Le 76th Scientific Sessions dell’ADA 2016
Le relazioni del 13 giugno 2016
I report della giornata:
I risultati dello studio LEADER
Effetti cardiovascolari e renali di empagliflozin
Collegamento tra ormoni e metabolismo
Il simposio Pathway to Stop Diabetes®
Un excursus sulle terapie per il diabete pediatrico
L’eterogeneità delle cellule beta
Revisione di morbilità e mortalità nel piede diabetico
Il riconoscimento precoce della neuropatia diabetica potrà migliorare la cura
L’esercizio fisico è vantaggioso dopo chirurgia bariatrica
I risultati dello studio LEADER
I risultati dello studio LEADER (Effect and Action in Diabetes – Evaluation of Cardiovascular Outcome Results), pubblicati all’inizio quest’anno, evidenziano che la liraglutide può ridurre il rischio di infarto, ictus o morte cardiovascolare rispetto al placebo nei pazienti con diabete tipo 2
Risultati più dettagliati dello studio sono stati comunicati all’ADA 2016 durante la sessione specifica dedicata ai risultati dello studio.
“La cosa interessante circa la liraglutide è che essa non solo è associata a una notevole riduzione della glicemia, ma anche a calo ponderale e a una modesta riduzione della pressione sanguigna, e in alcuni studi a una piccola riduzione del colesterolo e a un minor rischio di ipoglicemia” ha detto John B. Buse, MD, PhD, della University of North Carolina School of Medicine (USA), ricercatore dello studio LEADER e primo presentatore della sessione.
Il LEADER è il trial più lungo fino a oggi eseguito sugli esiti cardiovascolari ora richiesti dalla Food and Drug Administration per i farmaci del diabete, ha osservato Buse. Gli investigatori, ha poi ricordato, hanno progettato il trial per fornire dati conclusivi circa la sicurezza cardiovascolare di liraglutide rispetto all’attuale standard di cura del diabete tipo 2.
I risultati dello studio vanno da un minimo di 3,5 anni di follow-up e un massimo di 5 anni Originariamente lo studio non era destinato ad avere un follow-up così lungo, ha osservato Buse, ma le autorità di regolamentazione hanno spinto ad avere un periodo di follow-up minimo di 3,5 anni.
Lo studio è iniziato nel 2010 e ha arruolato due distinte popolazioni: pazienti affetti da diabete tipo 2 o con un evento cardiovascolare precedente o ad alto rischio di eventi cardiovascolari in base all’età e ad altri fattori di rischio. I pazienti di entrambi i gruppi erano al primo trattamento farmacologico con ipoglicemizzante orale o con insulina o con una combinazione.
I pazienti che hanno avuto un precedente evento cardiovascolare avevano un’età media ≥50 anni e avevano almeno una comorbilità, come malattie cardiovascolari concomitanti, malattia cerebrovascolare, malattia vascolare periferica, insufficienza renale cronica, o insufficienza cardiaca cronica.
I pazienti che non avevano precedenti eventi cardiovascolari al basale avevano almeno 60 anni di età e avevano un fattore di rischio cardiovascolare: macroalbuminuria o proteinuria, ipertensione e ipertrofia ventricolare sinistra, disfunzione diastolica o sistolica ventricolare sinistra, o indice caviglia-braccio inferiore a 0,9.
La popolazione dello studio comprendeva circa 400 pazienti con riduzioni moderate della velocità di filtrazione glomerulare stimata (da 30 a 59 ml/min per 1,73 m2) e 200 pazienti con grave riduzione della velocità di filtrazione glomerulare stimata (<30 ml/min per 1,73 m2).
L’arruolamento è iniziato nel settembre 2010 e si è concluso nell’aprile 2012. Lo studio ha seguito 9340 pazienti in 410 siti in 32 paesi. L’età media dei pazienti era di 64,3 anni, con un indice di massa corporea media di 32,5, e il 64,3% dei partecipanti era composto da uomini. La maggior parte dei pazienti, l’81,3%, ha avuto un precedente evento cardiovascolare, mentre il restante 18,7% era ad alto rischio, ma non aveva avuto un evento cardiovascolare al momento dell’arruolamento.
L’endpoint primario dello studio era il tempo dalla randomizzazione di un esito composito costituito da morte cardiovascolare, infarto miocardico non fatale o ictus non fatale.
“Oltre agli esiti cardiovascolari, c’erano preoccupazioni con questa classe di farmaci per le pancreatiti, carcinoma midollare della tiroide, e altri eventi avversi” ha detto Buse.
L’interesse per lo studio LEADER va al di là dello studio stesso, ha aggiunto Buse. “Di tutti trial eseguiti indagando i farmaci per il diabete su esiti cardiovascolari, solo empagliflozin ha offerto risultati positivi simili. Uno studio su lixisenatide, un agonista del recettore GLP1 in fase di sviluppo, non ha mostrato alcun beneficio cardiovascolare”.
Ha continuato Buse: “Ci saranno molte discussioni nel corso dei prossimi mesi e anni sul perché tanti trial non hanno mai mostrato un beneficio cardiovascolare e ora invece due studi mostrano benefici. Le prospettive per i pazienti con diabete di vivere una vita piena e libera da disabilità legate al diabete continuano a migliorare”.
