centenario della guerra ’14-18: una paradossale occasione per lo sviluppo della medicina…

a cura di Giorgio Mantovani e della Redazione


Scoprire qu’al cosa non è così importante come quello che si impara nel cercarla
Anonimo fiorentino, XVI secolo

Gli storici concordano: la prima guerra mondiale, di cui in questi mesi stiamo – ahinoi – celebrando le ricorrenze, è stata una svolta per la medicina, una “paradossale” fonte di progresso, come riassume il medico e storico della medicina Giorgio Cosmacini in Guerra e medicina. Dall’antichità a oggi. La necessità di curare un numero enorme di feriti costrinse i medici a cercare risposte per affrontare situazioni nuove, sino ad allora mai conosciute. E i risultati di quelle ricerche, almeno quelli “positivi”, sono arrivati sino a noi.

Bombe, spezzoni, proiettili sempre più veloci sparati da armi sempre più evolute e precise e micidiali, cannoni e mortai, carrarmati, aeroplani, dirigibilisottomarini, baionette a lama cilindrica o seghettata, mazze chiodate, tirapugni, gas, lanciafiammecorpi massacrati, tessuti lacerati, bruciati, ustionati: la medicina e la chirurgia del fronte dovevano occuparsi di numeri altissimi e di tipologie le più diverse di ferite. La clinica ipotizzava approcci differenti perché molti dei medicinali in grado di contrastare le infezioni erano ancora sconosciuti. Si moriva di setticemia, di “cancrena gasosa”, “il grande flagello della sanità militare”, elenca Cosmacini. Spesso non erano le ferite dei combattimenti in sé a causare la morte. Piuttosto, il tetano, le complicanze settiche delle fratture, le forme tifiche, la “febbre da trincea”, il “piede da trincea”, la “bocca da trincea” la TBC, i parassiti gastrointestinali, i contagi epidemici vari, le infezioni (anche da pulci, pidocchi, ratti), le dermatiti e via elencando causate dalla vita di trincea – sul solo fronte occidentale è stato computato che ne vennero scavate per oltre 25 mila chilometri. Non c’erano sulfamidici né antibiotici. Arrivò però, ricordano gli storici, una prima possibilità di medicazione antibatterica: la soluzione di Carrel-DakinAlexis Carrel (1873-1944) era un chirurgo vascolare e biologo francese (premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1912), Henry Drysdale Dakin (1880-1951) un chimico americano; insieme misero a punto una potente soluzione antisettica a base di acido ipocloroso (l’ipoclorito di sodio è il principio attivo della comune candeggina). Oggi pare antichità, ma allora determinò una svolta significativa, poiché il suo impiego abbatteva la mortalità: impiegato sulle ferite infette, la soluzione non era particolarmente aggressiva sui tessuti, agiva molto velocemente e consentiva una suturazione veloce in un ambiente sufficientemente disinfettato. Giusto per citare un dato: Cosmacini ha ricordato che nella lunghissima, terribile battaglia di Verdun (febbraio-dicembre 1916), dopo i pesantissimi combattimenti il 90% dei feriti non trattati con la soluzione Dakin-Carrel moriva. Tra quelli trattati la mortalità scendeva al 10-15%.

Stesso discorso per la tintura di iodio, inventata nel 1908 dal medico istriano Antonio Grossich (1849-1926) e utilizzata per la prima volta dall’esercito italiano nella guerra italo-turca dell’11-12 (la campagna di Libia): il metodo era applicare la tintura per sterilizzare il campo operatorio qualche minuto prima dell’intervento e poi dopo l’anestesia e poi ancora al termine dell’operazione, dopo la suturazione.

