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Diabete.it

La simpatia per l’etica non è una complicanza

Il medico è immerso giustamente nella logica del fare, ma dietro ogni atto di cura ci sono delle scelte e queste fanno riferimento sempre a dei principi. Riflettere sull'etica aiuta il diabetologo nel suo lavoro e per farlo non è necessario avere delle convinzioni teologiche, anzi. Ne parla Anna Chiambretti

Intervista a Anna Chiambretti

Responsabile Struttura Semplice di Diabetologia Asl 7 Chivasso (TO)

Sono una diabetologa come tanti. Non ho una formazione filosofica alle spalle nè alcuna autorità. Ho avuto la fortuna, è vero, di avere come amico un grande filosofo, Carlo Augusto Viano, grande pensatore e professore emerito di filosofia teoretica a Torino, ma questa non è certo una ‘veste’.

Ripeto a questo ‘diario’, quello che dissi otto anni fa ai miei colleghi in un congresso della Sezione regionale Piemonte e Valle d’Aosta dell’AMD: “questi pensieri mi hanno colpito, mi stanno facendo riflettere. Ve li propongo, forse possono interessare anche a voi”. Tutto qui. Ovviamente penso che l’interesse vi possa essere e per tante ragioni.

La diabetologia è una branca della medicina particolarmente attenta a cogliere gli stimoli intellettuali che provengono da discipline non strettamente scientifiche. Cosa ancora più importante la Diabetologia è tornata, prima di altre specializzazioni, all’uomo. D’altra parte capisco anche la difficoltà di molti colleghi. Quando si parla di bio etica c’è un equivoco di fondo. All’estero quando si parla di bioetica si pensa a una riflessione filosofica nella quale l’aspetto religioso non ha nessun ruolo particolare. Il termine bioetica è stato coniato nel 1970 da un oncologo: Van Rensselaer Potter nel suo Bioethics: bridge to the future. In Italia invece la bioetica ha visto un ruolo preponderante da parte della Chiesa e dei suoi pensatori, forti indubbiamente di una riflessione secolare sull’uomo e sulla sofferenza. La differenza esiste in quanto la bioetica parte dal presupposto che esistano molte etiche e si chiede in sostanza, come l’agire medico debba rispettarle.

In Italia quindi la discussione sulla bioetica è apparsa come un tentativo di limitare dall’esterno l’agire del medico quando invece è secondo me un discorso di libertà. Si tratta di riconoscere la libertà del paziente e di riflesso quella del medico. L’agire tradizionale del medico nei confronti del paziente è definito correttamente ‘paternalistico’. Ebbene l’Italia come altri Paesi è passata da una società paternalistica a una società dove si riconosce il diritto della persona a determinare le sue scelte. Questa evoluzione, che è più o meno parallela a quella di altri Paesi almeno fra quelli di lingua neolatina, conosce invece un ritardo nelle questioni ‘bio etiche’. Sulla carta europea quella dell’89 è scritto che il medico non può prevaricare con il suo giudizio sulla volontà del paziente.

Questo in Italia è un pensiero condiviso da poco e da pochi. Perché la bioetica ci dovrebbe interessare come diabetologi? Non è una riflessione più vicina all’oncologia, alla medicina dell’intervento acuto e ad alto rischio, alla genetica, a tutte le discipline che afferiscono alla maternità? Potrei rispondere citando il caso celebre della donna che a Sanremo chiese di non amputare un piede devastato dalla cancrena pur sapendo che così sarebbe andata incontro a una morte veloce che l’amputazione avrebbe evitato. Potrei ricordare la frequente situazione in cui il Team si trova davanti a una persona che corre un altissimo rischio cardiovascolare e , eppure rifiuta di porre in essere comportamenti che potrebbero ridurlo. Ma a me interessa proporre un’altra riflessione, più ampia. dietro ogni atto di cura eseguito, omesso o rimandato, ci sono delle scelte. Queste scelte hanno sempre una ragione ancorata a dei principi Per velocità noi facciamo finta che così non sia. Proviamo a porci a bruciapelo la domanda: ‘Fra il medico e il malato chi decide?’ Il riflesso condizionato è rispondere ‘il medico’.

Leggiamo il giuramento di Ippocrate ci propone un modello verticale. Il medico sceglie. Ma quando sceglie, in nome di cosa le fa? Lungi da me l’idea di imporre dei principi e delle regole. Mi sembra una buona idea però porsi la domanda. Tutto sommato l’intera riflessione sull’empowerment ha in sè un’ambiguità che fingiamo di non vedere. Se l’empowerment è una tecnica al pari di altre il problema non esiste. Ma se l’empowerment è riconoscere la libertà dell’altro, allora questo concetto non sfida il mio agire? Senza andare al caso limite della persona ad altissimo rischio cardiovascolare, quando chiedo a una persona di rinunciare a cose che finora hanno fatto la qualità della sua vita, un eccessivo consumo di dolci o passare il dopopranzo in poltrona.

So cosa sto chiedendo? E come devo agire quando la persona non accoglie i miei suggerimenti? Certo devo essere sicuro di averle chiarito i termini del problema. Certo devo essere sicuro di aver cercato le possibili leve di motivazione. Ma poi? Sono cosciente, è questa l’ultima domanda che pongo al mio diario, dell’orizzonte di libertà che c’è dietro l’agire del paziente?