Effetti cardiovascolari e renali di empagliflozin
All’ADA 2016 sono stati presentati i tanto attesi dati su empagliflozin dal trial EMPA-REG OUTCOME, tra cui gli esiti renali dati e un’analisi dei benefici cardiovascolari del farmaco.
“EMPA-REG OUTCOME è il primo studio che ha analizzato sistematicamente gli esiti renali in uno studio clinico a lungo termine con gli inibitori SGLT2” ha detto Christoph Wanner, MD, dell’ospedale universitario di Würzburg, in Germania. “Inoltre, empagliflozin è risultato essere il primo farmaco per il diabete a mostrare benefici cardiovascolari nel diabete tipo 2, quando i primi risultati dello studio EMPA-REG sono stati pubblicati nel settembre del 2015”.
“I clinici hanno cominciato a mettere in discussione i tradizionali approcci alla gestione del diabete” ha detto il senior investigator Silvio E. Inzucchi, MD, dello Yale Diabetes Center presso la Yale Medical School (USA). “Abbiamo trovato una sorprendente riduzione della mortalità cardiovascolare. Questo non era mai stato dimostrato con qualsiasi altro farmaco per il diabete. Ora stiamo approfondendo i dati renali e anche il tentativo di valutare i possibili meccanismi che potrebbero spiegare il beneficio cardiovascolare”.
I ricercatori hanno progettato il trial per esaminare gli effetti a lungo termine di empagliflozin, inibitore del cotrasportatore glucosio sodio 2 (SGLT2). Il farmaco aumenta l’escrezione urinaria di glucosio, producendo significativi miglioramenti nella glicata e nel calo ponderale, come pure nella riduzione della pressione arteriosa senza aumento della frequenza cardiaca.
Lo studio comprendeva 7020 pazienti con diabete tipo 2, arruolati in 590 siti in 42 paesi. I pazienti sono stati randomizzati a placebo (2333 pazienti), 10 mg (2345 pazienti) o 25 mg di empagliflozin (2342 pazienti) e seguiti per una media di 3,1 anni. L’outcome primario era il tempo di morte cardiovascolare o la prima occorrenza di infarto miocardico (IM) non fatale o ictus non fatale. Altri risultati prespecificati erano la morte cardiovascolare, l’IM non fatale, l’ictus non fatale, l’ospedalizzazione per insufficienza cardiaca e la mortalità per tutte le cause.
Empagliflozin ha mostrato una riduzione del 38% nella morte cardiovascolare e una riduzione del 32% di mortalità per tutte le cause, ha detto Inzucchi. E ha ricordato che l’unico altro farmaco che ha dimostrato benefici cardiovascolari è la liraglutide, un GLP-1 agonista del recettore (studio LEADER), mentre studi recenti su altri farmaci ipoglicemizzanti sono stati neutrali sugli outcome cardiovascolari.
Inzucchi ha poi ribadito che nello studio EMPA-REG sono stati per la prima volta mostrati benefici cardiovascolari da parte di un farmaco per il diabete in un gruppo di pazienti ad alto rischio e “credo che ciò cambierà il panorama del trattamento del diabete”. “Ci siamo chiesti tutti quali potrebbero essere le ragioni di tale effetto cardiovascolare” ha detto Inzucchi. “Forse la riduzione della glicemia, la riduzione della pressione arteriosa, il calo ponderale, l’effetto diuretico del farmaco, o qualcosa di completamente diverso? Ci sono state molti commenti su questo nel corso degli ultimi mesi”.
C’è stato anche un dibattito sugli effetti renali di empagliflozin, e sugli inibitori SGLT2 come classe, ha proseguito Inzucchi. I primi dati suggeriscono che l’inibitore SGLT2 potrebbe ridurre l’escrezione di albumina, ma c’erano anche indicazioni che l’inibitore SGLT2 causi una riduzione del tasso di filtrazione glomerulare emodinamicamente mediata. Tuttavia altri studi non hanno confermato tali dati.
“EMPA-REG OTCOME è il primo studio che ha analizzato sistematicamente gli esiti renali in uno studio clinico a lungo termine con gli inibitori SGLT2,” ha dichiarato Christoph Wanner, MD, dell’ospedale universitario di Würzburg, in Germania.”
Collegamento tra ormoni e metabolismo
Gli ormoni giocano un ruolo chiave nella omeostasi energetica e nella regolazione metabolica e nell’obesità, nel diabete e in un’ampia varietà di altri disturbi. Comprendere questi ruoli e quali strategie elaborare per manipolare gli ormoni per alterare la progressione della malattia è stato un work in progress per decenni.
All’ADA 2016, nella sua Award Lecture intitolata: “Controllo ipotalamico della fame e controllo sistemico neuronale del metabolismo e regolazione dei comportamenti complessi e longevità”, Tamas L. Horvath, DVM, PhD, della Yale University School of Medicine (USA), vincitore del premio Outstanding Scientific, ha descritto due decenni della ricerca che sta conducendo alla più profonda comprensione dei meccanismi ormonali che guidano i circuiti neurali che influenzano l’apprendimento e la memoria, nonché comportamenti complessi.