Fu proprio la guerra ’14-18, come detto, a insegnare ai medici a concentrarsi sulle infezioni, dando vita a quel grande sforzo che condusse alla scoperta dei sulfamidici prima e degli antibiotici poi. Per dire: sia il medico, biologo e farmacologo Alexander Fleming (1881-1955; premio Nobel per la medicina nel 1945) sia il medico e biochimico tedesco Gerhard Domagk (1895-1964; scopritore dei sulfamidici nel anni ’30, premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1939) avevano partecipato alla prima guerra mondiale (nel 1900 Fleming si arruolò anche per partecipare alla guerra del Transvaal, ma per soprannumero non venne inviato in Sudafrica e per fortuna dell’umanità si dette alla medicina e all’inoculazione, quella che per noi oggi è la vaccinazione). Domagk, che nella grande guerra rimase ferito, annotò come fosse più facile morire a causa delle infezioni che per ferite da combattimento e stimò in 1:3 il rapporto fra le due le mortalità.

E che dire dei gas? All’inizio della prima guerra mondiale il loro impiego risultava proibito dalla Convenzione dell’Aia sottoscritta il 29 luglio del 1899, firmata da quasi tutte le nazioni (con l’astensione degli Stati Uniti) che parteciparono poi al conflitto (all’art. 23 si legge, fra l’altro: Oltre ai divieti sanciti da convenzioni speciali, è segnatamente proibito: a. far uso di veleni o di armi avvelenate). Quanto il divieto stabilito dalla Convenzione venisse scrupolosamente osservato? I francesi furono i primi a utilizzare gas lacrimogeni sui tedeschi. Nella primavera del 1915 l’industria tedesca fornì circa 700 tonnellate di sostanze chimiche alle truppe al fronte. In Italia, nel maggio 1915, cinque giorni dopo l’entrata in guerra, si riuniva a Torino la Commissione torinese per lo studio dei gas asfissianti e mezzi di difesa (copia della relativa relazione, stampata nel ’16, è consultabile presso la biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Torino) e nel luglio successivo si costituiva la Commissione Chimica, composta da insigni luminari e incaricata dello studio offensivo e difensivo della nuova arma. Così, durante la grande guerra furono sviluppati non pochi gas – lacrimogeni, irritanti, vescicanti, asfissianti; cloro, cianuro, fosgene, iprite – dagli effetti devastanti (inizialmente, l’unica protezione contro i gas letali erano semplici tamponi di garza pressata o fazzoletti-compresse imbottite di cotone, da utilizzarsi come filtro; fu il chimico e ufficiale britannico Edward Harrison [1869-1918], il quale fu poi vittima dei propri esperimenti, a mettere a punto la prima maschera antigas). L’iprite, il “gas mostarda”, chiamato così per il caratteristico odore, descritto talvolta come puzza di aglio bruciato, talaltra di senape, venne utilizzato dagli imperi centrali contro le truppe britanniche a Ypres (Belgio) nella primavera del 1915; risultato: la British Expeditionary Force registrò, solo a Ypres, oltre 5 mila morti, e oltre 10 mila furono gli intossicati dal 1915 al termine del conflitto. La prima volta che l’esercito italiano subì gli effetti dei gas fu il 29 giugno 1916, durante l’offensiva austriaca sul Carso, a monte San Michele, quando ricevettero oltre 6 mila bombole di un composto di cloro e fosgene; e anche a Caporetto, il 24 ottobre del ’17, l’offensiva austro-tedesca fu preceduta da un intenso bombardamento con proiettili caricati a gas, forse acido cianidrico. Si stima che, in Europa, nel periodo ’14-18 siano state diffuse circa 50 mila tonnellate di gas: oltre 1.200.000 coloro che ne subirono danni perpetui (enorme il numero dei ciechi), 85 mila i morti. Eppure i primi chemioterapici sono nati proprio dal reindirizzamento degli studi per la produzione di quei gas (Domagk, appunto, che nel dopoguerra compì studi ed esperimenti, interessandosi di cancro, di antibatterici e di terapia antitubercolare).

