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La rete: quando il linguaggio ci obbliga alla responsabilità

Breve intervista a Derrick De Kerckhove, sociologo ed esperto di linguaggio, comunicazione e rete

di Marco Comoglio


Derrick De Kerckhove, nato a Wanze, in Belgio, nel 1944, è oggi uno dei massimi esperti di comunicazione e di reti. Direttore del Programma McLuhan in Cultura e Tecnologia e autore di La pelle della cultura e dell’intelligenza connessa (The Skin of Culture and Connected Intelligence), attualmente è docente presso la Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi Federico II di Napoli, dov’è titolare degli insegnamenti di “Metodi e analisi delle fonti in rete”, “Sociologia della cultura digitale” e di “Sociologia dell’arte digitale”.

De Kerckhove è stato ospite al congresso regionale AMD Piemonte – Valle d’Aosta a Pollenzo. Dopo il suo intervento “Ri-pensarsi in rete: il valore aggiunto della connessione intersoggettiva”, lo abbiamo incontrato prima della sua partenza, e ne abbiamo approfittato per porre alcune domande per tentare di approfondire il discorso sulla rete .

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Cos’è che l’ha spinta a occuparsi a interessarsi del web e della rete?
Penso che tutto sia cominciato col mio lavoro sull’alfabeto e sul cervello. Ma dopo aver compreso perché scriviamo da destra a sinistra e non viceversa, ho cercato di saperne di più. Dopo aver cercato di capire le interconnessioni tra gli emisferi cerebrali e l’armonia quasi musicale che governa il pensiero ho cominciato ad occuparmi della rete, che rappresenta la terza fase del linguaggio. La prima volta che i miei studenti mi hanno chiesto: “Professore, naviga in internet?”, mi ci sono applicato per due settimane e con grande fatica. Dopodiché non ne ho più potuto fare a meno e in tutti i viaggi che facevo chiedevo sempre: “C’è la connessione qua?”. Ricordo che all’inizio la navigazione era lentissima. E oggi posso dire che l’interesse che ho verso la rete è sempre più profondo, vi trovo cose sempre più interessanti. Per restare all’attualità, Wikileaks è veramente l’apoteosi della rete.

Lei sostiene che siamo alla terza fase del linguaggio. Cosa ci dice delle prime due fasi?
La prima fase è quella orale, quando il linguaggio è portato a distanza dal corpo: crea piccole comunità, crea situazioni sempre contestualizzate, non c’è testo, c’è solo contesto, e la memoria è la storia di quel contesto. Sono le canzoni trasmesse per via orali, sono la storia enciclopedica di una tribù. Ricordo una ragazza del Senegal che ad un convegno ha chiesto a 400 persone: “Quanti di voi conoscono il nome della vostra nonna?” Tutti. “Quanti di voi conoscono il nome di famiglia della madre della nonna?”. Già qualcuno ammetteva di non ricordare. “Quanti di voi conoscono il nome della terza/quarta generazione?” Praticamente nessuno. Quella ragazza, allora, diceva: le vostre menti sono pigre, perché noi, nella mia tribù, dobbiamo conoscere le relazioni e i nomi fino alla settima generazione.

La seconda fase?
E’ la cultura scritta, la seconda grande invenzione del linguaggio. E’ quando la parola, anzi il testo esce dal contesto, si mette in altri contesti e diviene letteratura, invenzione scientifica, sempre più con funzione di ricontestualizzazione di altri testi separati, prodotti da altri.

Il linguaggio ci separa dal contesto?
Il testo scritto dà una grande libertà all’uomo, e crea l’uomo individuo e individualista. La cultura orale richiede la “vergogna” come sistema di responsabilità, che è responsabilità verso il gruppo. La cultura scritta crea la colpevolezza, perché ti dice che da te stesso, manipolando il linguaggio, anzi i linguaggi, le esperienze, i contesti, stai costruendo qualcosa di nuovo, di diverso ed individuale. La comunicazione scritta aumenta la responsabilità. Pensiamo all’ambito medico: che cosa diciamo e come lo diciamo, e a chi… Il medico è quasi sempre di parte, sa, conosce quel che dice: ma chi ascolta no, eppure recepisce, ci crede… Il medico che parla non a un suo pari, che sa e può controllarlo, ma a un paziente, deve essere responsabile. E deve provare quella “vergogna” come misura della responsabilità e controllo verso il gruppo sociale al quale appartiene e per il quale lavora.

