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Il diabete tipo 1 può attendere! Una nuova speranza per la prevenzione

Punti chiave

Domanda: È possibile prevenire il diabete tipo 1 e quali sono i pazienti a rischio di svilupparlo? Che cos’è teplizumab e come funziona? Quali sono le prove scientifiche a sostegno del suo utilizzo?

Risultati: Teplizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato anti-CD3, non legante il recettore per la frazione cristallizzabile, in grado di interferire con il processo autoimmune e, quindi, di rallentare fino a 2 anni la progressione verso la diagnosi di diabete tipo 1 in soggetti ad alto rischio (stadio 2 della storia naturale di malattia).

Significato: Sulla base dei risultati ottenuti nel TrialNet TN10 anti-CD3 prevention trial (2019), la Food & Drug Administration ha recentemente approvato l’utilizzo del teplizumab come prima terapia di prevenzione per il diabete tipo 1, segnando una svolta nel panorama terapeutico che prevedeva soltanto opzioni di cura per la malattia conclamata.


A cura di Marina Valenzano

20 novembre 2022 (Gruppo ComunicAzione) – Il 17 novembre 2022 la Food & Drug Administration (FDA) ha approvato l’utilizzo della prima terapia per la prevenzione della progressione verso la diagnosi di diabete tipo 1 (DT1). Si tratta del teplizumab, anticorpo monoclonale umanizzato (da cui la desinenza “-umab”) antagonista del CD3, non legante il recettore per la frazione cristallizzabile (FcR). Il farmaco potrà essere utilizzato in soggetti in età pediatrica con più di 8 anni e in soggetti adulti. Ecco una sintesi delle informazioni disponibili sul “primo della classe”.

Che cos’è il CD3 e come agisce teplizumab?
Il CD3 (cluster di differenziazione 3) è un complesso proteico formato da quattro catene transmembrana ed esposto selettivamente sulla membrana dei linfociti T maturi. Il CD3 ha un ruolo di corecettore, associandosi al recettore di membrana TCR (T-cell receptor), insieme al quale determina l’attivazione della risposta immunitaria da parte dei linfociti T (CD8+ citotossici e CD4+ T-helper). Per questi motivi, il CD3 è stato studiato quale bersaglio per le nuove terapie biologiche che mirano a deprimere la risposta immunitaria, come nel caso della prevenzione delle malattie autoimmuni, oppure a regolarla vantaggiosamente, come nel caso della lotta contro le cellule tumorali.

Teplizumab agisce legando il CD3 e inducendo quindi uno stato di anergia (neutralizzazione) o apoptosi (morte cellulare) dei linfociti T CD8+ patologici che attaccano le cellule beta pancreatiche, produttrici di insulina. Inoltre, è stato osservato un effetto del farmaco anche sul rilascio di citochine regolatorie e sulla modulazione della risposta dei linfociti T CD4+, favorenti l’immuno-tolleranza.

Rispetto ad altri anticorpi monoclonali anti-CD3, l’assenza di affinità per il recettore FcR delle cellule effettrici consente di ridurre la tossicità dose-limitante del trattamento (ipotensione, dispnea, danno epatico e renale).

Come sono stati identificati i pazienti a rischio di DT1?
Per poter meglio comprendere e, quindi, intervenire sulla storia naturale della malattia, sono stati classificati tre stadi che identificano condizioni di rischio crescente nella progressione verso la diagnosi di DT1. Lo stadio 1 corrisponde alla presenza di autoanticorpi appartenenti alle categorie antiacido glutammico decarbossilasi (anti-GAD), anti-insula pancreatica (anti-ICA), antitirosina fosfatasi (IA2), antinsulina (anti-IA), anti-trasportatore dello zinco 8 (anti-ZnT8). A seguire, lo stadio 2 prevede l’ulteriore comparsa di alterazioni del metabolismo glicidico, documentabili con test da carico orale di glucosio (OGTT): un’alterata glicemia a digiuno (110-125 mg/dl) oppure un’alterata tolleranza al glucosio (glicemia 140-199 mg/dl al tempo +120 min) oppure ancora una glicemia transitoriamente superiore a 200 mg/dl ai tempi di rilevazione compresi tra +30 e +90 min. Lo stadio 3 coincide con il raggiungimento dell’iperglicemia conclamata, sufficiente a soddisfare i criteri per la diagnosi di diabete.

I pazienti ritenuti ad alto rischio di sviluppare DT1 possono quindi essere identificati secondo il metodo già utilizzato per il TrialNet Natural History study (condotto dal 2011 al 2018 e ora in prosecuzione come TrialNet Pathway to Prevention). I criteri comprendono: presenza di un familiare (di primo grado per soggetti con età 20-45 anni, di secondo grado per soggetti con età <20 anni) già diagnosticato con DT1; la positività del titolo anticorpale per almeno una tra le sopraccitate categorie e un’alterazione glicemica rilevabile con l’OGTT (stadio 2).

Quali prove scientifiche esistono a sostegno dell’uso clinico di teplizumab?
La sicurezza e l’efficacia del farmaco sono state valutate nell’ambito dello studio clinico di fase II TrialNet TN10 anti-CD3 prevention trial (2019). Sono stati selezionati 76 pazienti ad alto rischio (in stadio 2) con almeno due determinazioni del titolo anticorpale risultate positive per due diversi auto-anticorpi nei 6 mesi antecedenti l’arruolamento. L’età media era di 13 anni (72% minorenni) con una soglia di almeno 8 per l’ingresso nello studio. Teplizumab è stato somministrato per via endovenosa, secondo disegno randomizzato, in doppio cieco. I pazienti nel braccio di trattamento hanno ricevuto un singolo ciclo di terapia della durata di 14 giorni, con dosi crescenti (fino a 826 μg/m2 di superficie corporea).

L’intervento ha dimostrato di ritardare efficacemente la progressione verso lo stadio 3 di malattia di circa 2 anni rispetto al placebo (con un HR di 0,457 statisticamente significativo: p = 0,01). Il tasso di nuove diagnosi per anno è stato di 14,9 vs 35,9% e al termine dello studio (dopo 6 anni) 22 pazienti del gruppo trattato non avevano ancora raggiunto i criteri per la diagnosi di diabete, in confronto ai soli 7 pazienti nel gruppo di controllo. Gli effetti del farmaco sembrano essere associati a una riduzione del declino nella produzione di C-peptide e della prima fase secretoria dell’insulina. Più a monte, la terapia produce cambiamenti funzionali a carico del sistema immunitario, rilevabili come variazioni nella composizione delle sottopopolazioni di cellule T CD8+.

Gli effetti collaterali osservati includono una transitoria linfopenia (nadir a 5 giorni dalla prima somministrazione, risoluzione spontanea in circa 45 giorni) e reazioni cutanee (rash). Al contrario, non si sono verificati episodi infettivi in eccesso o alterazioni endocrinologiche rispetto al gruppo di controllo.

Conclusioni e commenti
L’approvazione FDA di teplizumab segna una svolta nel panorama terapeutico per il DT1 che, tradizionalmente, prevedeva soltanto opzioni di cura per la malattia conclamata. Il farmaco potrà essere utilizzato per rallentare la progressione di malattia in soggetti a rischio, ma non è ancora possibile sapere se il ritardo nella diagnosi possa infine tradursi in una vera e propria prevenzione (se si possa cioè impedire il raggiungimento di uno stato francamente patologico o se si riesca soltanto a posticiparlo). Infine, ulteriori valutazioni saranno necessarie per definirne il corretto impiego in termini di accessibilità e costo-efficacia.


Fonte: Comunicato FDA


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