Anche il pronto soccorso e la riabilitazione dei mutilati deve molto al primo conflitto mondiale. Presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna e l’Istituto Elioterapico Codivilla di Cortina d’Ampezzo si curava, si realizzavano protesi e si praticava la riabilitazione per i soldati mutilati tornati dal fronte. E sempre per citare i famosi: lo scrittore Ernest Hemingway (1899-1961; premio Nobel per la letteratura nel 1954), diciottenne, venne in Europa con come autista dell’ARC (American Red Cross, la sezione statunitense della Croce Rossa, nata dall’esperienza di soccorso delle battaglie di Solferino e San Martino del 1859, seconda guerra d’indipendenza italiana). Mandato a sostenere e rifornire i fanti in prima linea, nella notte fra l’8 e il 9 luglio 1918, a Fossalta di Piave, lungo le sponde del fiume, Hemingway venne ferito al ginocchio e al piede. L’immagine radiografica, scoperta nemmeno vent’anni prima dal tedesco Wilhelm Conrad Röntgen (1845-1923; primo fisico a ricevere il premio Nobel nel 1901), consentì di valutare al meglio le ferite dello scrittore statunitense (al quale vennero estratte oltre duecento schegge) e approntare la successiva riabilitazione, al padiglione Francesco Ponti dell’ospedale Maggiore di Milano, in via Sforza, così da prevenire la zoppìa, come ha ricordato Cosmacini. Per certi aspetti, il suo romanzo Addio alle armi se non figlio è almeno parente assai prossimo dei progressi della medicina: se non altro perché, ad esempio, in quegli anni Marie Curie (1867-1934) sostenne l’uso delle unità mobili di radiografia (le pétites Curie, per i francesi) quale strumento di diagnosi e pronto intervento per i soldati feriti (in Italia ci furono le apparecchiature radiografiche sommeggiate; quelle motorizzate su ruote arriveranno solo nel 1917). Che non servirono invece a Gabriele D’Annunzio (1863-1938), il quale, nel gennaio del 1916, durante un ammarraggio d’emergenza nelle acque antistanti Grado, urtò violentemente contro la mitragliatrice dell’aereo riportando una lesione alla tempia e all’arcata sopraccigliare destra; colpo e ferita, non trattati tempestivamente, gli causarono il distacco della retina e la perdita dell’occhio.

Pure la chirurgia plastica mosse i primi passi nella grande guerra: nacquero laboratori specializzati, a metà fra studio medico e atelier artistici, per ridare una fisionomia ai soldati deturpati realizzando maschere facciali. Come quello dell’inglese Francis Derwent Wood (1871-1926; sul Lancet del 23 giugno 1917:949-51 Wood ebbe a scrivere: “Il mio lavoro inizia dove si completa il lavoro del chirurgo”) o dell’americana Anna Coleman Ladd (1878-1939), che operava a Parigi. Totalmente differente era però ricostruire chirurgicamente se non i tratti almeno l’epidermide: uno dei primi fu Harold Gillies (1882-1960), neozelandese di nascita che allo scoppio della prima guerra mondiale si arruolò nel Royal Army Medical Corps, considerato uno dei padri della chirurgia plastica. Nell’ospedale di Sidcup, nel Kent, ove operava, durante la guerra e negli anni successivi migliaia di soldati sfigurati vennero ricoverati per essere curati e ritrovare un’identità.

