Malattie cardiache: la parola d’ordine è prevenire
Marco Bobbio
direttore della UOC di Cardiologia a Cuneo e autore di molti libri di riflessione sui risvolti sociali della salute, delle cure e della prevenzione.
«Da oltre 50 anni si studia la relazione che intercorre tra l’esposizione a certi fattori e la comparsa di determinate malattie. Per quanto riguarda le malattie cardiache, sono state individuate parecchie centinaia di fattori che hanno una relazione statistica con l’insorgenza dell’infarto e che sono stati definiti appunto fattori di rischio», spiega Marco Bobbio, direttore della Struttura complessa di Cardiologia dell’ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo, «solo una manciata di questi fattori ha resistito alle verifiche scientifiche; gli altri rappresentano folclore».
Bobbio ha lavorato per due anni come ricercatore negli Stati Uniti ed è stato responsabile dei trapianti di cuore a Torino per 15 anni. È noto anche al di fuori dell’ambito scientifico grazie ai suoi numerosi libri di riflessione sulla Medicina e sulla Salute: Leggenda e realtà del colesterolo – Le labili certezze della medicina (1993); Rischiare di guarire – Farmaci, sperimentazione, diritti del malato (2005), Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza (2004) e Il malato immaginato – I rischi di una medicina senza limiti (2010).
Dalla dimostrazione di numerose ricerche sostanzialmente concordanti, sappiamo che le persone sedentarie, quelle che hanno la pressione arteriosa o il colesterolo elevati, quelle che fumano o che sono sovrappeso, hanno più probabilità di avere un infarto, rispetto a quelle che non sono esposte questi fattori.
Quando la presenza di un fattore di rischio richiede di cambiare radicalmente le proprie abitudini è legittimo volerne sapere un po’ di più. Che cosa guadagno esattamente se riesco a ridurre un fattore di rischio?
Gran parte delle ricerche epidemiologiche ci hanno finora indicato cosa succede alle persone in base al tipo e al numero di fattori di rischio. Insomma sappiamo che è meglio non fumare che fumare, avere il colesterolo totale basso piuttosto che alto. E sappiamo ‘di quanto’ è meglio. Ma sappiamo pochissimo su cosa succede a chi modifica un fattore di rischio nel corso della sua vita. Non è documentato che se uno smette di fumare o ritorna a un peso ideale “conquisti” dal giorno successivo il rischio di mortalità di chi non ha mai fumato o è sempre stato normopeso. Inoltre, ridurre la pressione arteriosa o abbassare la colesterolemia con farmaci non equivale ad avere dei valori spontaneamente normali.
Buona parte delle campagne di prevenzione ci presentano modelli di salute ‘radiosa’ e assoluta, persone che – a giudicare dalle immagini e dai filmati, parrebbero non avere nessun fattore di rischio. Ma queste persone sono la norma? Rappresentano un obiettivo realistico da raggiungere?
Nella ricerca di Yang, pubblicata nel marzo di quest’anno sul Journal of the American Medical Association su oltre 45.000 persone apparentemente sane, sono stati presi in considerazione i 7 fattori di rischio più predittivi ed è stato osservato il rischio di morire o di avere un infarto negli anni successivi. Nel gruppo delle persone non esposte a nessuno di questi fattori di rischio si sono osservati 0,5% decessi l’anno e nel gruppo di chi li ha tutti e 7 dell’1,5% all’anno. Bisogna però considerare che solo l’1,2% della popolazione non è esposto a tutti e 7 i fattori di rischio e solo l’1,4% li ha tutti.
Cosa se ne dovrebbe dedurre? Che per vivere di più e necessario smettere di fumare, abbassare il colesterolo, ridurre il peso e mettersi a svolgere attività fisica periodica?
In realtà stiamo parlando di dati statistici tratti da ricerche condotte su vaste popolazioni. Se si modifica la presenza dei fattori di rischio degli abitanti di una nazione, si potrà riscontare una riduzione del numero di infarti. È molto delicata invece l’estrapolazione di questi dati agli ipotetici benefici che può trarne il singolo individuo che modifica il suo stile di vita. Non sappiamo ancora quanto pagherà – in termini di allungamento della vita – il cambiamento dello stile di vita in una singola persona.
In che senso?
Per esempio si dice “se non sono presenti i fattori di rischio” si riduce di molto il rischio di morte. È vero che stando ai dati dello studio citato, nell’arco di 10 anni, su 100 persone che hanno tutti e 7 i fattori ne moriranno 14,8 e su 100 che non ne ha alcuno ne moriranno 5,4. Bisogna però considerare come ho detto prima, che solo l’1,2% della popolazione non è esposto a tutti e 7 i fattori di rischio e solo l’1,4% li ha tutti: due minoranze estreme. Metà delle persone è esposto a 3 o a 4 di questi fattori di rischio, a cui è associata una probabilità di morte a 10 anni del 9 e dell’11% rispettivamente.
