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Il linguaggio della scienza? Essendo

Intervista a Piero Bianucci, un umanista che si occupa di scienza per il quale la chiarezza dovrebbe essere un obiettivo di chiunque voglia o debba comunicare qualcosa


di Marco Comoglio

Autore di una trentina di libri di divulgazione scientifica, molti dei quali tradotti in altri paesi, ha pubblicato anche un romanzo (Benvenuti a bordo, Rusconi, 1995) e racconti (L’uovo del futuro, Simonelli, 1996). Del 1999 sono l’Atlante della Terra (Utet) e La Luna, dallo sbarco alla colonizzazione (Giunti). Del 2003 Il piccolo cielo (Simonelli). Autore per la Rai di numerosi programmi radiofonici e televisivi, dal 1982 collabora con Piero Angela. Tra i premi ricevuti, il Saint Vincent, Futuro Intelligente, Formit, tre Glaxo (per un libro, per il giornalismo e per la radio). Cura molte iniziative e mostre scientifiche ed è presidente del Comitato per realizzare a Torino uno Science Center simile all’Exploratorium di San Francisco.Piero Bianucci, torinese, laureatosi in filosofia nel 1967 con Luigi Pareyson, è redattore capo a La Stampa, dove da oltre vent’anni anni è il responsabile del supplemento “Tuttoscienze”

Dott. Bianucci, nell’introduzione al suo libro Piccolo, Grande, Vivo, Tullio Regge ci dice che non sempre la divulgazione scientifica, fatta da uno scienziato professionista, riesce ad essere comunicativa perché influenzata dal suo ruolo. Che cosa ha spinto lei, di estrazione umanistica, a occuparsi con tanta passione di scienza fino a diventane un divulgatore di grande chiarezza?
Talvolta lo scienziato si preoccupa troppo di scrivere per i colleghi anziché per il lettore comune. Ma la chiarezza dovrebbe essere un obiettivo di chiunque voglia o debba comunicare qualcosa. Anni fa il “Corriere della Sera” ospitò un dibattito tra scrittori e scienziati che aveva per tema proprio la trasparenza della comunicazione. Inutile dire che presto il dibattito sconfinò nella polemica. Mise la parola fine Primo Levi, bravo chimico industriale, ottimo scrittore ed eccezionale testimone, con una affermazione lapidaria: “Scrivere e parlare con chiarezza è semplicemente buona educazione”. Niente di più. Ma anche niente di meno. In effetti farsi capire è innanzi tutto una forma di rispetto per chi ci ascolta. Farsi capire bene. La chiarezza, paradossalmente, è più frequente tra gli scienziati che tra gli umanisti. È vero: gli umanisti dovrebbero per loro natura e formazione padroneggiare meglio la lingua e quindi comunicare con più efficacia. Ma in concreto non è così. L’aver a che fare con idee e concetti spesso esposti a interpretazioni diverse e contrastanti, non favorisce letterati, artisti e filosofi. Per non parlare di chi in malafede parla e scrive oscuro per nascondere il poco che ha da dire. Invece gli scienziati partono da un linguaggio “definitorio”, che riduce in partenza al minimo le ambiguità. Così, appassionato di astronomia fin da ragazzino, mi è parso naturale coltivare una curiosità scientifica che ho sempre conservato anche quando frequentavo, a Torino, la facoltà di Lettere a palazzo Campana. E altrettanto naturale mi è venuto scrivere di queste cose. La chiarezza era già nelle premesse. Basta tradurre gli eccessivi tecnicismi del linguaggio scientifico in parole più comuni – tradurre dall’italiano all’italiano, dice Piero Angela – e il gioco è fatto.