Per quanto riguarda l’Italia, il Giornale di medicina militare, ricordando il grande conflitto (maggio 2015), rammenta che all’entrata in guerra la Croce Rossa italiana militarizzò immediatamente il suo personale, forte di 9500 infermieri e 1200 medici, con 209 apparati logistici tra ospedali territoriali, attendamenti, autoambulanze e treni ospedale. Nel 1916 i medici militari in zona di guerra erano circa 8 mila e altri 6 mila operavano nelle retrovie; nel 1918 toccarono quota 18 mila. Per contro, l’esercito entrò in guerra con 770 ufficiali medici in servizio effettivo; nel ’16 vennero chiamati in servizio, col grado di aspirante ufficiale medico, gli studenti dell’ultimo biennio di medicina (per approfondire, si veda, Ferrajoli F. Il servizio sanitario militare nella guerra 1915-1918. Giornale di medicina militare. Nov-dic. 1968), oltre a un considervole numero di soldati-infermieri. Dato non molto conosciuto: nel 1915 erano una novantina le donne laureate in medicina e circa la metà di esse saranno arruolate per svolgere funzione di ufficiale medico a tutti gli effetti: Clelia Lollini (1890-1963), ad esempio, nel 1914 si laureò in medicina, specializzandosi in chirurgia, e dal ’16 al ’18 fu all’ospedale militare di Venezia, con i gradi di sottotenente medico (nel ’19 fu tra le promotrici di quella quella che sarebbe divenuta da lì a poco la Medical Women’s International Association e nel ’21, assieme a Myra Carcupino-Ferrari, fu tra le fondatrici dell’Associazione Italiana Donne Medico). Ancora: gli storici parlano di vera e propria ospedalizzazione militare dell’intero paese, con sedi di ricovero distribuite ovunque, dalle strutture pubbliche ad alcuni palazzi reali (dal complesso ospedaliero militare del Celio al castello reale di Moncalieri, nei pressi di Torino). Per gli alleati, come ricordato dallo storico Jack Edward McCallum in Military Medicine. From Ancient Times to the 21st Century, nel 1917, dopo l’in­gresso degli Stati Uniti nel conflitto, i corpi medici di quell’esercito si svilupparono rapidamente: se nel giugno del 1916 gli ufficiali medici statunitensi erano 443, nel 1918 erano diventati quasi 31 mila. Per gli inglesi, il Queen Alexandra’s Imperial Military Nursing Service, l’unità infermieristica del corpo medico del Royal Army, se nel 1914 annoverava meno di 300 effettivi, nel 1918 superava quota 10 mila effettivi e fu integrato da oltre 9 mila infermiere, non sempre adeguatamente formate, inquadrate in distaccamenti vo­lontari ausiliari.

Certo, non che la medicina rispondesse anzitutto, come oggi, a esplicite esortazioni etico-morali: bisognava cucire, curare, salvare perché serviva carne da macello, masse di uomini da mandare all’assalto, da usare come argine per fermare “lo straniero”. Abbiamo detto: i medici che allora partivano per il fronte erano sempre più spesso giovani studenti, nessun tirocinio – quello lo si faceva sul campo di battaglia, dal vero e su quanto rimaneva di vivo…

E anche il cibo (oggi diremmo: dieta) conobbe non pochi sviluppi, almeno in un’Italia unita da appena cinquant’anni ma ancora fortemente frazionata per usi, costumi, tradizioni, mentalità e cultura. Le gamelle non contenevano certo un rancio particolarmente gustoso né raffinato (minestra di riso, carne bollita), la potabilità dell’acqua fu spesso un problema enorme per le prime linee, e si aveva a disposizione un quarto di vino tre volte la settimana. La razione giornaliera era studiata per apportare mediamente circa 4000 calorie (4700 per le truppe sottoposte a lavoro intenso in alta montagna), per passare dal 1916 a poco più di 3000 calorie per mancanza di scorte alimentari. Annotò lo scrittore Carlo Emilio Gadda (1893-1973; volontario, sottotenente alpino mitragliere, dopo la rotta di Caporetto venne fatto prigioniero e deportato a Celle [Hannover, Germania]) nel suo Giornale di guerra e di prigionia: “Il rancio e il caffè vengono cotti la notte, poiché il Comando brigata Piemonte ha proibito di accendere fuochi durante il giorno, e con ragione. Il caffè vien recato al crepuscolo mattutino, la carne cotta rimane là durante il giorno e recata col rancio di riso o pasta a notte fatta. Gli uomini rassegnati mangiano quindi, verso le 11 di sera, con fame lupina, e prendono il caffè verso le 5 di mattina”. Per non parlare dello stato di grave denutrizione e severa debilitazione dei prigionieri (gli storici dicono che solo a Caporetto caddero in mano austriaca circa 300 mila italiani, che si aggiunsero ai circa 150 mila precedenti e alle altre migliaia sino al ’18, per un totale che si aggira sui 600 mila, di cui 100 mila morti di fame e stenti nei campi di prigionia; anche per gli austroungarici, tra il ’15 e il ’18, furono quasi 600 mila i prigionieri caduti in mano italiana, di cui circa 40 mila morti in Italia, dei quali circa 27 mila per malattia e denutrizione).

