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Nuove frontiere immunitarie nella terapia del diabete tipo 1: dove siamo diretti?

Punti chiave

Domanda: Qual è l’efficacia delle terapie immunomodulanti nel preservare la funzione residua delle cellule beta nei pazienti con diabete tipo 1 di nuova diagnosi (stadio 3)?

Risultati: Una revisione sistematica con network metanalisi, pubblicata recentemente su BMC Medicine, ha valutato 60 trial con 4597 pazienti e 32 classi di intervento. 11 trattamenti hanno mantenuto livelli di C-peptide significativamente più alti rispetto al placebo, dopo 12 mesi, anche se con notevole eterogeneità (I² = 66%). I trattamenti ritenuti efficaci comprendevano: cellule staminali mesenchimali (autologhe e derivate da gelatina di Wharton), azatioprina, interferone-alfa, cellule dendritiche autologhe, golimumab anti-TNF, ATG a basso dosaggio, diverse dosi di teplizumab anti-CD3, baricitinib e ciclosporina.

Significato: I risultati della revisione individuano 11 terapie promettenti, offrendo una guida per i futuri trial clinici volti a supportare l’approvazione di trattamenti per il diabete tipo 1 di nuova diagnosi. Tuttavia, alcuni dati provengono da studi piccoli e i risultati devono essere considerati come ipotesi da approfondire e interpretati con cautela.


22 luglio 2025 (Gruppo ComunicAzione) – A cura di Olimpia Iacono

Che cosa si sa già? Il diabete tipo 1 (DT1) è una malattia autoimmune cronica causata dalla distruzione delle cellule beta pancreatiche. Al momento della diagnosi una parte significativa di tali cellule è ancora funzionante. Preservarne la funzione residua dà luogo a un miglior controllo glicemico e minor rischio di complicanze microvascolari. Fra le terapie che mirano a preservare la funzione delle cellule beta, soltanto una, il teplizumab, ha già ricevuto l’approvazione dalla FDA per ritardare l’esordio del DT1 in soggetti predisposti. Tuttavia, negli ultimi quarant’anni numerosi studi clinici hanno testato terapie immunomodulanti su questo fronte. Il razionale si fonda sull’idea che il sistema immunitario abbia un ruolo centrale nella genesi della patologia, sia per il fallimento nella regolazione immunitaria sia per la distruzione infiammatoria delle cellule beta. L’interesse per tali terapie deriva anche dal loro successo nel trattamento di altre malattie autoimmuni.

Quali sono le nuove evidenze? Recentemente è stata pubblicata su BMC Medicine una revisione sistematica con network metanalisi (NMA) degli studi clinici randomizzati controllati che hanno valutato terapie immunomodulanti in persone con nuova diagnosi di DT1, al fine di confrontare l’efficacia relativa di questi interventi sulla produzione residua di C-peptide. Sono stati inclusi tutti i trial clinici randomizzati registrati entro il 31 luglio 2024, senza restrizioni di lingua o data di pubblicazione, e considerati eleggibili se includevano adulti o bambini con DT1 diagnosticato da massimo 3 anni, assegnati in modo casuale a terapie immunomodulanti o al comparator (placebo o nessun trattamento).

L’outcome primario considerato è stato la funzione delle cellule beta, misurata con il dosaggio del C-peptide, dopo 12 mesi di osservazione, riportato come differenza media standardizzata.

Gli outcome secondari comprendevano il fabbisogno insulinico, il controllo glicemico (HbA1c) e gli eventi avversi. Sono quindi stati inclusi 60 studi (4597 pazienti, 32 classi di intervento) di cui 41, relativi a 42 trattamenti, sono risultati idonei per condurre la network metanalisi.

I risultati dicono che, a 12 mesi, 11 interventi hanno mostrato livelli di C-peptide significativamente più elevati rispetto al placebo a 12 mesi. Questi, in ordine di efficacia, sono: azatioprina, interferone-alfa (5000 UI), cellule dendritiche autologhe, cellule staminali mesenchimali (autologhe), golimumab (anti-TNF), cellule MSC da gelatina di Wharton, ATG a basso dosaggio, teplizumab (anti-CD3; 3 mg, 1 ciclo, e 9/11 mg, 2 cicli), baricitinib, ciclosporina.

È tuttavia importante interpretare questa “classifica” con cautela, poiché per alcune terapie (es. cellule staminali) i dati provengono da piccoli studi pilota, non progettati per valutarne l’efficacia, oppure da un solo studio disponibile (es. golimumab, baricitinib, azatioprina, interferone-alfa).

Relativamente agli outcome secondari: 35 studi inclusi nell’analisi principale sul C-peptide sono stati analizzati anche per il fabbisogno insulinico, e 37 per l’HbA1c.

  • La maggior parte degli studi non ha evidenziato differenze significative nella dose giornaliera di insulina(una modesta, ma significativa riduzione della dose, è stata osservata soltanto con CTLA4 [cytotoxic T-lymphocyte antigen 4: recettore appartenente alla superfamiglia delle Ig espresso sui linfociti T CD4+ e CD8+ attivati], golimumab, baricitinib e teplizumab). CTLA4 ha ridotto la dose giornaliera di insulina di -0,18 UI/kg/giorno (IC 95%: da -0,35 a -0,01), con un ranking mediano di 5 UI (IC 95%: 1-21), ma non ha mostrato miglioramenti significativi nei livelli di C-peptide.
  • Per quanto riguarda l’HbA1c, diverse terapie hanno mostrato una riduzione, ma solo due hanno raggiunto la significatività statistica rispetto al comparator: ATG a basso dosaggio: -0,91% (IC 95%: da -1,59 a -0,22%), CTLA4: -0,57% (IC 95%: da -1,12 a -0,02%)

Gli eventi avversi sono stati generalmente lievi e variabili. Alcuni disturbi minori, come linfopenia o sindrome da rilascio di citochine, erano prevedibili e transitori.

I punti di forza di questo studio includono:

  • revisione sistematica molto ampia, con inclusione di molti studi clinici randomizzati e interventi;
  • considerazione di diversi dosaggi terapeutici;
  • uso innovativo della NMA per confrontare molteplici interventi e classificazione di questi ultimi in ordine di efficacia

Alcuni limiti includono:

  • sostanziale eterogeneità nei risultati (I² = 66%);
  • mancata considerazione di tutti i possibili modificatori di effetto;
  • mancata corrispondenza tra effetti delle terapie sui livelli di C-peptide e benefici su controllo glicemico e su dose di insulina giornaliera.

Sintesi e spunti per la pratica clinica. Alcuni interventi si sono dimostrati efficaci nel preservare la funzione delle cellule beta dopo 12 mesi di trattamento, rispetto al placebo o alla sola sorveglianza, ma sono necessarie ulteriori prove scientifiche a conferma di tali dati. I risultati devono essere interpretati con cautela a causa di incertezze statistiche legate all’eterogeneità degli studi esaminati. Molte delle terapie considerate non possono ancora essere adottate nella pratica clinica, ma sono stati individuati gli interventi che maggiormente meritano di essere approfonditi da futuri studi clinici (di confronto diretto e di alta qualità), per individuare le strategie terapeutiche veramente efficaci nella prevenzione e nella cura del DT1 di recente diagnosi.


LEGGI E SCARICA L’ARTICOLO ORIGINALE: BMC Med 2025;July 1;23(1):351

PubMed


 

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