Horvath ha iniziato i suoi studi quando gli è stato assegnato un progetto di studio sul rapporto tra due sottoinsiemi di neuroni e ipotalamo. “A quel tempo, la domanda era come questi neuroni avrebbero potuto essere rilevanti nel controllo dei cicli ovarici” ha detto. “Abbiamo descritto un circuito neuronale che ora sappiamo essere fondamentale per l’alimentazione e la sazietà, ma nel 1992 non sapevamo nulla di tutto ciò. Abbiamo allora ipotizzato che il rapporto tra questi neuroni fosse rilevante anche per il controllo dell’appetito. Si è scoperto che avevamo ragione”.
Due anni più tardi fu scoperta la leptina, poi la grelina e una miriade di altri ormoni parasimpatici che contribuiscono alla regolazione dell’appetito, della sazietà, dell’obesità, del diabete e di altre condizioni metaboliche.
“Gli effetti di leptina, grelina, estrogeni, tironine e altri ormoni vanno ben oltre la regolazione dei sistemi metabolici e mantenimento dell’omeostasi” ha detto Horvath. “Gli stessi processi e meccanismi che regolano l’alimentazione e che, quando si alterano, contribuiscono a obesità e diabete, possono essere altrettanto importanti per l’apprendimento, la memoria, comportamenti di dipendenza, e anche la durata della vita”.
“Non posso ancora dare uno schema preciso di tali meccanismi, ma mentre i neuroni ricevono segnali dalla periferia per mezzo di ormoni e sostanze nutritive, sono anche collegati a una varietà di sistemi fisiologici per poter modificare il comportamento nel modo più opportuno” ha spiegato. “Hub neurali nell’ipotalamo e in altre aree inviano segnali a svariate aree inclusa la periferia, attraverso il sistema nervoso simpatico e l’ipofisi per dirigere e coordinare il comportamento”.
I comportamenti complessi sono controllati attraverso molteplici percorsi e più hub neurali che forniscono backup e ridondanza per le esigenze chiave della sopravvivenza come l’appetito e contribuiscono a comportamenti vitali come l’alimentazione. I sistemi di controllo ridondanti utilizzando più percorsi e sono parte del motivo per cui è così difficile cambiare i comportamenti fondamentali. La alterazione della regolazione dell’appetito può portare a obesità, diabete e morte precoce; tuttavia, il corpo resiste ai tentativi di ridurre l’apporto energetico.
“Se si tenta di ridurre l’appetito, il tentativo viene respinto perché il sistema metabolico è predisposto per mantenere l’appetito” ha detto Horvath. “Senza l’appetito, l’organismo non si alimenta e muore. E’ difficile manipolare l’appetito in modo tale che sia costante, affidabile e non produca conseguenze indesiderate”.
“Ed è altrettanto difficile regolare la sazietà senza avere conseguenze” ha aggiunto. “La sensazione di sazietà è indotta in parte dalla produzione di radicali liberi dell’ossigeno.
La sensazione di sazietà fisiologica è correlato al livello dei radicali liberi”.
“Se si tratta il diabete con la soppressione dell’appetito e con la sazietà, si può perdere peso, ma si può provocare danno a causa dell’aumento dei radicali liberi” ha concluso Horvath. “E ‘difficile giocare con questi sistemi metabolici senza effetti collaterali”.
Il simposio Pathway to Stop Diabetes®
L’American Diabetes Association’s Pathway to Stop Diabetes® ha finanziato tre classi di ricercatori, molti dei quali hanno già dato notevoli contributi nel campo della ricerca sul diabete. E sei di essi hanno fornito aggiornamenti sulle loro più recenti scoperte.
Celine Emmanuelle Riera, PhD, un post-doctoral fellow presso l’Università della California di Berkeley (USA), ha discusso i risultati dalla sua ricerca su come l’olfatto influisce sulla salute metabolica e l’obesità. “Abbiamo neutralizzato i neuroni sensoriali olfattivi nei topi utilizzando la morte cellulare mediata dalla tossina difterica” ha spiegato. “Sorprendentemente, abbiamo scoperto che i topi con ridotta acuità olfattiva sono resistenti alla obesità indotta e presentano un aumento della termogenesi nei depositi di grasso bruno e inguinali”. Il gruppo di ricerca ha anche scoperto che “la perdita di capacità olfattiva dopo l’insorgenza di obesità non ritarda solo ulteriormente l’aumento ponderale, ma anche riduce significativamente l’obesità e la massa grassa” ha aggiunto Riera. “Presi insieme, questi risultati evidenziano l’esistenza di una comunicazione attiva dal sistema sensoriale olfattivo al sistema nervoso centrale, una regolazione dell’omeostasi energetica legata al rilevamento dei segnali dei nutrienti” ha concluso Riera.
Stephen C.J. Parker, PhD, del Departments of Computational Medicine & Bioinformatics and Human Geneticsdella Medical School dell’Università del Michigan (USA), ha riferito le sue scoperte sulla regolamentazione genetica ed epigenetica nel diabete tipo 2 del muscolo scheletrico umano. Parker e colleghi sono stati in grado di identificare i geni bersaglio e specifiche variazioni genetiche che predispongono al diabete e in che modo tali variazioni influenzano l’espressione dei geni. “La cosa interessante è che nel diabete tipo 2 sembra che quasi tutte le piccole variazioni nel genoma non si verifichino all’interno dei geni” ha spiegato Parker. “Ma si verificano al di fuori dei geni, il che suggerisce che esistano elementi regolatori che controllano quando, dove, e quanto i geni si debbano attivare. La comprensione dei meccanismi di come queste variazioni genetiche agiscono autorizza a prevedere molti obiettivi terapeutici e potrebbe avere implicazioni significative per la diagnosi della malattia e la prognosi”.