La “vergogna” come misura della responsabilità?
Sì. Come conosciamo la vergogna? Conosciamo perfettamente la colpevolezza, sappiamo di che si tratta, e la vergogna è la conseguenza della colpevolezza: dei nostri atti, del nostro linguaggio, dei nostri testi. Sappiamo quando mentiamo, quando non diciamo il vero, quando non lo diciamo tutto. Sempre.

Che influenza ha oggi la rete da un punto vista sociale, e come interviene nei rapporti tra gli individui?
L’influenza è enorme. Basta pensare alla qualità e alla quantità di informazione e sapere che circola sulla rete. Quanto a come questa agisca sugli individui… Possiamo esaminarla da angolazioni diversi. Prendiamo ad esempio i ragazzi: quando ero ragazzo io la propria personalità la si costruiva con la lettura e la scrittura. Si trattava di coltivarsi, di sviluppare la propria identità in un modo tutto individuale, crescendo dentro se stessi. Oggi non è più così. I ragazzi oggi creano la propria identità fuori dal loro essere, dal loro corpo. Appunto, sulla rete, con uno schermo… Si va su Facebook o Twitter, e si comunica con sms, chattano. Il tuo blog è la tua reputazione, è la tua identità. E l’insieme di tutti i network sono di fatto l’estensione della tua identità. Questo è un modo abbastanza forte di cambiare la nostra immagine, il nostro essere, direi.

La globalizzazione di noi stessi e dei nostri rapporti…
Una globalizzazione che è ancora abbastanza incosciente, ma che diviene sempre più cosciente. Possiamo portare il mondo in tasca, ma di quel mondo siamo anche sempre a disposizione: affascinante e terrificante al tempo stesso. Semmai, oggi abbiamo un grande problema: fino a che punto le autorità dei vari paesi consentono un accesso alla rete davvero libero. Il paradosso è che per certi aspetti in rete si è liberi ma si è anche in prigione, obbligati a seguire certi percorsi, senza mai avere la certezza di aver scelto in piena libertà…

Però ha appena detto che l’influenza della rete è enorme…
Ribadisco. Pensi all’elezione di Obama. Senza la rete, senza i social network, senza i piccoli gruppi di interesse che si sono messi insieme e hanno a loro volta costruito una rete, mai sarebbe possibile pensare all’elezione di un presidente di colore negli Stati Uniti. La società sta cambiando profondamente. Oggi anche le associazioni professionali, i gruppi più vari e diversi, possono uscire dalla limitatezza della possibilità di interagire col mondo grazie alla rete. La rete dà una flessibilità sociale assolutamente nuova.

Vale anche per la medicina?
Certo. Pensi a una certa tipologia di in-formazione tipica del vostro mondo: gruppi di persone che si coagulano intorno a problemi specifici per rispondere o comprendere problemi altrettanto specifici. Si analizzano dati, fenomeni, eventi, terapie, si scambiano esperienze stando ai quattro angoli del mondo… Oppure, altra tipologia, si va sulla rete per trovare una risposta immediata a un quesito impellente, improcrastinabile. Immagino che tutti i medici lo facciano… Perché andiamo in rete? Per sapere, per trovare risposte. E qualche volta ci finiamo anche perché diamo delle risposte: si è cliccati, cioè si diventa famosi, perché si offrono risposte… Anche per la medicina succede così. La velocità dello sviluppo della comunicazione crea condizioni sociali molto spesso nuove, inedite… L’importante è non perdere il senso della responsabilità che ognuno deve avere. Insomma, non smettere di provare quel senso di vergogna che ci consente di essere socialmente equi.