La carne: scarseggiava così tanto che, come ha recentemente raccontato la BBC, Konrad Adenauer (1876-1967), dal 1917 al 1933 sindaco di Colonia (e poi tra i fondatori dell’unione europea), per far fronte alla scarsità alimentare dapprima contribuì a mettere a punto un modo per preparare il pane senza usare il grano, sostituito da farina di riso, orzo e farina di mais; poi a definire un cibo capace di garantire l’apporto proteico della carne, appunto quasi del tutto introvabile: le salsicce a base di soia, che per alcuni anni vennero soprannominate “salsicce della pace”. Per la cronaca: per quelle salsicce Adenauer tentò anche di depositarne il brevetto, che gli venne tuttavia negato poiché violava le norme tedesche sugli insaccati: non contenendo carne, non si potevano definire tali. Il brevetto gli venne accordato dal Regno Unito, dopo la guerra: il 26 giugno 1918 il prodotto “salsicce di soia” fu registrato e il suo brevetto depositato. Una delle dieci invenzioni che in qualche misura si correlano alla grande guerra (si veda qui e si veda qui).

Il caffè: come hanno spiegato gli storici, l’abitudine odierna di far colazione con il caffè deve molto alle battaglia del Piave, fra ’17 e ’18: sino ad allora bevanda borghese, una circolare del regio esercito del novembre 1917, subito dopo lo sfondamento di Caporetto, prevedeva che, per tenere desta e vigile la truppa, al mattino le venissero distribuiti ben otto grammi di caffè e dieci di zucchero. E nel tempo le dosi vennero via via aumentate sino a venti grammi. Gli austriaci risposero con il Kaffeekonserve, caffè liofilizzato inserito nella dotazione individuale, sempre pronto all’uso. Per non parlare delle “scatolette” (burro, tonno, acciughe, alici, sardine, funghi, mortadella – quelle italiane spesso e volentieri decorate con motti patriottici come “Savoia!” o “Antipasto finissimo Trento e Trieste”). Pur sempre progresso è…

Cent’anni dopo, le statistiche ci dicono che in 1569 giorni (dal 28 luglio del ’14 all’11 novembre del ’18) l’Europa annientò un’intera generazione e crollarono gli imperi tedesco, austro-ungarico, ottomano e russo, che il conflitto costò oltre 186 miliardi di dollari statunitensi dell’epoca (la Germania fu obbligata a pagare 64 miliardi in oro e ha estinto il suo debito solo nel 2010), che furono oltre 9 milioni le morti militari e più del doppio i feriti (l’Italia contò più di 1,28 milioni di vittime: oltre 680 mila militari e circa 600 mila civili); oltre 17 milioni le vittime complessive, fra militari e civili. Opinione diffusa è che tale enorme numero di morti militari sia imputabile alla guerra di trincea, che proseguì per anni (è stato calcolato che l’aspettativa di vita media in trincea si aggirasse sulle 6 settimane; sottufficiali e barellieri erano tra i soggetti a maggior rischio). In pratica, solo un 5% fu vittima delle battaglie in senso diretto. Il resto, furono vittime delle conseguenze, dalle ferite alle amputazioni, dalle pessime condizioni igieniche alla cattiva alimentazione allo shell shock, il cosiddetto “vento degli obici”, il nostro disturbo post-traumatico da stress: soldati colpiti dalla sindrome misteriosa palesavano una gran varietà di sintomi – palpitazioni, tremori, paralisi, insonnia, incubi, disturbi della parola, mutismo improvviso; alcuni sembravano perdere la ragione per sempre, altri la recuperavano dopo un periodo di riposo, altri ancora diventavano gli “scemi di guerra”. (Se la letteratura ci ha regalato un esempio tragico di trauma da conflitto col personaggio di Septimus, uno dei protagonisti di Mrs. Dalloway, di Virginia Woolf, pubblicato nel 1925, su Lancet è disponibile un articolo del 1915 sullo shell shock; e sempre su Lancet, come pure sul BMJ e in altre riviste, in occasione del centenario dello scoppio della grande guerra, sono stati pubblicati alcuni articoli sull’uso e abuso di droghe e alcol, sulle patologie diffusesi fra militari e rifugiati). E poi, dalla primavera del ’18 all’inverno del ’20, la concomitante pandemia di spagnola (50 milioni di morti nel mondo)… Paradossalmente, dicono ancora gli storici, se non ci fosse stato tanto sforzo sanitario e di ricerca e di cura, la prima guerra mondiale sarebbe durata assai meno dei quattro anni…