Marie-France Hivert, MD, MMSc, del d Department of Population Medicine della Harvard Medical School e Harvard Pilgrim Health Care Institute (USA), ha illustrato i risultati dalla sua ricerca indagando se le caratteristiche della glicemia al di fuori della gravidanza sono associate con caratteristiche durante la gravidanza. “Usando varianti genetiche che sono note per essere associate con la glicemia a digiuno al di fuori della gravidanza, abbiamo costruito un punteggio di rischio genetico e testato la nostra coorte per vedere se questo punteggio fosse stato associato con la glicemia a digiuno nelle donne in gravidanza nel secondo trimestre” ha detto Hivert. Al contrario, quando i ricercatori hanno testato varianti genetiche note per l’insulina a digiuno, hanno scoperto che le determinanti genetiche dell’insulina a digiuno al di fuori della gravidanza non erano associate con l’insulina a digiuno durante la gravidanza. Ha detto Hivert: “Ciò potrebbe significare che l’architettura genetica che influenza l’insulina a digiuno è diversa dentro e fuori della gravidanza, o potrebbe anche significare che ci sono tanti altri fattori fisiologici che influenzano l’insulina a digiuno durante la gravidanza che sostituisce le determinanti genetiche che vediamo al di fuori della gravidanza”.
Michael D. Dennis, PhD, assistant professor di Cellular and Molecular Physiology alla Pennsylvania State University College of Medicine (USA), ha esposto i risultati della sua ricerca che studia il ruolo della proteina REDD1 in risposta allo stress nello sviluppo delle complicazioni neurovascolari della retinopatia diabetica. Dennis e colleghi di ricerca hanno dimostrato che l’espressione di REDD1 è elevata nella retina di topi diabetici e questo è necessario per alcuni dei primi cambiamenti nell’espressione genica che si verificano in risposta all’iperglicemia presente nel diabete. “Nel nostro studio, abbiamo eliminato il gene REDD1 nei topi e abbiamo scoperto che, a differenza dei topi di controllo, i topi privi di REDD1 mantenevano la loro visione anche in presenza di diabete scompensato” ha spiegato Dennis. “Il passo successivo è stato quello di sviluppare strumenti molecolari che siano in grado di regolare l’azione di REDD1 con la speranza di migliorare gli outcome nelle persone con diabete”.
Thomas Delong, PhD, della University of Colorado di Denver (USA), ha presentato i risultati della sua ricerca che ha studiato il potenziale innesco dell’autoimmunità delle cellule beta nel diabete tipo 1. “Abbiamo identificato una nuova forma di antigeni nelle cellule beta che viene preso di mira dalle cellule T innescando la malattia nei topi, così come da parte delle cellule T isolate dalle isole pancreatiche residue delle persone con diabete tipo 1” ha detto Delong. “Questi antigeni sono il risultato di una fusione covalente tra frammenti di insulina ad altri peptidi trovati nelle cellule beta. Le sequenze aminoacidiche di tali peptidi ibridi di insulina non sono codificati nel DNA di un individuo e forniscono una spiegazione plausibile di come il sistema immunitario non li riconosca, portando allo sviluppo di diabete tipo 1”.
Infine, Stephanie Stanford, PhD, della Division of Cellular Biology al La Jolla Institute for Allergy and Immunology, ha discusso i risultati della sua ricerca, che suggeriscono che il basso peso molecolare della proteina tirosin-fosfatasi potrebbe essere un bersaglio promettente per le strategie terapeutiche correlate all’obesità per diabete tipo 2.
Un excursus sulle terapie per il diabete pediatrico
All’ADA 2016, l’annuale simposio congiunto ADA/JDRF (Juvenile Diabetes Research Foundation) ha trattato aggiornamenti su microinfusori e monitoraggio continuo del glucosio (CGM) utilizzati nel diabete pediatrico, la somministrazione di insulina automatizzata, le sfide dei dati real-time, e le modalità di somministrazione alternativa per il glucagone e insulina.
Jenise C. Wong, MD, PhD, della University of California, San Francisco (USA), ha rivisto lo stato attuale dei microinfusori e del CGM impiegati nei bambini con diabete tipo 1. “Capire l’esperienza del paziente con microinfusore e CGM può aiutare i gli educatori a sostenere i pazienti e le loro famiglie nell’utilizzo di queste tecnologie” ha detto Wong.
“Recenti studi epidemiologici su microinfusori per insulina e l’uso di CGM in pediatria, che sono stati eseguiti in contesti di pratica diversi e in grandi popolazioni da una varietà di paesi, hanno riportato la prevalenza di uso del microinfusore e di CGM con la sospensione in caso di ipoglicemia” ha detto Wong. “Altri studi hanno fornito nuove e importanti informazioni su entrambi i vantaggi e le limitazioni di utilizzo del dispositivo.”
