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Ritardare l’insorgenza del diabete tipo 1 in soggetti ad elevato rischio: effetti di teplizumab

A cura di Miryam Ciotola

8 luglio 2019 (Gruppo ComunicAzione) – Il diabete mellito tipo 1 (DMT1) è una malattia cronica autoimmune che comporta la distruzione delle beta-cellule pancreatiche produttrici di insulina, costringendo i pazienti alla dipendenza dall’insulina esogena per la sopravvivenza. Alcuni studi hanno già dimostrato la possibilità di intervenire sulla progressiva perdita della produzione di insulina nei pazienti con DMT1, ma sarebbero auspicabili altri tipi di intervento, capaci di influire sulla progressione della malattia, prima ancora che si manifesti clinicamente.

Nelle persone geneticamente predisposte, il DMT1 progredisce infatti attraverso fasi asintomatiche prima dello sviluppo di iperglicemia conclamata, e tra queste, il primo stadio è caratterizzato dalla comparsa di autoanticorpi e solo successivamente, in seconda fase, da disglicemia. In questa seconda fase le risposte metaboliche ai picchi di glicemia sono compromesse, ma altri parametri metabolici, come ad esempio il livello di emoglobina glicosilata, rimangono normali e il trattamento con insulina non è necessario. Svariati studi ormai hanno confermato che alcune caratteristiche immunologiche e metaboliche possono consentire l’identificazione delle persone ad alto rischio per sviluppo della malattia, prima che si manifesti clinicamente; l’iperglicemia conclamata, una volta sviluppatasi, richiede necessariamente il trattamento con insulina.

Sono stati recentemente pubblicati sul New England Journal Medicine i risultati di un trial clinico di fase 2, randomizzato, controllato con placebo, in doppio cieco, con teplizumab, anticorpo monoclonale anti-CD3, riscontrato nei familiari di pazienti con DMT1, non affetti da diabete ma a elevato rischio di sviluppare la malattia (1). Nello studio, condotto da Kevan C. Herold (Yale University, New Haven, CT; USA) e coll., i pazienti sono stati randomizzati a 14 giorni di terapia con teplizumab o placebo e il follow-up per la progressione al DMT1 clinicamente manifesto è stato eseguito con l’uso di test di tolleranza al glucosio orale, a intervalli di 6 mesi.

Un totale di 76 partecipanti (tra questi 55 [72%] di età ≤18 anni) che presentavano almeno due tipi di autoanticorpi diabete-correlati e un’alterata tolleranza al test da carico di glucosio, sono stati randomizzati: 44 al gruppo avviato alla terapia con teplizumab e 32 al gruppo placebo. Il tempo medio per giungere alla diagnosi di DMT1 manifesto è stato di 48,4 mesi nel gruppo trattato con teplizumab e di 24,4 mesi nel gruppo placebo; la malattia è stata diagnosticata in 19 (43%) dei partecipanti che avevano ricevuto teplizumab e in 23 (72%) di quelli avviati al placebo. L’hazard ratio per la diagnosi di DMT1 (teplizumab vs placebo) è stato di 0,41 (intervallo di confidenza 95%; p = 0,006, aggiustato secondo il modello a rischi proporzionali di Cox). La percentuale di pazienti che ogni anno ha ricevuto diagnosi di diabete era del 14,9% per anno, nel gruppo teplizumab, e del 35,9% per anno nel gruppo placebo. Sono stati registrati eventi avversi attesi di rash e linfopenia transitoria. Tra i partecipanti che erano HLA-DR3-negativi, HLA-DR4-positivi, o anticorpi anti-trasportatore 8 dello zinco negativi, un minor numero di partecipanti nel gruppo teplizumab rispetto al gruppo placebo riceveva la diagnosi di diabete.

In conclusione, teplizumab ha ritardato la progressione al DMT1 manifesto nei partecipanti allo studio, ad alto rischio di malattia. In uno studio precedente, l’anticorpo si era dimostrato efficace nel rallentare la perdita di beta-cellule in pazienti che avevano sviluppato di recente DMT1 clinicamente manifesto (2).

Fino a ora però, scrive nel lavoro Kevan C. Herold, il farmaco non era mai stato testato in persone che non avevano ancora malattia clinica e che potrebbero beneficiare di uno screening ed eventuale trattamento precoce. Al momento, gli autori stessi del lavoro invitano alla prudenza. Occorreranno ulteriori studi per comprendere con certezza i meccanismi di azione del farmaco, la sua efficacia a lungo termine e soprattutto, la sicurezza del trattamento.


1. N Engl J Med. 2019 Jun 9. doi: 10.1056/NEJMoa1902226. [Epub ahead of print]

2. Diabetologia. 2019 Apr;62(4):655-64


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