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Il tecnocibo e l’ossimoro del sistema alimentare italiano


P. Conti
 

A leggere i suoi libri (La Leggenda del Buon Cibo Italiano e Euroil, entrambi pubblicati dall’editore Fazi), o a navigare sul suo sito (www.paoloconti.net), si capisce che Paolo Conti di cibo, e di modalità di produzione del cibo, ne capisce

di Marco Comoglio


Giornalista, fondatore e presidente del Cedites, il Centro Studi per la Divulgazione della Tecnologia e della Scienza, un’organizzazione senza fini di lucro che vuole favorire una diffusione trasversale della conoscenza scientifico-tecnologica fra tutti i membri della società, dai cittadini alle imprese, dalle istituzioni agli enti di ricerca, ricercatore, Paolo Conti ha studiato a lungo, e continua a farlo, la qualità di ciò che mangiamo. Ha partecipato anche all’ultimo congresso AMD di Piemonte e Valle d’Aosta. Dopo aver ascoltato la sua relazione, lo abbiamo ricercato. Per cercare di capire di più e meglio che cosa voglia dire (e che cosa sottenda) oggi la parola “cibo”. 

Paolo Conti, tu che hai studiato il cibo nei sui vari aspetti cosa ci dici del cibo in Italia?
L’Italia, lo sapete, è famosa nel mondo per il suo cibo che, ci piace dire, è buono, sano e genuino. Ce lo invidiano tutti. E tutti lo comprano. Per noi è una cosa straordinariamente importante, visto che il mercato alimentare italiano vale più di 110 miliardi di euro l’anno: circa un decimo di tutto il valore che il nostro paese produce.
Ma gran parte di questo cibo non proviene da piccoli orti a conduzione familiare o dalle malghe di montagna, né da agricoltori e allevatori illuminati. Al contrario, il mercato alimentare italiano è ormai in massima parte altamente industrializzato, al pari (e in certi casi anche di più) di quelli dell’automobile o dei computer.
E questo fatto genera a mio parere una forte contraddizione. Perché noi italiani continuiamo a vendere l’idea di un sistema alimentare tradizionale, mentre nella realtà dei fatti stiamo rapidamente trasformando questo stesso sistema in qualcosa di ben diverso. Stiamo compiendo la transizione fra l’ecocibo, che il resto del mondo ci invidia, al tecnocibo, che difficilmente il resto del mondo verrebbe a comprare qui.

 

Questo significa che la qualità del cibo italiano peggiorerà?
Se non prenderemo al più presto coscienza di questa contraddizione finiremo per non riuscire più a procedere su questo doppio binario. L’ossimoro del cibo italiano diventerà palese e noi potremmo perdere una delle eccellenze più importanti della nostra cultura e della nostra economia.
L’esito della guerra fra ecocibo e tecnocibo sembra ormai segnato. Chi promuove un’alimentazione diversa è un piccolo Davide di fronte a un gigantesco Golia che muove miliardi di euro. Una battaglia impari. E questa è davvero un’occasione perduta. Soprattutto per noi italiani. È il nostro più grande fallimento dal secondo dopoguerra.
Senza volerlo ci eravamo ritrovati fra le mani un bene prezioso. Qualche decennio fa eravamo stati più lenti di altri a trasformare l’alimentazione secondo i dettami del mercato contemporaneo. Così quando a partire dagli anni Settanta l’Occidente si è accorto dei vantaggi dell’ecocibo ci siamo trovati in una posizione di vantaggio. Il marchio di qualità, la cosa più difficile da creare, ce l’avevamo già. Per tutti il cibo italiano era buono, sano e genuino. Inglesi, tedeschi e americani venivano già da decenni in Toscana, in Trentino, in Sicilia, non solo per il mare, ma anche (e in molti casi soprattutto) per la qualità del nostro cibo: perfetto per costruire un’alternativa alimentare sostenibile per il prossimo secolo.

Cosa si sarebbe potuto fare per impedire la degenerazione della qualità del nostro cibo?
Bastava procedere con coraggio su questa strada per capitalizzare il vantaggio e trasformarlo in un asse portante della nostra economia. In fondo la stessa cosa l’avevano già fatta altri paesi in settori diversi.
Bastava fare la stessa cosa. E invece noi abbiamo sacrificato il nostro ecocibo, spazzandolo via sull’altare del mercato. Abbiamo accolto come una benedizione un tecnocibo di fatto irriconoscibile da quello consumato a Londra, Berlino, New York. Abbiamo penalizzato le piccole aziende, non abbiamo supportato a sufficienza il biologico, ovvero l’unico movimento globale capace di nobilitare davvero la nostra produzione. Invece di investire sull’ecocibo, abbiamo preferito destinare le risorse della ricerca a settori in cui le nostre chance sono quantomeno discutibili, come le telecomunicazioni, l’informatica, le biotecnologie.
Così adesso puntiamo tutto, o quasi, sul concetto di genuinità. Io ho provato a guardare dentro questa parola e mi sono reso conto che è molto effimera. Come si fa a capire se un alimento è genuino? Pensateci un attimo. Come si può definire con un minimo di rigore un concetto tanto vago? Possiamo definire genuine le uova che provengono da galline allevate in un pollaio di campagna. Ma come la mettiamo con i mangimi ricchi di composti chimici e di organismi modificati geneticamente con cui vengono nutrite? Il pane che viene venduto ogni mattina dai fornai di lusso delle grandi città viene preparato ad arte e quindi può essere definito genuino. Eppure gran parte di essi lo fanno con lieviti tutt’altro che tradizionali, che vengono prodotti in laboratorio dalle aziende chimiche.