Jennifer L. Sherr, MD, PhD, della Yale University School of Medicine (USA), ha discusso l’evoluzione della terapia con glucagone e gli sforzi per somministrare il glucagone più facilmente in caso di emergenza.
“Sappiamo che la terapia con glucagone è fondamentale per il trattamento dell’ipoglicemia grave. I preparati disponibili in commercio, tuttavia, richiedono più passaggi al fine di ricostituire il farmaco” ha detto. “La buona notizia è che ora stiamo valutando un certo numero di diverse metodologie per cercare di superare questa barriera. L’obiettivo è quello di sviluppare kit più facili da usare quando sia necessario il trattamento in una situazione di emergenza”.
La Sherr ha aggiunto: “I metodi di somministrazione del glucagone alternativi che hanno mostrato risultati promettenti sono i preparati di glucagone intranasale e formulazioni di glucagone solubili, che possono anche avere anche applicazioni nel pancreas artificiale biormonale”.
E ha ribadito: “Le nuove terapie con glucagone hanno il potenziale di rivoluzionare davvero il modo in cui trattiamo l’ipoglicemia grave. Siamo sull’orlo di un importante passo avanti e, si spera nell’approvazione commerciale di questi nuovi prodotti. Nella popolazione pediatrica, avere un prodotto che può essere facilmente somministrato è di impatto non solo per i genitori e i bambini ma anche per insegnanti, autisti di autobus, allenatori, e tutti coloro che potrebbero avere a che fare con caso di emergenza”.
Saleh Adi, MD, della Madison Clinic for Pediatric Diabetes at the University of California, San Francisco (USA), ha discusso di come i medici possono utilizzare la massa di dati a loro disposizione. I dispositivi per la cura del diabete possono generare e salvare una mole di dati, ha osservato Adi. “Ma è tutto utile?” si è chiesto.
“Ci sono forse troppi dati” ha risposto. “Io credo che i dati siano tutti utili, abbiamo solo bisogno di imparare a usarli. L’evidenza ci dice che più dati sono associati a migliori risultati, ma che attualmente noi lasciamo un sacco di dati utili sul tavolo senza utilizzarli”.
Adi ha detto che gli sforzi su larga scala sono necessari per sfruttare i dati e standardizzare i formati. Sono necessari anche studi pilota per dimostrare l’importanza dei dati e il modo migliore per utilizzarli.
Al termine della sessione, Trang T. Ly, MBBS, FRACP, PhD, della Division of Pediatric Endocrinology and Diabetes della Stanford University School of Medicine (USA), ha parlato delle potenzialità della somministrazione di insulina automatizzata e pancreas artificiale biormonale in età pediatrica.
L’eterogeneità delle cellule beta
Le cellule beta non sono tutte uguali. Questa eterogeneità è stata riconosciuta fin dal 1960, ha osservato Heiko Lickert, PhD, direttore dell’ Institute of Diabetes and Regeneration Research di Monaco di Baviera, in Germania ma i primi studi su cellule beta erano generalmente incentrati sulle differenze in termini di dimensioni, granularità, secrezione di insulina e altri fattori fisici. I ricercatori si stanno ora concentrando sulle differenze molecolari e funzionali delle cellule beta.
All’ADA 2016, Lickert e altri tre ricercatori hanno presentato le loro ultime scoperte sulla proliferazione delle cellule beta nel corso di un simposio congiugnto ADA-EASD (ADA and the European Association for the Study of Diabetes).
“Uno dei motivi per prendere in esame le differenze tra le diverse popolazioni di cellule beta è quello di identificare quali sottotipi potrebbero essere utili per la rigenerazione e la sostituzione delle cellule beta” ha spiegato Lickert. Il suo laboratorio ha identificato un marcatore, il flattop (Fltp), che divide le cellule endocrine in due distinte popolazioni: Fltp+ e Fltp-.
Circa il 75% delle cellule beta sono Fltp+ e circa il 20%sono Fltp-, ha detto Lickert. “Le cellule beta Fltp+ sono mature e producono insulina. Le cellule Fltp- sono immature e altamente proliferative ma producono poca o niente insulina. Le cellule beta rimanenti sono in fase di transizione tra il Fltp- e Fltp+ in risposta alla richiesta metabolica per la produzione di insulina e di altri fattori”.
“Potremmo essere in grado di attivare la proliferazione e maturazione in cellule beta Fltp-” ha sottolineato Lickert. “Abbiamo bisogno di imparare di più sui processi di proliferazione e maturazione, che sono essenziali per la terapia di sostituzione delle cellule beta”.
Ola Carlsson, MD, PhD, Medical Cell Biology della Uppsala University,in Svezia, sta indagando sulla eterogeneità vascolare delle insule. E all’Ada 2016 ha spiegato che la circolazione è essenziale per l’ossigeno e il trasporto di nutrienti, il rilevamento dei livelli del glucosio, la distribuzione di insulina e altri ormoni secreti, e segnalazione paracrina.
“Le insule captano il 10% del flusso totale di sangue del pancreas, ma esse rappresentano solo per l’1 per cento della massa pancreatica” ha detto Carlsson. “Circa il 20-30% delle isole sono scarsamente ossigenate e non sono molto metabolicamente attive. Gli altri isolotti sono altamente perfusi e altamente funzionali. Il lato oscuro è che queste cellule altamente perfuse sono anche molto sensibili alla morte delle cellule beta”.