Quindi pensare a una popolazione ‘a rischio zero’ è illusorio?
È del tutto irrealistico pensare che il 98,8% delle persone riesca a modificare il proprio stile di vita per non essere esposto più ad alcuno di questi fattori. È interessante invece notare che eliminare per 10 anni anche un solo fattore di rischio può essere importante. Facciamo l’esempio di un signore con 4 fattori di rischio (iperteso, sovrappeso, sedentario e fumatore) che segua una terapia per il controllo rigoroso dei valori della pressione arteriosa, o che si metta a dieta per ritornare a un peso normale, o che si metta a svolgere almeno 3 volte alla settimana attività fisica intensa per 20 minuti, o che riesca a smettere di fumare. Premesso che noi non possiamo documentare questa affermazione perché non abbiamo studi affidabili sugli effetti di una modifica dello stile di vita, avendo successo anche in una sola di queste attività, sulla base dei dati di quella ricerca passerebbe da 4 a 3 fattori e la sua probabilità di morte scenderebbe dopo 10 anni dall’11 al 9%. In altre parole, nell’arco di 10 anni, su 100 persone che passano da 4 a 3 fattori di rischio, 9 moriranno lo stesso, 89 saranno vive anche se non avessero eliminato un fattore di rischio e 2 sarebbero morte se non avessero modificato lo stile di vita.
Quindi se ognuno si impegnasse a eliminare uno o più fattori di rischio si ridurrebbe il numero di decessi.
Ahimé la mortalità non si riduce, ma la si può soltanto rinviare e non abbiamo nessuna idea di come staremo negli anni che vivremo in più. Di solito le ricerche ci dicono la probabilità di riduzione di un evento in un certo lasso di tempo, ma non quanti anni o mesi vivranno di più in media coloro che hanno meno fattori di rischio.
Lei mi pare cosciente che per una persona modificare le proprie abitudini è difficile. Quello che il medico chiede al paziente è un impegno individuale, in analogia con il liberismo economico. La tua salute come la tua possibilità di trovare un lavoro o fare carriera è demandata interamente alla tua responsabilità. È un approccio corretto?
È vero che si rovescia sul singolo individuo la responsabilità della salute che invece ha una grossa componente ambientale. È noto da tempo (e molte indagini sui residenti della regione Piemonte lo confermano) che chi abita in zone o quartieri poveri di una città ha maggiori probabilità di avere un infarto.
È colpa dell’ambiente malsano?
No, non è l’ambiente di per sé malsano. È che in zone deprivate vivono persone che badano meno alla propria salute, hanno meno disponibilità economiche per alimentarsi, curarsi, distrarsi. Nell’ottobre del 2011 sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine i risultati di una ricerca insolita. Il Dipartimento di Sviluppo Urbano di Chicago ha preso in considerazione 4.500 madri che vivevano in un quartiere con un elevato indice di povertà: a un terzo di queste donne è stato offerto un contributo economico solo se si fossero trasferite in una zona con un basso tasso di povertà; a un terzo un contributo economico a fondo perduto e a un terzo non è stato offerto nulla. Dopo una decina di anni le donne sono state ricontattate e si è verificato che l’obesità si era ridotta del 7% tra le donne che si erano trasferite in un quartiere meno povero rispetto a quelle che avevano avuto un contributo economico pur continuando a risiedere nello stesso quartiere.
Ma allora il sogno della salute per tutti che ispira i servizi sanitari pubblici universali è vanificato?
Non è possibile immaginare, e tanto meno realizzare, un programma di salute per tutti: le malattie ci sono e si muore. Fa parte della natura umana. È stato fatto molto e ancora si potrà fare per migliorare al maggior numero possibile di persone la salute, ma non possiamo aspettarci di far stare tutti bene dal giorno in cui nascono al giorno in cui muoiono. Occorre comunque lavorare su più livelli. È importante avviare programmi che incentivino – con attività di informazione e offrendo incentivi economici o risparmi – l’adozione di misure per facilitare uno stile di vita salubre. L’informazione dovrebbe essere mirata in termini cognitivi e motivazionali agli strati di popolazione più deprivate e gli incentivi economici dovrebbero favorire il consumo di cibi poco calorici, poco dolci, poco salati, poco grassi e l’uso di attrezzature sportive.
Cosa pensa a questo proposito delle varie leggi adottate o proposte per esempio intorno all’assunzione di alimenti insalubri?
Mi piace immaginare una società che non colpevolizzi il singolo individuo, ma intervenga con scelte strutturali. Non si tratta di imporre prescrizioni dogmatiche, ma di fornire suggerimenti ragionevoli. Non credo alle tasse sui cibi insalubri, ma alla defiscalizzazione della produzione di cibi che garantiscono una sostanziale riduzione del contenuto di zucchero, sale e grassi. Per capirsi: non scandalizziamoci dell’obesità infantile, ma facciamo subito una norma che proibisca la pubblicità televisiva di cibo nelle ore pomeridiane. Non sarebbe poco.