 

Nelle tue ricerche ti sei occupato degli additivi alimentari. Cosa ci puoi dire di quanto accada nel nostro paese?
Un modo per affrontare il problema consiste nel capire quanti additivi alimentari e aromi usiamo noi italiani per preparare il nostro cibo. In fondo questi prodotti sono due pilastri del tecnocibo.
L’altro sono gli Ogm. Ma quelli sono illegali e in Italia non vengono usati. Almeno ufficialmente.
Personalmente ho dedicato due mesi di tempo a cercare questa risposta, che credevo semplice e che si è invece dimostrata quanto mai complicata. Ho chiamato Federalimentare, il ministero della Salute, Federchimica, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare di Parma. Nessuno di loro mi ha fornito la risposta che cercavo. Solo scampoli di dati. Ho poi chiamato qualche azienda alimentare, sperando che i loro uffici di pianificazione strategica avessero questi dati a disposizione. Niente da fare nemmeno lì. Così ho telefonato ad alcuni analisti internazionali che per mestiere raccolgono queste statistiche. Quando faccio ricerche del genere su altri settori, come l’informatica o l’energia, mi rispondono tutti rapidamente e con piacere, felici che il loro nome appaia su un giornale. Ma in questo caso quelli di loro che mi hanno risposto si sono scusati, dicendo che non avevano a disposizione i dati che stavo cercando o che sarebbe stato troppo complicato aggregarli. Risposte simili le ho ottenute anche dalla European Food Information Council (Eufic), dalla Confederazione delle Industrie Alimentari Europee (Ciaa) e dalla Federazione Europea dei Produttori di Additivi Alimentari (Elc).
Qualche scampolo d’informazione sono comunque riuscito a trovarlo. Sul Rapporto Annuale di Federchimica ho letto che “il fatturato annuo italiano del comparto (degli additivi alimentari e dei coadiuvanti tecnologici) si aggira intorno ai 300 milioni di euro”. È una somma piuttosto bassa, che suggerisce uno squilibrio verso le importazioni di queste sostanze. Discorso analogo per gli aromi. Secondo Federchimica in Italia se ne producono per un totale di circa 240 milioni di euro l’anno (senza distinzioni fra naturali e artificiali). Sempre in materia di aromi, secondo dati che mi sono stati forniti dall’Istituto per il Commercio Estero, ne importiamo per un totale di più di 300 milioni di euro l’anno soltanto per aromatizzare le bevande.
Secondo l’analista internazionale Global Industry Analyst, il mercato mondiale degli additivi alimentari vale nel 2008 quasi 17 miliardi di euro e cresce ogni anno con una percentuale compresa fra il due e il cinque per cento. I più grandi produttori di queste sostanze stanno quasi tutti negli Stati Uniti, ma è l’Europa il principale utilizzatore, con una quota del 34% sul totale degli acquisti mondiali. Gli analisti identificano la Cina fra i principali mercati emergenti in termini di additivi alimentari. Ma nella lista ci sono anche alcuni paesi europei, fra cui l’Italia. Dati complessivi sulla quantità di additivi alimentari usati in Italia non ne ho trovati. Ma su un sito web indiano ho scoperto che l’Italia è al terzo posto a livello mondiale nelle importazioni di additivi dall’India, dopo gli Stati Uniti e la Germania e ben prima di altri paesi europei, fra i quali la Spagna. Non è un dato assoluto, ma essendo l’India uno degli esportatori emergenti di additivi, è senza dubbio un indizio importante.
Quindi, stando alle informazioni che ho a disposizione, l’Italia non è affatto uno dei paesi che usano meno additivi. Anzi: quello italiano si può senz’altro annoverare fra i sistemi alimentari che ne fanno un uso intensivo.

Quindi il nostro destino è quello di andare sempre più verso il tecnocibo a scapito della genuinità e della tradizione?
Nonostante la tendenza da parte della nostra industria alimentare a tenere per sé le informazioni che sarebbero necessarie per farsi un quadro completo della situazione, la mia impressione è che il cibo italiano non stia affatto procedendo sulla strada della naturalità. Al contrario, gli analisti internazionali vedono questo paese come uno dei mercati più promettenti per vendere sostanze chimiche che servono per costruire il tecnocibo. Se hanno ragione, si tratterebbe di un segnale importante del fatto che l’Italia sta progressivamente abbandonando la genuinità del proprio modello alimentare.
La tendenza a nascondersi del tecnocibo italiano non è un segnale incoraggiante. Perché le stesse difficoltà che ho incontrato io si porranno di fronte a chiunque intenda capire meglio cosa finisce nel suo piatto. La trasparenza da parte di chi lo produce sarebbe già un notevole passo avanti. Ma l’elemento che potrà fare la differenza, il catalizzatore più importante, è la nostra curiosità.