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Il mio grasso, grosso… scompenso cardiaco

Punti chiave

Domanda: Com’è possibile giustificare il “paradosso dell’obeso” nell’ambito dello scompenso cardiaco? In altre parole, perché i pazienti obesi hanno un maggior rischio di sviluppare scompenso cardiaco, ma anche una prognosi migliore rispetto ai controlli magri?

Risultati: Uno studio retrospettivo, condotto in Ohio (USA) su pazienti ricoverati per scompenso cardiaco acuto, ha analizzato la tipologia e la distribuzione del tessuto adiposo mediante tomografia computerizzata toraco-addominale, rilevando una mortalità ridotta nei soggetti con adiposità sottocutanea prevalente. Infatti, l’adipe viscerale, a differenza di quello superficiale, sembra associarsi maggiormente con lo stato proinfiammatorio e protrombotico.

Significato: Una caratterizzazione più raffinata della composizione corporea è necessaria per comprendere meglio il ruolo fisiopatologico assunto dal tessuto adiposo e stratificare correttamente il rischio cardiologico del paziente obeso.


A cura di Marina Valenzano

6 novembre 2023 (Gruppo ComunicAzione) – Lo studio condotto da Mirzai et al. presso il centro medico universitario di Cleveland (Ohio, USA) e recentemente ripreso dall’editoriale “It’s a matter of fat” (letteralmente, “È questione di grasso”), pubblicato da Hannah R. Smith (Leeds Institute of Cardiovascular and Metabolic Medicine, School of Medicine University of Leeds, UK) et al. sull’American Journal of Cardiology (1), vuole fare luce sul misterioso “paradosso dell’obeso”. L’obesità si accompagna infatti a un aumentato rischio di sviluppare scompenso cardiaco, sia diastolico sia sistolico, ma anche, inaspettatamente, a una prognosi migliore (in termini di ridotta mortalità) rispetto a quanto osservato nei soggetti magri.

Il primo problema nell’affrontare questo interessante quesito consiste proprio nella definizione clinica di obesità, che si basa sull’indice di massa corporea (body mass index, BMI), un parametro che non permette di differenziare il contributo della massa muscolare, il sottotipo di tessuto adiposo (bianco o bruno), la sua localizzazione e/o gli aspetti metabolici e funzionali. Anche la misurazione della circonferenza vita, sebbene correli con il grasso viscerale, non consente una definizione precisa della distribuzione. Nello studio statunitense, gli autori suddividono quindi l’adiposità in sottocutanea (subcutaneous adipose tissue index, SATI), viscerale (visceral adipose tissue index, VATI) e intermuscolare in percentuale (intermuscolar adipose index percentage, IMAT%), con riferimento al muscolo scheletrico.

Gli indici sono ottenuti mediante valutazione tomografica (considerata gold standard, al pari della risonanza magnetica, e preferibile rispetto a impedenzometria e densitometria a raggi X) a livello della terza vertebra lombare. In mancanza di soglie diagnostiche universalmente riconosciute per la definizione di obesità, sono stati adottati i seguenti range densitometrici (in unità Hounsfield): da -150 a -50 per VATI, da -190 a -30 per SATI e da -29 a 150 per il muscolo scheletrico.

Lo studio clinico di Saeid Mirzai (Section on Cardiovascular Medicine, Dept. of Internal Medicine, Wake Forest University School of Medicine, Winston-Salem, NC; USA) et al. (2) ha esaminato in modo retrospettivo 200 pazienti ricoverati consecutivamente nel biennio 2017-2018 per scompenso cardiaco acuto, indipendentemente dalla frazione di eiezione. Il BMI, l’adiposità totale (TATI) e l’indice VATI, singolarmente, non hanno fatto registrare associazioni rilevanti con la mortalità per tutte le cause, mentre il solo SATI si accompagnava a outcome più favorevoli (HR 0,58, IC 95% 0,39-0,87, p = 0,008) rispetto a quanto osservato nei controlli magri. IMAT% sembra invece associato a un’aumentata mortalità, da porre in relazione con quadri di sarcopenia e non di obesità.

L’accoppiata “basso VATI + alto SATI” si è rivelata particolarmente protettiva (HR 0,32 e 0,36 a 1 e 4 anni) ed esplicativa per quanto riguarda il “paradosso dell’obeso”. Si ipotizza infatti che VATI sia responsabile dello stato proinfiammatorio (con produzione di citochine quali TNFα e IL-6), mentre SATI abbia effetti metabolici benefici riconducibili alla produzione di leptina. Nessuno degli indici di adiposità ha dimostrato correlazione, invece, con i valori di NT-pro-BNP.

Il fenotipo con scompenso cardiaco a frazione di eiezione preservata (HFpEF) è risultato associato a TATI e SATI elevati, sebbene studi precedenti abbiano dimostrato la relazione opposta, tra ospedalizzazione per HFpEF e VATI.

Infine, in uno sforzo scientifico che mira alla medicina di precisione, non poteva mancare una valutazione della distribuzione per età e genere, risultati predittori non dirimenti per mortalità. Tuttavia, il sesso femminile (teoricamente meno esposto alla deposizione di VAT, in assenza di iperandrogenismo) presentava l’abbinamento “giusto” di alto SATI e basso VATI il cui effetto protettivo potrebbe essere stato mitigato da un elevato IMAT%, quindi da uno stato di infarcimento e sarcopenia, più frequenti nella donna.

Tra i limiti dello studio possono essere annoverati la mancata valutazione del grasso epicardico (EpiVATI) e del tessuto adiposo bruno (brown adipose tissue, BAT).

Infine, il ruolo metabolico dei vari tipi di tessuto adiposo potrebbe attuarsi diversamente a seconda della collocazione corporea, in un ambito di “cross-talk” energetico adiposo-muscolare.


1) Editoriale

2) Articolo originale

Pubmed – Articolo originale


AMD segnala articoli della letteratura internazionale la cui rilevanza e significato clinico restano aperti alla discussione scientifica e al giudizio critico individuale. Opinioni, riflessioni e commenti da parte degli autori degli articoli proposti non riflettono quindi posizioni ufficiali dell’Associazione Medici Diabetologi.