Come lettore e come addetto ai lavori ho l’impressione che troppo spesso l’informazione “generalista” medico-scientifica miri più all’effetto “scoop” che alla reale veridicità della notizia e alla evidenza dei risultati e che, talvolta, “traduca” male il linguaggio specialistico con un linguaggio troppo semplicistico , di mero effetto. Questo può avere effetti molto negativi. Dal suo punto di vista come riesce a conciliare il problema del “ fare notizia” (forse indispensabile per il giornalismo “generalista”), con l’attendibilità dei risultati e la verifica delle fonti?
Intanto non è detto che sempre ci riesca. Né che sempre me lo lascino fare. Spesso nei giornali chi decide pensa alla curiosità della notizia scientifica (o al clamore) più che alla sua comunicazione equilibrata. In ogni caso, aiuta a raggiungere un buon risultato: 1) rifarsi sempre e solo a fonti primarie (pubblicazioni su riviste con referee, ricercatori, comunicati di istituzioni e laboratori quotati internazionalmente) e non accontentarsi delle agenzie di stampa o di Internet; 2) farsi aiutare nella valutazione da un ricercatore attivo nello stesso settore scientifico nel quale rientra la notizia; 3) non presentare mai i risultati annunciati come definitivi e dogmatici ma piuttosto come il punto di arrivo provvisorio di un percorso di ricerca. Dopodiché, per fortuna, le discipline scientifiche, e in particolare la medicina, quasi sempre forniscono notizie “forti” in sé: basti dire che rimangono valide per anni o decenni, mentre le notizie di politica, sport, spettacoli o cronaca raramente superano le 24 ore.

In primavera a Roma si è tenuto un primo incontro tra la Federazione Nazionale della Stampa e AMD sull’etica dell’informazione in campo sanitario per cercare di mettere a punto un protocollo di intesa finalizzato a rendere il giornalista non soltanto il soggetto che “fornisce” la notizia ma anche il collaboratore, col giornalista, nella responsabilizzazione del paziente alla malattia. Ritiene che tale tipo di collaborazione sia fattibile e possa essere utile a una migliore gestione della propria malattia per chi ne è colpito?
Credo che questa linea sia possibile e che vada perseguita. Ma con cautela, ognuno nel rispetto assoluto del ruolo altrui. E soprattutto del lettore, e quindi del paziente. Dovremmo adattare la norma etica della “Critica della Ragion Pratica” kantiana: “guarda sempre al lettore, o al paziente, come a un fine e non come a un mezzo”. Il problema più grave, però, rimane quello della confusione che molti giovani professionisti fanno tra informazione e promozione. Gli uffici stampa generalisti, assoldati in occasione di convegni o per gestire le relazioni di ospedali, case farmaceutiche e così via, sono disastrosi dal punto di vista di una informazione corretta e onesta.. C’è poi tutto il capitolo delle pressioni che certe multinazionali del farmaco esercitano su medici e giornalisti: Marco Bobbio le ha denunciate senza mezzi termini in un suo libro recente. Insomma: si sente il bisogno di un giornalista (e di un medico) che riscoprano i valori etici e professionali. Ma i tempi in cui viviamo non aiutano.

Nel mondo del “Grande fratello” e dell’“Isola dei Famosi” è molto bello che ci sia qualcuno che riesce a guardare le stelle e a stimolarci ad interessarci ad un pianeta che si chiamerà Carmagnola. Lei, come umanista che si occupa di scienza, pensa che l’informazione scientifica divulgata in maniera accessibile possa aiutare a riportare l’attenzione delle persone su valori più veri?
Ne sono sicuro. Ho già accennato alla “durata” della notizia scientifica rispetto a tutte le altre notizie. Ma c’è di più. Facendo informazione scientifica si finisce inevitabilmente con il trasmettere anche qualche consapevolezza del metodo sperimentale che i ricercatori applicano. Il percorso osservazione-ipotesi-esperimento-esperimento indipendente-pubblicazione rappresenta un insieme di norme condivise da tutta la comunità scientifica. I ricercatori potranno dividersi su interpretazioni, valutazioni, ipotesi e anche su certi risultati non ancora consolidati, ma sempre si riconosceranno nel metodo scientifico. Ecco: l’esempio di una comunità che discute anche duramente ma sulla base di regole condivise mi pare il valore più importante. Pensate come sarebbe migliore il mondo se questo stile passasse nella politica!