Non sto bene, chiamate un architetto!
Promuovere l’attività fisica e la vita all’aria aperta è il modo migliore per prevenire a medio e lungo termine la comparsa di malattie metaboliche e ridurre il rischio cardiovascolare. E questo è ormai noto. Ma cosa significa concretamente ‘promuovere’? Significa informare sui vantaggi dell’attività fisica? Vero. Significa invogliare delle persone a fare delle scelte salutari? Certamente.
Così è stato fatto e il risultato di queste campagne di informazione in larga parte pubbliche è stato paradossale: le fasce socialmente e culturalmente più alte hanno adottato stili di vita più salutari. E oggi hanno attese di vita in piena salute superiori a quelle delle persone più povere e con un titolo di studio inferiore.
Oltre la ‘buona volontà’
«La promozione di stili di vita sani non può avvenire solo facendo appello alla ‘buona volontà’ delle persone. Occorre favorire in maniera concreta e oggettiva l’esercizio fisico con scelte architettoniche, urbanistiche e politiche precise», spiega Rossella Maspoli docente di tecnologia dell’architettura al Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico di Torino.
«In questi anni si è posto con una certa forza tra urbanisti e architetti il problema del rapporto fra la morfologia degli spazi e l’esercizio delle attività fisiche e più in generale di come la qualità percepita dello spazio pubblico condizioni la qualità delle relazioni fra le persone», nota Rossella Maspoli.
Non è un problema nuovo: gli architetti-urbanisti degli anni ’60 lo avevano affrontato e pensavano di averlo risolto costruendo quartieri come il Gallaratese e il Gratosoglio a Milano, il Corviale a Roma, lo Zen a Palermo e le Vele nell’hinterland napoletano che sono in buona parte diventati ghetti se non peggio.
Più di recente il problema è stato affrontato creando aree ‘verdi’ marginali (pensiamo ai giardinetti di cemento costruiti in cambio degli oneri di urbanizzazione) o piste ciclabili più o meno ben divise dal traffico pedonale e automobilistico. Anche in questo caso i fallimenti non si contano: giardini deserti, piste che si interrompono nei punti più pericolosi od ostacolate da macchine in sosta vietata.
La qualità dello spazio urbano sta nei dettagli
«Premesso che i grandi quartieri degli anni ’60 scontavano una visione ideologica e irrealistica dei rapporti sociali che si sarebbero instaurati e non tenevano in nessun conto le abitudini delle persone che li avrebbero abitati», commenta l’architetto torinese, «in tutti questi casi gli errori maggiori sono avvenuti non solo o tanto nel disegno degli spazi, ma nella esecuzione e nel ‘follow up’, per così dire, del progetto».
Facciamo l’esempio più semplice: lo ‘spazio verde’. «Perché invogli a frequentarlo, lo ‘spazio verde’ non deve essere tanto esteso, quanto accogliente e vivibile. Questo significa che non deve essere rumoroso, occorre separarlo dalle fonti di rumore esterne, deve essere climaticamente confortevole e quindi con alberi che diano ombra e frescura d’estate e magari qualche riparo dai venti. Deve avere non solo ‘parchi gioco’ per bambini, ma attrezzature pensate anche per persone di mezza età o anziane, non deve avere solo panchine messe a caso ma tavolini e sedie pensati per favorire le attività collettive degli adolescenti o delle persone anziane…». L’architetto Maspoli semplifica volutamente un problema quello del ‘dettaglio’ dell’arredo urbano che coinvolge la scelta dei materiali: ci sentiamo più a nostro agio con materiali naturali come pietra e legno ecologicamente trattati e tendiamo a evitare il cemento a vista delle superfici (provate a correre sulla ghiaia!).
«In fondo si tratta di progettare lo spazio aperto come faremmo con uno spazio chiuso: cercando di renderlo piacevole alla vista e al tatto isolandolo e climatizzandolo in modo da sentirlo come un luogo dove è piacevole stare e rilassarsi».
Gli enti locali stanno iniziando a capire l’importanza di spazi per l’attività fisica, ma la loro risposta è quantitativa, non qualitativa. Nelle conferenze stampa vantano i metri quadri di ‘verde urbano’ costruito, trascurando che questo verde urbano può essere costituito da spazi di cemento con pochi alberelli alti un metro, o i chilometri di piste ciclabili che in parte sono semplici corsie dipinte sulle strade.
Riavvicinare abitazioni e luoghi di lavoro
Premesso che i dettagli sono importanti, è necessaria anche un’evoluzione nelle scelte di pianificazione. Negli anni ’80 e ’90 la gran parte delle aziende ha spostato sia le fabbriche sia gli uffici fuori dalla città in aree a basso costo che potevano essere raggiunte solo in auto. Questo è avvenuto con la benedizione dell’ente locale, anzi per una sua precisa scelta: lo ‘zoning’ vale a dire la suddivisione dello spazio fra aree unicamente residenziali e aree unicamente commerciali o industriali ha reso impossibile, anche nei centri piccoli e medi, percorrere a piedi (e spesso in bici) i tragitti casa – lavoro o perfino fare la spesa senza usare l’auto.
Così facendo le aziende hanno ‘esternalizzato’ il costo del terreno ribaltandolo sui dipendenti (e clienti) sotto forma di costi di trasporto e sulla comunità sotto forma d’inquinamento. «In molti casi il danno è fatto ed è sostanzialmente irreversibile. Ma teniamo conto che buona parte delle attività produttive ad alta tecnologia oggi possono essere svolte dentro la città». Gli spazi ex industriali ancora liberi o liberabili, pensiamo alle aree occupate da scali ferroviari o dalle stazioni interrate, possono tornare a essere industriali riavvicinando i luoghi di lavoro alle abitazioni.
Ben Comune, nessun gaudio
Rossella Maspoli è una delle massime esperte italiane di smart city, vale a dire di tutte quelle soluzioni tecnologiche su media e larga scala che permettono di razionalizzare e governare variabili come il traffico, il clima, l’inquinamento che ieri potevano essere solo subite. «Il concetto di smart city si declina in molti modi e ha anche ricadute immediate sulla domanda di salute», afferma, «anche se questa non è la prima dimensione che viene colta dal committente pubblico».
Il committente, ente locale o grande promotore immobiliare, inizia a rendersi conto che la qualità percepita dell’ambiente urbano è legata alla possibilità di usare gli spazi esterni, alla vivibilità degli spazi pubblici e che questa vivibilità si traduce in sicurezza percepita e inclusione sociale (le aree con spazi pubblici degradati sono più legate a vandalismi, disagio e criminalità). Il fatto è che l’ente locale, che pure potrebbe governare anche la salubrità degli stili di vita, non ha nessun incentivo a farlo, visto che i costi della salute ricadono a livello regionale o nazionale. E questo è un tema che andrebbe affrontato in sede di revisione dell’articolo V e dei poteri degli enti regionali.