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Programmi di terapia comportamentale e diabete mellito tipo 2: risultati di una revisione sistematica e di una network metanalisi

A cura di Sara Colarusso

15 febbraio 2016 (Gruppo ComunicAzione) – Gli approcci di terapia educazionale finalizzati all’empowerment della persona con diabete rivestono ormai un ruolo cruciale nel percorso assistenziale di cura, migliorandone gli outcome; è noto infatti che uno stretto controllo glicemico può ridurre il rischio di complicanze microvascolari nel diabete mellito tipo 2 (DMT2), ma è pur vero che una gestione comportamentale oltre che farmacologica del peso, della pressione arteriosa, del profilo lipidico è necessaria per ridurre il rischio di mortalità e di complicanze macrovascolari.

Fra i consigli e le raccomandazioni da fornire alle persone con diabete è predominante il ruolo dell’educazione e della formazione del paziente per invitarlo ad adottare comportamenti sani sia per una corretta alimentazione, sia per l’attività fisica, così come per l’autocontrollo, l’aderenza alle terapie farmacologiche prescritte e per la riduzione di tutti gli altri fattori di rischio.

Diverse evidenze scientifiche ci dimostrano come solo trasmettere le conoscenze non sia sufficiente a indurre dei cambiamenti comportamentali; ragion per cui il più recente orientamento educazionale privilegia un approccio incentrato sul paziente, che non preveda dunque solo strumenti didattici classici, bensì metodi interattivi e di problem solving, e altre tecniche patient-tailored, che tengano conto dei bisogni e del vissuto della persona.

Sebbene esistano diversi tipi di programmi di terapia comportamentale potenzialmente efficaci, non ci sono risultati chiari su quali o piuttosto per quale combinazione di essi possa apportare un maggior beneficio.

Una recente review sistematica di J. Pillay (Canada) e coll., pubblicata su Annals of Internal Medicine, propone un metanalisi a rete per individuare i fattori che possono determinare la validità dei programmi di intervento educazionale in pazienti adulti con DMT2, con lo scopo di indagare meglio gli effetti sia positivi che limitanti dei vari interventi terapeutici proposti e ottimizzarne l’efficacia in termini di outcome. Gli autori hanno estrapolato i dati da 6 database (dal 1993 al gennaio 2015), atti di convegni (dal 2011 al 2014) e raccolte bibliografiche, selezionando 132 studi randomizzati controllati che valutavano programmi di terapia comportamentale rispetto al trattamento convenzionale, a controlli attivi o programmi comportamentali diversi (per i quali si è inteso qualsiasi altro intervento non corrispondente alla seguente definizione di terapia comportamentale: un programma multidisciplinare fatto di più incontri ripetuti, per almeno 4 settimane, con personale qualificato e secondo definiti protocolli di educazione terapeutica in tema di alimentazione, attività fisica o altre aree inerenti alla gestione della malattia). Un reviewer ha estratto i dati e un secondo li ha verificati. Altri due revisori hanno invece valutato indipendentemente il rischio di bias.

I diversi programmi di terapia comportamentale sono stati raggruppati sulla base del contenuto del programma e delle modalità di somministrazione. Una metanalisi a rete bayesiana ha mostrato che la maggior parte dei programmi di educazione e supporto al corretto stile di vita e all’autogestione del diabete (che generalmente offrono ≥11 ore di contatti) conducevano a miglioramenti clinicamente significativi nel controllo glicemico (riduzione dell’HbA1c ≥0,4%), mentre la maggior parte degli stessi programmi di educazione, ma in assenza di supporto specialistico, offrivano pochi benefici (specialmente quelli che offrivano 10 o meno ore di contatto diretto). I programmi di maggiore efficacia si avvalevano generalmente di personale specializzato piuttosto che della tecnologia. I programmi di modifica dello stile di vita realizzavano il maggior calo in termini di indice di massa corporea. Le riduzioni nel valore di HbA1c sembravano inoltre essere maggiori in soggetti con un livello di HbA1c al basale ≥7,0%, negli adulti di età inferiore ai 65 anni e nelle minoranze (sottogruppi con ≥75% dei partecipanti non di razza bianca).

Nella revisione vanno considerati gli elementi limitanti, ossia che tutti gli studi presentavano un rischio medio-alto di bias; le analisi dei sottogruppi erano indirette e pertanto esplorative; e la maggior parte degli outcome facevano riferimento ai valori immediatamente successivi agli interventi, ovvero la maggior parte degli studi includevano un periodo di follow-up non superiore ai 6 mesi.

Gli autori concludono pertanto che l’efficacia dei programmi di educazione all’autogestione del diabete sul controllo glicemico dipende dall’intensità dei programmi e dalle modalità di somministrazione nonché dal personale coinvolto; programmi che prevedono tempi maggiori di contatto e personale specializzato hanno dimostrato di apportare sostanziali benefici, più evidenti peraltro in soggetti con controllo glicemico iniziale non ottimale o scarso rispetto a quelli in buon compenso.

Appare inoltre opportuno e necessario adeguare e personalizzare i programmi educazionali tenendo conto delle minoranze etniche, così come stratificare i pazienti in relazione alle fasce d’età. Il supporto tecnologico, seppure non vantaggioso rispetto al coinvolgimento del personale sanitario nel somministrare i programmi comportamentali, potrebbe rappresentare una valida opzione per raggiungere particolari sottogruppi di pazienti difficili da coinvolgere con contatti diretti.

 

Ann Intern Med 2015;163:848-60

PubMed


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