Vale però spendere qui una breve nota su un altro paradosso della grande guerra: perché il conflitto mondiale non solo chiedeva sforzi ma imponeva anche qualche contrappasso alla medicina. Ad esempio, il celeberrimo William Osler nel 1916 mandava in stampa la settima edizione dei Principles and Practice of Medicine senza però riuscire ad aggiornare il capitolo “Traumatic Neuroses” con le conseguenze della guerra sulla salute mentale delle truppe che via via si andavano registrando. Relativamente al diabete, negli anni immediatamente precedenti la guerra, a Bucarest il medico e ricercatore rumeno Nicolae Costantin Paulescu (1869-1931; in letteratura talvolta scritto Paulesco) era riuscito a dimostrare che nei cani gli estratti pancreatici (pancreina) causavano ipoglicemia; il conflitto ritardò la pubblicazione delle sue osservazioni sino al ’21, quando trasmise quattro lettere alla Société de Biologie di Parigi (pubblicate il 23 luglio) per far conoscere scoperta e risultati ottenuti, mentre il 22 giugno inviò un articolato saggio agli Archives Internationales de Physiologie di Liegi, considerato poi il primo lavoro scientifico nonché il primo protocollo clinico per la cura del diabete, pubblicato nel numero del 31 agosto dei medesimi Archives (Paulescu NC. Recherche sur le rôle du pancréas dans l’assimilation nutritive. Arch Intern Physiol 1921;17:85-103; oggi una rarità – in Italia disponibile in sola versione carteca presso alcune biblioteche universitarie). Paulescu brevettò la pancreina il 10 aprile del ’22, ma nel febbraio dello stesso anno il canadese Frederick Grant Banting (1891-1941), medico, e Charles Herbert Best (1899-1978), medico americano-canadese, sotto la guida dello scozzese John James Richard Macleod (1876-1935), biochimico, pubblicarono sul Journal of Laboratory and Clinical Medicine (7[5]:251-66) un articolo sui risultati positivi nella normalizzazione dei livelli glicemici ottenuti su un cane diabetico con l’uso di un estratto pancreatico acqueo: insomma, scoprirono l’insulina. Pur affermando, nel loro lavoro, l’esattezza e il valore dei risultati di Paulescu, nel 1923 Banting e Macleod soltanto ricevettero il Nobel per la medicina mentre il povero Paulescu fu del tutto ignorato (al riguardo, si vedano ad esempio: J Hist Med Allied Sci 1971;XXVI[2]:150-7Endocrinol Nutr 2011;58[9]:449-56Arch Physiol Biochem 1996;104[7]:807-13, JHR 2002;21(1):101-5, l’Historique de la découverte de l’insuline [in Histoire des Sciences Médicales, t. XVII n. 1, 1993] e Av Diabetol 2009;25:154-62, nonché quanto disponibile sulla Fundatia Paulescu).