Le insule altamente perfuse hanno più probabilità di morire per ipossia o per effetto delle citochine dopo il trapianto di insule, ha concluso Carlsson. Ma se sopravvivono al trapianto, hanno maggiore probabilità di essere vascolarizzate e diventare funzionali.
Wen-Hong Li, PhD, dello University of Texas Southwestern Medical Center (USA), si sta occupando della eterogeneità nella funzione delle cellule beta. La massa cellulare beta non è sufficiente a spiegare l’omeostasi del glucosio, ha spiegato, sottolineando che solo circa la metà dei pazienti che si sottopongono a pancreatectomia parziale sviluppano un diabete.
“Ciò suggerisce che la massa delle cellule beta non è un fattore chiave nella regolazione del glucosio. Mentre la chiave è la funzione delle cellule beta” ha detto Li.
Poiché lo zinco è cosecreto con l’insulina, Li ha utilizzato un test a base di zinco per stratificare le cellule beta in base ai livelli secrezione di insulina. L’aggiunta di un marcatore di esocitosi-endocitosi di attivazione accoppiato, o ACEETag, permetterebbe ai ricercatori di marcare le cellule beta produttrici di insulina e di separarle con la citometria a flusso.
“Stiamo lavorando sul trascrittoma profilando e analizzando l’espressione genica nelle nostre due sottopopolazioni” ha detto Li. “Potremmo essere in grado di utilizzare ACEETagging per separare le cellule beta funzionali per la selezione clonale e la terapia di sostituzione delle cellule beta”.
Infine, Philip R. Streeter, PhD, della Oregon Health & Science University (USA), ha illustrato la propria ricerca, che utilizza marcatori di superficie cellulare per catalogare i sottotipi di cellule beta. Dopo aver valutato più di 6000 ibridomi umani/topo, il suo laboratorio ha sviluppato schemi di anticorpi che identificano in modo affidabile quattro sottotipi di cellule beta in cultura e nel tessuto pancreatico.
“I sottotipi sono tutti molto beta-simili, ma un certo numero di geni avrebbe una distribuzione significativamente diversa nei quattro sottotipi” ha detto Streeter. “Alcuni di questi geni influenzerebbero la secrezione di insulina”.
C’è poca differenza nella distribuzione dei sottotipi di beta cellule tra gli individui senza diabete, ha concluso Streeter, mentre la distribuzione dei sottotipi nei soggetti con diabete tipo 2 è molto variabile.
Revisione di morbilità e mortalità nel piede diabetico
All’Ada 2016, durante la sessione Morbidity and Mortality Conference for the Diabetic Foot – What Went Wrong and Why, quattro esperti hanno condiviso casi-studio che illustrano varie complicanze del piede diabetico, tra cui la neuroartropatia di Charcot, complicanze vascolari, complicanze di malattie infettive, e ulcere del piede diabetico.
Katherine M. Raspovic, DPM, chair dell’ADA’s Foot Care Interest Group e assistant professor di Plastic Surgery al MedStar Georgetown University Hospital e di Podiatric Surgery al MedStar Washington Hospital(USA) ha presentato il caso di una donna diabetica di 58 anni alla quale l’arco del piede sinistro era crollato.
La paziente si è inizialmente presentata al Pronto Soccorso, ove le venne detto che le sue radiografie erano normali. Ha continuato a avere dolore ed è tornata in ospedale, dove Raspovic l’ha visitata, ha eseguito nuove radiografie e ha scoperto che il suo problema del piede era una neuroartropatia di Charcot. La Raspovic ha invitato la donna a smettere di fumare e perdere peso al fine di ridurre i valori di glicata. Sono state necessarie circa 3 settimane per fare entrambe le cose; a quel punto la Dot.ssa Raspovic ha eseguito l’intervento chirurgico.
La lezione appresa dal caso, ha detto la Raspovic, “è che bisogna assicurarsi che le radiografie siano fatte con attenzione, è necessario eseguire un esame neurologico, si deve immobilizzare il paziente e coinvolgerlo nella cura”.
Misaki Kiguchi, MD, chirurgo vascolare presso il MedStar Georgetown Hospital (USA), ha esaminato il caso di una donna di 48 anni con malattia renale allo stadio terminale, con diabete 2 non controllato e un’infezione al piede di sinistra da 3 settimane. Al Pronto Soccorso la paziente è stata sottoposta a debridement di emergenza. Un’angiografia ha evidenziato una stenosi tibiale ed è stata sottoposta a intervento di bypass. Tuttavia, l’infezione del piede della donna era troppo estesa per guarire. Kiguchi ha quindi eseguito una amputazione sotto il ginocchio (BKA).
“Quando un piede non è più recuperabile?” si è chiesto Kiguchi. “E’ una domanda che ci poniamo spesso nel nostro gruppo, perché dobbiamo dire al paziente e ai suoi familiari che un lungo intervento chirurgico con bypass farà risparmiare un piede diabetico, però ha i propri rischi e comporta un tempo di recupero lunghi”.
