Il diabete torna in piazza
Negli ultimi dieci anni il termine ‘capitale sociale’ è uscito dal linguaggio specialistico. Di cosa si tratta? «In grande sintesi il capitale sociale è la somma degli effetti delle relazioni positive che si instaurano fra le persone che vivono su un territorio», spiega Raffella Nanetti, professore emerita di Urban Planning and Policy alla University of Illinois di Chicago (USA). «Il capitale sociale può essere misurato valutando il numero e la qualità di queste relazioni, l’empatia, i valori di solidarietà e la fiducia reciproca che esprimono, evidenziando le norme non scritte che regolano queste relazioni e la capacità delle persone di aggregarsi e agire per un bene comune».
Raffaella Nanetti fa parte del team di politologi e specialisti di economia territoriale, che ha messo a punto questo concetto e ha iniziato a promuoverne l’inserimento in politiche d’intervento sul territorio. «Ogni territorio ha una ‘dotazione’ più o meno alta di capitale sociale e non vi è necessariamente un rapporto positivo fra il capitale sociale e quello finanziario; anzi se esiste una relazione può essere addirittura inversa».
A differenza del capitale finanziario che è di proprietà individuale ed è l’effetto dello spirito individualista, il capitale sociale non è proprietà di un individuo ma della comunità territoriale che lo esprime, essendo il frutto delle relazioni positive tra le persone che quindi ne dispongono e questo consente loro di ridurre il fabbisogno di capitale finanziario.
Un esempio banale? Nelle comunità ricche di capitale sociale, ogni persona ‘dà un occhio’ ai figli anche degli altri, in quelle povere di capitale sociale ogni madre deve pagare una baby sitter.
Cosa c’entra questo con la salute in generale e con la prevenzione e la gestione del diabete in particolare? C’entra a due livelli: prima di tutto se è vero che le società odierne possono avere perso una parte del loro capitale sociale è anche vero che la creazione di un ‘bene comune’ come il Servizio sanitario universale «ha sicuramente promosso o mantenuto capitale sociale. Nei Paesi dove questo bene comune non c’è, come negli Usa, o non funziona più, come in Cina, la preoccupazione di non poter pagare le cure induce sicuramente a paura, sfiducia nel futuro e accentua atteggiamenti individualistici», afferma Raffaella Nanetti che è nata in Italia ma ha studiato alla University of Michigan.
La quantità di capitale sociale oggi torna ad avere un effetto sulla salute. Vediamo perché.
Nelle società pre-moderne la malattia si sviluppava nel contesto sociale: le cure erano erogate dalla collettività ricorrendo a saperi condivisi (le erbe ad esempio o i riti) o a semi-specialisti (il dentista-chirurgo). «A partire dall’Ottocento la gestione della malattia è stata separata dalla socialità e affidata a spazi e persone specializzate», riassume Raffaella Nanetti. Questo approccio ci ha permesso di guarire o gestire quasi tutte le malattie mortali. Si sono invece diffuse le malattie e condizioni croniche: il diabete per esempio. La ‘separazione’ non è una strategia efficace per queste malattie che possono essere prevenute e gestite efficacemente solo a livello di comunità. «La malattia ritorna quindi nel contesto sociale, torna a essere una responsabilità sociale. Nelle società avanzate occorre una capacità di programmazione integrata; la salute non si produce solo nel settore della sanità», ricorda Raffaella Nanetti, ora ricercatrice presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche e docente alla LUISS, «facciamo un esempio banale: la politica sanitaria deve essere messa in relazione con l’istruzione perché le abitudini e le valorizzazioni alimentari si producono nell’età scolare. In molti casi si è visto come l’assistenza alla famiglia del malato sia più efficace, meno costosa e più vicina ai desideri che non l’ospedalizzazione/istituzionalizzazione».
Non è un caso che in Italia l’assistenza al terzo settore e al territorio sia maggiore nelle regioni (per esempio Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Umbria) dove è più alto è il capitale sociale. «e non sorprende che proprio nelle regioni con maggiore capitale sociale troviamo la maggiore densità di associazioni di malati», conclude Raffaella Nanetti, «e che gli amministratori più illuminati vedano la relazione forte che esiste fra la creazione di spazi in grado di ricostituire il capitale sociale: giardini, centri sociali, aree pedonali, e la produzione di salute del territorio».