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Ammalarsi perché? Semplice: costa meno!

Mangiare spesso nei fast food comporta un sensibile peggioramento del rischio cardiovascolare. Alimenti ricchi di grassi, di sale e di zucchero incidono negativamente sul peso, sul rischio di diabete, sulla pressione arteriosa e sui grassi nel sangue. Questo ormai è abbastanza noto. Ma perchè allora, soprattutto negli Usa, molte persone continuano a mangiare spesso in […]

Mangiare spesso nei fast food comporta un sensibile peggioramento del rischio cardiovascolare. Alimenti ricchi di grassi, di sale e di zucchero incidono negativamente sul peso, sul rischio di diabete, sulla pressione arteriosa e sui grassi nel sangue. Questo ormai è abbastanza noto. Ma perchè allora, soprattutto negli Usa, molte persone continuano a mangiare spesso in questi locali? La risposta scientifica è semplice: perchè costa meno.
I ricercatori della Gillings School of Public Health presso la University of North Carolina hanno utilizzato i dati di uno studio ventennale chiamato Cardia che ha seguito 5.115 persone tra i 10 e 30 anni all’inizio delle studio registrando periodicamente le loro abitudini alimentari e diversi inducatori della loro salute.
Lo studio ha confermato la relazione fra fast food e scompensi metabolici. Ma i ricercatori hanno incrociato la frequenza ai fast food dichiarata con i prezzi dei pasti offerti dai fast food stessi scoprendo che nei gruppi di etnia africana, o socio-economicamente svantaggiati vi è una correlazione inversa fra costo e frequenza. Detto in altre parole, le persone studiate si recavano più spesso in questi locali quando il prezzo tendeva a scendere. Al contrario l’aumento nei prezzi induceva le persone di etnia caucasica e socio-economicamente di fascia più alta a frequentare i fast food.
Il risultato è interessante perchè suggerisce la possibile efficacia di una politica di decisa tassazione su questo tipo di locali o perlomeno su alcune tipologie di alimenti servite nei fast food.

Fonte:
Sociodemographic Differences in Fast Food Price Sensitivity
Katie A. Meyer, et al
JAMA Intern Med. 2014;174(3):434-442. doi:10.1001/jamainternmed.2013.13922