Mark Abbruzzese, MD, specialista in malattie infettive presso il MedStar Georgetown Hospital (USA), ha presentato il caso di un uomo di 56 anni, obeso, con una storia familiare di malattia metabolica, malattia coronarica e ipertensione. E’ stata impostata terapia ed è stato perso al follow-up.
Il paziente ha poi sviluppato un’ulcera dell’alluce con osteomielite e sono quindi stati rilevati un’HbA1c >8, diabete e ipertensione. Ha subito un intervento chirurgico per l’ulcera e 3 anni dopo è ha ricevuto un’amputazione transmetatarsale.
“Le infezioni degli arti portano con sé significativa morbilità e mortalità. Trattarle comporta un complicato processo multisistemico che richiede un approccio multidisciplinare” ha detto Abbruzzese.
Infine, Andrew J. Boulton, MD, DSC, FACP, FRCP, della University of Manchester (Regno Unito) e dellaUniversity of Miami (USA), ha esaminato il caso di una donna di 40 anni con diabete tipo 2 e una glicata <10. La paziente, cieca per retinopatia diabetica, aveva subito la BKA di entrambi gli arti ed era in dialisi.
“Questa signora ha una possibilità di sopravvivere a 2 anni inferiore al 25%” ha detto Boulton. “Negli ultimi 5 anni, i miei colleghi ed io abbiamo dimostrato in una serie di pubblicazioni che oltre il 75% delle persone che hanno avuto amputazioni e sono in dialisi muoiono nel giro di 2 anni”.
Il riconoscimento precoce della neuropatia diabetica potrà migliorare la cura
“La fenotipizzazione del dolore e il neuroimaging hanno migliorato il trattamento del dolore neuropatico nel diabete, tuttavia continuiamo ad avere ancora molte ulcere del piede e amputazioni”. Lo ha detto, all’ADA 2016, Katherine Gallagher, MD, assistant professor di chirurgia al Samuel and Jean Frankel Cardiovascular Center della University of Michigan Health System (USA). “Le amputazioni sono in aumento, e la neuropatia diabetica ne è la principale causa”.
Gallagher è stata una dei relatori che hanno discusso la cura del piede neuropatico durante la sessioneTherapy of Diabetic Neuropathy – We Can Do Better.
La maggior parte delle amputazioni nel diabete sono la conseguenza di una mancata guarigione delle ferite, ha osservato. La cascata che procede da trauma al piede a ulcera, a infezione, e termina con l’amputazione di solito inizia con neuropatia diabetica.
“Stiamo assistendo sempre più pazienti con neuroischemia, una combinazione di neuropatia e ischemia, di solito a causa di malattia delle arterie periferiche” ha detto la Gallagher. “I pazienti oltre a non sentire dolore per la ferita non hanno apporto di sangue sufficiente per la guarigione. La combinazione della neuropatia e dell’ischemia porta ad una progressione molto più aggressiva e spesso porta a un’amputazione, soprattutto se non viene fatta una diagnosi tempestiva”.
“Non riconoscere la neuropatia diabetica nelle prime fasi ha conseguenze significative. Quasi un terzo dei pazienti diabetici ha una neuropatia dolorosa” ha detto Rayaz A. Malik, del Weill Cornell Medicine del Qatar. E circa un terzo svilupperà un’ulcera del piede ad un certo momento della vita.
“Al momento non abbiamo una terapia efficace per la neuropatia diabetica, il danno del nervo è reale” ha spiegato Malik. “Ci impegniamo a migliorare il controllo della glicemia, ma i risultati sono molto limitati.”
La mancanza di strategie efficaci per invertire o prevenire neuropatia diabetica sottolinea l’importanza di terapie di alta qualità per la cura del piede durante tutto il corso della malattia, ha detto la Gallagher. I medici non sempre si rendono conto dei costi di morbilità, mortalità, e ospedalieri associati alla neuropatia.
E ha concluso: “Un attento esame del piede finalizzato a indirizzare i pazienti il più precocemente possibile a servizi specializzati o a un team multidisciplinare sia per la cura delle ferite che per la rivascolarizzazione dovrebbe essere parte del piano di trattamento”.
Il Dott. Malik ha detto che un altro passo fondamentale verso il miglioramento della cura della neuropatia diabetica è riconoscere che gli attuali modelli di ricerca e cura non funzionano. Egli ha osservato che le sperimentazioni cliniche sulla neuropatia diabetica hanno un tasso di fallimento del 100% per vari motivi, tra cui il fatto che gli studi prendono in esame quasi sempre pazienti con neuropatia avanzata. E la maggior parte degli studi usano sintomi, segni, e valutano i danni delle grandi fibre nervose, nonostante il fatto che le piccole fibre nervose siano responsabili principali dei sintomi e degli esiti della neuropatia diabetica.
“I dati di uno studio svolto con uno strumento oftalmico non invasivo mostrano come sia stato efficacemente utilizzato per mostrare le riparazioni precoci delle piccole fibre nervose, quando tutti gli altri test, come l’esame per la neuropatia, la neurofisiologia, la sensibilità vibratoria, e anche la biopsia cutanea non erano stati in grado di mostrare alcun miglioramento dopo Il trapianto combinato di rene/pancreas in pazienti diabetici di tipo 1 con neuropatia avanzata” ha detto Malik.
