Il nodo del medico ‘di base’
Il medico di Medicina generale è un elemento centrale dei sistemi sanitari pubblici. Nel corso del tempo a questo livello, detto anche medicina primaria, sono stati delegati un numero sempre maggiore di compiti, primo fra tutti quello della prevenzione e della gestione delle malattie croniche. Assumere questo ruolo, in passato o vacante o affidato alla medicina specialistica, non è stato e non è facile. Diabete No Grazie cerca di capire perché intervistando Emanuele Vendramini ricercatore e docente dell’Università Bocconi esperto in organizzazione delle cure primarie.
Perché è così difficile per il Sistema Sanitario Nazionale fissare degli obiettivi che risultino condivisi dai medici di Medicina generale?
Il rapporto fra il SSN e i medici di base si articola su tre livelli diciamo così di ‘contrattazione’. Il primo, nazionale. La convenzione nazionale definisce il quadro complessivo, le varie Regioni aprono dei tavoli di trattativa con le organizzazioni sindacali per definire accordi specifici integrativi. L’accordo regionale però non riesce a entrare nel merito, se non forse nelle Regioni più mature dal punto di vista manageriale: per quel che riguarda la realizzazione pratica e l’articolazione concreta degli istituti previsti dal contratto integrativo, molto dipende dagli accordi fatti a livello di ogni singola Asl.
E la Asl come è organizzata per gestire questa trattativa?
Molte regioni si sono organizzate definendo dei meccanismi chiari e precisi per il ‘governo’ della Medicina generale. In molte realtà comunque il numero degli interlocutori che si interfacciano con i Mmg è ancora troppo elevato con implicazioni non sempre efficaci.
I medici di Medicina generale non hanno un referente?
No, non sempre ma ne avrebbero bisogno, infatti dialogano con chi si occupa della spesa farmaceutica per certi aspetti, con il dipartimento prevenzione per altri. Altrimenti il dialogo avviene con il Direttore generale.
Insomma la Regione e la Asl pagano ma non dirigono…
Sicuramente si ha difficoltà, in molti casi, a coordinare. L’idea di fondo è quella di creare un’alleanza professionale con i Mmg e con tutte le professionalità afferenti alle cure primarie. Questo per continuare a investire sulle tematiche proprie del governo clinico e dell’appropriatezza.
Parliamo di questi contratti integrativi regionali. Lei ha svolto uno studio comparativo al riguardo fra le regioni italiane.
Il Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale dell’Università Bocconi nell’ambito del rapporto Oasi sul sistema sanitario realizzata ogni anno, monitora anche gli accordi integrativi regionali. Il tema è molto complesso ovviamente…
Possiamo dire che si sta passando da una impostazione ‘taylorista’ nella quale la Regione incentiva la singola prestazione aggiuntiva, a una impostazione più strutturale?
Beh ‘taylorista’ fa un po’ sorridere vista la situazione. È vero però che in passato l’ottica un po’ sindacale delle organizzazioni dei medici di base aveva portato a prediligere una contrattazione nella quale si andava a incentivare la singola prestazione parcellizzata. Solo che questa ottica – a parte che è di corto respiro – ha poche possibilità di successo. Parcellizzare i compiti non modifica il comportamento dei medici.
Perché?
Perché ci vuole una presa in carico complessiva del paziente. D’altra parte è un fatto che chiedere al medico di medicina generale di fare medicina di iniziativa, di fare prevenzione, di fare gestione integrata e prendere in carico il paziente significa chiedergli tempo, ancora più tempo. E per il medico di Medicina generale come ogni professionista il tempo è la risorsa più scarsa.
Sono molti gli accordi che richiedono al Medico di medicina generale di prendere in carico il paziente?
Sì, direi un terzo di quelli definiti a livello aziendale. Il problema – a parte gli incentivi – è tradurli in pratica.
Beh, in molti casi ci sono delle linee guida. Nel caso del diabete ce ne sono diverse anche sottoscritte dalle organizzazioni dei medici di Medicina generale.
Ma queste non bastano infatti a livello locale. Spesso i medici di base si oppongono, giustamente, alle ‘linee guida calate dall’alto’ o rivendicano il diritto di agire in ‘piena scienza e coscienza’. A volte è l’Asl che non riesce a definire esattamente il percorso che deve essere seguito. Insomma la presa in carico non è applicata al di fuori delle solite Regioni e della adesione volontaria di singoli medici, Il che è meritorio ma anche ingiusto perché alcuni cittadini, quelli assistiti da certo medici, hanno un servizio migliore o comunque differente di altri in funzione al grado di adesione del proprio MMG ai progetti aziendali, sebbene questa adesione sia sostanzialmente obbligatoria alla luce della convenzione nazionale.
E lo Stato non può consigliare o segnalare i medici che seguono prassi più avanzate?
Assolutamente no, nessuno può intromettersi nel rapporto fiduciario fra il medico di base e il suo paziente.
Stiamo tracciando un quadro un po’ nero, no?
Non direi. Non esiste il sistema ‘perfetto’ di cure primarie. La nostra Medicina generale garantisce ottimi livelli ma non riesce a raccogliere tutte le sfide che oggi gli sono rivolte: prevenzione, gestione integrata, cronicità, assistenza sul territorio il tutto in modo omogeneo, la situazione può essere definita a macchie di leopardo.
Qual è l’approccio che è sembrato funzionare meglio?
Se andiamo oltre le realtà del Centro Italia e del Nord est, io ho seguito con molto interesse l’esperienza della regione Puglia che ha puntato il suo ultimo accordo integrativo sulla organizzazione, incentivando la crescita strutturale degli studi verso forme di medicina complesse. Ma non si è limitata a finanziare lo studio con cinque o sei medici, l’infermiere o il piccolo laboratorio di analisi, ha chiesto che queste forme organizzative fossero piene di contenuti: orari di apertura assai ampi, effettuazione di certi interventi… D’altra parte la Regione ha accettato anche di superare una logica di controparte a volte un po’ occhiuta (come nel campo della spesa farmaceutica) e ha deciso di inserire i Medici di medicina generale nell’ufficio di coordinamento che supporta le attività di una Asl nel distretto. È un modello molto interessante
In che senso?
Il Medico di medicina generale è un bravo medico, ma non sempre ha la percezione di come sta cambiando l’assetto culturale della Sanità. Ancora oggi diversi Mmg vedono il distretto come controparte, non capiscono cosa ci si attende da loro e che vantaggi potrebbero avere dall’approcciare nuovi modelli come appunto la medicina associativa, la quale banalmente potrebbe mettere a disposizione degli spazi gratis negli ex ospedali dismessi o garantire un flusso di pazienti alle attività che il Medico svolge come specialista convenzionato. Lo scenario futuro non può che essere un ruolo proattivo potrebbe essere nel suo interesse non solo etico e scientifico ma anche economico. La criticità diventa allora la formazione.
Perché è nel suo interesse economico?
Fare prevenzione, fare gestione integrata fare presa in carico significa per il sistema sanitario spostare risorse dal domani all’oggi, dall’acuto alla cronicità, dall’ospedale al territorio. Significa spendere di più in cure primarie. E fare migliore sanità.