Fine della nota. Se guardiamo invece al dopo, ad esempio alla seconda guerra mondiale, curiosamente possiamo dire che senza di essa non avremmo la penicillina: scoperta nel 1928 da Fleming, solo con la guerra venne presa seriamente in considerazione e somministrata alle truppe. Ma soltanto a quelle Alleate, ché i tedeschi non avevano la penicillina. I quali, per contro, condussero una serie terribile di esperimenti di cui la medicina successiva ha attinto a mani basse… E poi via con le guerre successive, Corea, Vietnam, Afghanistan, Golfo, Iraq: armi ancora più sofisticate, proiettili radioattivi, bombe intelligenti, uso degli elicotteri per il soccorso, medicina da campo sempre più attrezzata e tecnologica, patologie da radiazioni…

Ci fermiamo qui, consci che sì, come sostengono gli antropologi, anche la grande guerra – come tutte le guerre – ha (purtroppo) determinato un enorme avanzamento tecnologico (la guerra, “peggior male possibile”, è “il motore o volano di ricerche, sperimentazioni, applicazioni e pratiche medico-sanitarie” ha scritto Cosmacini), contribuendo in modo significativo allo sviluppo della medicina. Ippocrate volente o nolente…


Nel centenario della prima guerra mondiale segnaliamo (fra il molto disponibile):

  • Europeana 1914-1918
    Progetto internazionale cofinanziato dall’Unione Europea, riunisce materiale proveniente dalle biblioteche e dagli archivi di tutto il mondo ai ricordi e cimeli delle famiglie europee.
  • 14-18 Documenti e immagini della grande guerra
    Voluto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in collaborazione con altri enti e istituti, è un grande archivio di immagini di straordinario interesse storico che consente la conoscenza e la valorizzazione di collezioni possedute da istituzioni diverse, tra cui archivi, musei, biblioteche.
  • Guerra 15-18: L’Università di Torino e la grande guerra
    Fonti archivistiche, bibliografiche e museali documentano il contributo dell’ateneo torinese all’innovazione – indotta e accelerata dallo sforzo bellico – in campo sociale e culturale, ma anche e soprattutto scientifico e medico. La collezione include le pubblicazioni del corpo accademico nel decennio 1914-1924 influenzate dalla guerra, le immagini degli aspiranti piloti selezionati dal Laboratorio dell’Istituto di Fisiologia, i volti e le vite degli studenti caduti al fronte, il contributo all’assistenza dei combattenti al conforto dei prigionieri; nella sezione “Documenti”, ciò che di medico-scientifico si produsse in quegli anni. Parte del materiale documentario della mostra è confluito anche nel portale nazionale 14-18 Documenti e immagini della grande guerra, curato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
  • Due contributi della Rivista della NATO:

Was World War I good for medicine? 

Fotostoria: cosa poteva aspettarsi un soldato della prima guerra mondiale

Qualcosa da leggere per saperne di più:

  • Per un rapido quadro demografico, sociale, medico, igienico-sanitario, occupazionale complessivo del periodo della grande guerra e degli anni immediatamente successivi, si veda: La grande guerra degli italiani, una poliedrica, sintetica analisi proposta da F. Carnevale sulla rivista Epidemiologia & Prevenzione (Epidemiol Prev 2014;38:399-400)
  • Cosmacini G. Guerra e medicina. Dall’antichità a oggi. Bari-Roma, 2011
  • AA.VV. Malattia e medicina durante la grande guerra 1915-1919. A cura di Grando E. Udine 2009
  • Lenci G. Caduti dimenticati. I morti per malattie. In Leoni-Zadra (a cura di), La grande guerra. Esperienza, memoria, immagini. Bologna 1986
  • De Napoli D. La sanità militare italiana durante la grande guerra. Roma 1989
  • Galasso M. www.cimeetrincee.it (25/08/2005)
  • Cappellano F, Di Martino B. La guerra dei gas: le armi chimiche sui fronti italiano e occidentale nella grande guerra. Valdagno 2006
  • Gigante V, Kocci L, Tanzarella S. La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla prima guerra mondiale. Viareggio 2015
  • Isnenghi M. Il mito della grande guerra. Bologna 2014
  • McCallum JE. Military Medicine. From Ancient Times to the 21st Century. 2008
  • AA.VV. Aspetti sanitari della grande guerra 1915-1918 sul fronte vicentino
  • Itinerari della grande guerra
  • Trentino Grande Guerra
  • Museo di Caporetto
  • Statistiche: ve ne sono diverse e di fonti differenti, con numeri a volte assai difformi a causa delle modalità dei conteggi (decisamente difficili e complessi per quanto riguarda la grande guerra). Per una rapida visione d’insieme segnaliamo quelle online di Wikipedia e dei suoi riferimeni bibliografici e quelle di necrometrics (Part of the Historical Atlas of the 20th Century di Matthew White)
  • Caduti e dispersi della grande guerra – banca dati del Ministero della Difesa
Nota: le immagini e i video riportati in questo articolo hanno il solo scopo di contribuire a un quadro visivo complessivo il più aderente possibile alla realtà della terribile esperienza che fu la grande guerra e sono tratti/e da internet e provengono da fonti varie: dal Ministero della Difesa allImperial War Imperial Museum, agli archivi familiari od online di personaggi storici o, ancora, messi appositamente online in occasione del centenario del primo conflitto mondiale da istituzioni, musei, enti, agenzie, studiosi, ecc., tutti di libero accesso e consultazione. Per citarne alcune: le immagini grandi che inframmezzano il testo sono tratte dal sito del Giornale italiano di medicina. Quella dei “medici a concentrarsi sulle infezioni” è tratta dal sito del Museo Storico e civico di Maserada sul Piave, quella sul “piede da trincea” dal sito Lexington Podiatry. Quella della battaglia di Verdun è tratta dall’archivio dell’ECPAD (Etablissement de communication et de production audiovisuelle de la défense). La prima immagine di quelle dedicate alla penuria di carne (si tratta di donne italiane che aiutano soldati britannici a spennare tacchini) è derivata dagli archivi dellImperial War Musem, come pure quella del sottomarino (U-boat) tedesco e di F.D. Wood. L’immagine riferita al laboratorio di Anna Coleman Ladd pare essere di un fotografo sconosciuto dellAmerican Red Cross e fa parte degli Anna Coleman Ladd papers, circa 1881-1950 conservati presso gli Archives of American Art, Smithsonian Institution. La fotografia del dirigibile Zeppelin è tratta dalla United States Library of Congress. Quella di Ypres, che riprende alcuni prigionieri tedeschi che indossano maschere antigas nell’aprile 1915, è un’immagine della Canadian Press. Quelle delle pubblicazioni sulla “cancrena gasosa” o sulle “amputazioni” derivano dal sito della mostra virtuale “Guerra 15-18: L’Università di Torino e la grande guerra” su mezionato. Quella del Decalogo del soldato ferito è un documento del Museo civico del Risorgimento; quella delle Istruzioni per l’uso dello spidocchiatoio da campo è un documento conservato presso il Museo del Sacrario militare di Asiago; entrambe e quella sulla conferenza sui Traumi e ferite in genere in guerra sono tratte dal sito citato: www.centenario1914-1918.it. Quella dei soldati italiani severemente denutriti e debilitati imprigionati nel campo austriaco di Sigmundsberg (o Sigmundsherberg) è stata pubblicata da Valerio Gigante, Luca Kocci e Sergio Tanzarella nel volume indicato nei consigli di lettura qui sopra. L’immagine riferita all’insulina deriva dallarchivio del Toronto Daily Star posta a corredo di un articolo pubblicato sul sito www.thestar.com. La versione cartacea dellormai raro articolo di Paulescu qui proposta (da notare, come detto, che il nome dellautore è Paulesco) è conservata nelle collezioni della Biblioteca del Polo biologico, Dipartimento di Neuroscienze “Rita Levi Montalcini”, dell’Università degli studi di Torino. La Redazione si augura in qualsiasi caso di non aver leso i diritti di alcuno e ringrazia in anticipo per le segnalazione del caso.