Ci sono i primi dati che mostrano un miglioramento nel danno delle piccole fibre nervose usando la microscopia confocale corneale in appena 28 giorni con l’impiego del peptide sviluppato dal ricercatore statunitense Anthony Cerami, PhD, noto per lo sviluppo di A1c come misura del controllo glicemico.
“E’ ora di accettare che i trial in corso per la neuropatia diabetica sono destinati a fallire” ha detto Malik. “Se vogliamo dare una possibilità di trovare nuove terapie per agire sulla neuropatia diabetica, abbiamo bisogno di sfidare i dogmi stabiliti. Starà a noi dare indicazioni chiare alla Food and Drug Administration in relazione alla progettazione dei trial ed agli endpoint per tentare di ottenere qualche risultato”.
L’esercizio fisico è vantaggioso dopo chirurgia bariatrica
L’esercizio fisico è stato a lungo una componente essenziale nel trattamento dei pazienti con diabete tipo 2. Secondo numerosi studi per i pazienti obesi con diabete tipo 2 che si sottopongono a chirurgia bariatrica, un regime di esercizio costante e di lungo periodo è particolarmente importante nel mantenimento del calo ponderale e di livelli metabolici stabili.
Tre esperti hanno esaminato il ruolo dell’esercizio fisico dopo chirurgia bariatrica nel corso della sessioneExercise as the Afterburner for the Post-bariatric Surgery Patient.
“La chirurgia bariatrica riduce il peso corporeo prevalentemente attraverso la riduzione dell’assunzione di cibo, ma c’è anche un aumento della termogenesi associata al pasto”, ha detto Carel W. le Roux, FRCP, PhD, del Diabetes Complications Research Centre presso l’University College di Dublino (Rep. d’Iranda),che ha discusso le basi fisiologiche del dispendio energetico dopo chirurgia bariatrica Roux-en-Y.
“Ogni volta che un paziente consuma un pasto, l’intestino va in overdrive e brucia una quantità significativa di calorie in eccesso come succede a fronte di cibo proveniente nel piccolo intestino nella nuova distribuzione anatomica” ha spiegato le Roux.
“Il bypass gastrico Roux-en-Y non funziona tramite restrizioni e malassorbimento, ma piuttosto attraverso cambiamenti fondamentali nella fisiologia che porta ad un aumento della sazietà, una riduzione dell’assunzione di cibo, e un aumento della termogenesi pasto-associata”.
Paul M. Coen, PhD, ricercatore presso il Florida Hospital Translational Research Institute for Metabolism and Diabetes (USA), ha discusso i meccanismi cellulari attraverso cui l’esercizio fisico può fungere da “post-bruciatorte” per migliorare il metabolismo dopo chirurgia bariatrica. La ricerca condotta da Coen e colleghi ha dimostrato che l’esercizio fisico regolare dopo chirurgia bariatrica può portare a un ulteriore miglioramento nel metabolismo del muscolo scheletrico, che potrebbe aiutare a mantenere il calo ponderale a lungo termine e a prevenire l’incremento.
“La chirurgia bariatrica è un’opzione terapeutica molto efficace ed è visto come una panacea per ridurre il peso e migliorare il metabolismo per gli individui obesi” ha detto Coen. “Tuttavia, anche con una significativa perdita di grasso dopo la chirurgia bariatrica, c’è ancora spazio per migliorare, e questo lo può offrire l’esercizio fisico”.
Coen ha sottolineato come molti medici ritengano che gli individui gravemente obesi non siano fisicamente in grado di svolgere esercizio fisico, e anche se potessero, il livello di esercizio fisico svolto non sarebbe molto vantaggioso. Ma ciò è stato dimostrato essere falso, ha affermato.
“Ora ci sono dati che dimostrano che i pazienti con obesità grave sono in grado di svolgere esercizio fisico e che ciò ha un effetto benefico sul metabolismo” ha detto Coen. “Il messaggio per il clinico è che dopo la chirurgia bariatrica l’esercizio può essere una potente terapia aggiuntiva”.
Kevin D. Hall, PhD, chief e senior investigator presso l’Integrative Physiology Section, Laboratory of Biological Modeling, al National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases,ha presentato i risultati di uno studio di confronto sui miglioramenti metabolici a lungo termine e le variazioni della composizione corporea in pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica contro il solo intervento sullo stile di vita finalizzato al calo ponderale nel reality show The Biggest Loser.
“E’ interessante notare che, nel nostro studio, abbiamo riscontrato che i soggetti Biggest Loser sono stati in grado di conservare più massa magra rispetto al calo pondereale simile in un gruppo appaiato di pazienti Roux-en-Y sottoposti a chirurgia bariatrica, che hanno perso più massa magra in proporzione al loro cambiamento di peso” ha detto Hall.
Un altro aspetto interessante di questo studio è che la coorte Biggest Loser ha subito un rallentamento sostanziale del metabolismo che, nonostante un certo recupero del peso, persisteva 6 anni dopo il calo ponderale iniziale.
“A 6 mesi dall’intervento, i pazienti Roux-en-Y hanno anche sperimentato un po’ di rallentamento metabolico, ma dopo un anno il loro metabolismo era tornato a un livello normale” ha concluso Hall.