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Dialogo tra religioni aperto a tavola

Nello scambio fra culture alimentari l'Occidente ha tutto da guadagnare, messo a contatto con tradizioni abili nel proporre fibre e carni bianche. Viceversa gli immigrati fanno fatica ad adeguare il loro equilibrio glicemico alle abitudini occidentali. E in particolare a conservarlo durante il tradizionale digiuno del mese del Ramadan. Ce lo spiega Natalia Visalli

In dieci anni gli stranieri residenti in Italia sono passati da 1,4 a 4,4 milioni. Nel 2002 solo un bambino su 100 aveva ambedue i genitori stranieri, oggi uno su sette. Un terzo di questi quasi cinque milioni di immigrati proviene dai Balcani (Romania, Albania ed ex Jugoslavia), il 10% da un’altra cultura per certi versi vicina come quella russa, mentre un terzo proviene da Paesi di religione islamica.

La componente araba-maghrebina, insieme a quella cinese, è particolarmente rappresentata nel campo della alimentazione. Uno dei pochi segni della presenza di culture estere in Italia è l’offerta crescente di ristoranti cinesi e street food turco-arabi per non parlare del ruolo preponderante degli egiziani nella ristorazione. «Il metissage delle culture alimentari è importante perché è alla portata di tutti e entra nella nostra vita quotidiana», sottolinea Natalia Visalli, coordinatore insieme ad altri del Progetto Open Dialogue. Molte delle proposte tipiche delle tradizioni alimentari cinesi e arabe-maghrebine sono consigliabili alle persone che cercano una alimentazione sana «la cucina araba fa gran uso di fibre proposte in modo molto innovativo e ha in se forte il concetto di piatto unico», ricorda Natalia Visalli, diabetologa particolarmente attenta alla alimentazione, «mentre quella cinese e giapponese danno spazio a ‘secondi piatti’ consigliabili come il pollo e il pesce rispettivamente».

L’incontro fra culture alimentari comporta delle difficoltà per le persone che arrivano in Italia e in Europa. La prevalenza di obesità e diabete fra le popolazioni di origine indiana e araba residenti in Italia per esempio e più alta a parità di età rispetto alla popolazione di origine italiana, nonostante una attività fisica spesso superiore alla media. Il cambio di abitudini alimentari così come il minor costo degli alimenti insalubri gioca evidentemente un ruolo che slatentizza probabilmente un elemento genetico.

Un aspetto particolarmente sfidante per le persone con diabete di religione musulmana è il digiuno del mese Ramadan. Si tratta di uno dei pilastri della fede islamica e consiste in un digiuno assoluto dall’alba al tramonto per un intero mese lunare. «Nei Paesi di provenienza il Ramadan è di fatto un mese di festa, e questo facilita la gestione del diabete», afferma Natalia Visalli. In pratica si inverte il ritmo sonno veglia e chi può riposa di giorno e ‘vive’ di notte. Ma in Italia il Ramadan è un periodo lavorativo come gli altri e le persone affrontano le loro normali attività. In questi anni poi il Ramadan cade di estate e alla fatica si affiancano la disidratazione e gli orari assai lunghi della giornata», indica Natalia Visalli.

Secondo il Corano le persone con diabete potrebbero essere esentate dal digiuno ma lo studio Epidiar, svolto nei paesi islamici afferma che il 43% delle persone con DM1 e il 79% di quelle con Dm2 non si avvale di questa possibilità».

Il progetto Open Dialogue avviato dal Gised insieme al Gruppo di studio intersocietario Adi-Sid-Amd ‘Nutrizione e Diabete’ e con la collaborazione di rappresentanti delle Comunità Islamiche, del Co-mai (Comunità del Mondo Arabo in Italia) e dell’Associazione Medici Stranieri in Italia ha approfondito il tema, organizzando degli incontri di studio e stilando delle raccomandazioni per i medici e per le persone con diabete che intendono seguire il precetto del digiuno nel mese Ramadan. «È un ottimo esempio del concetto di ‘personalizzazione della terapia’, fa notare Natalia Visalli che – insieme a Sergio Leotta, diabetologo, a Giuseppe Fatati, nutrizionista, e Simone Casucci, Educatore e Psicopedagogista – ha coordinato il progetto Open Dialogue, «bisogna evitare di mettere il paziente di fronte alla scelta se seguire i precetti religiosi o le raccomandazioni del medico, così come bisogna evitare severe ipoglicemie e severe iperglicemie che nel mese di Ramadan fra le persone con diabete aumentano la loro frequenza rispettivamente 7 e 5 volte».

Non bisogna porre una alternativa tra il rispetto delle pratiche legate alla fede individuale e la ‘salute’. «È indispensabile che gli operatori sanitari siano in grado – con una formazione transculturale – di garantire ai pazienti ed ai loro familiari un counseling attivo già nei mesi precedenti il digiuno», spiega Natalia Visalli che propone incontri di Educazione Terapeutica Strutturata, rivolti in prima istanza al superamento delle difficoltà correlate al digiuno durante il mese Ramadan. «Questi incontri potrebbero rappresentare uno stimolo, in un momento di forte aggregazione comunitaria, per i familiari e la comunità religiosa, di cui il paziente è parte, per affrontare le regole di un corretto stile di vita».

Le raccomandazioni per il paziente che nascono da uno studio approfondito della letteratura esistente sul tema, possono essere scaricate cliccando qui.